È stata finalmente pubblicata l’analisi costi benefici del nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione. Soffre di gravi carenze metodologiche e risente di ipotesi arbitrarie. Particolarmente discutibili appaiono quelle su accise e pedaggi autostradali.
L’analisi costi-benefici è un modello economico
Dopo lunga attesa, è stato finalmente pubblicato il rapporto sull’analisi costi benefici del nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione, ovvero della Tav. Come facilmente intuibile dalle convinzioni espresse nel corso degli anni da alcuni dei componenti della Commissione, il progetto risulterebbe fortemente negativo, con un disvalore per la società pari a quasi 7 miliardi di euro. Anche in questo caso, come in quello del Terzo valico, oltre ai costi di investimento, giocano un ruolo fondamentale nell’alterare la valutazione la riduzione del gettito fiscale delle accise sui carburanti e i mancati ricavi da pedaggi autostradali, oltre alla sottovalutazione dell’impatto ambientale. Non sono però scelte neutrali, come invece asseriscono gli esperti, e sono tutt’altro che accettabili da un punto di vista teorico-metodologico.
L’analisi costi-benefici è un modello economico e non un metodo come spesso, erroneamente, si ritiene. In quanto tale si basa su alcune ipotesi, tra cui:
- i prezzi che vengono utilizzati (i “prezzi ombra”) non devono contenere imperfezioni, ovvero è necessario depurare quelli di mercato da tasse, sussidi e interessi perché il risultato finale possa avvicinarsi a prezzi che esprimono solo il costo (marginale) di produzione, ovvero il costo-opportunità sociale. In altri termini, l’analisi costi-benefici utilizza un sistema di prezzi alternativi rispetto a quanto comunemente osservato (di qui, la specificazione “ombra”) che contiene in sintesi il valore che la società attribuisce alle risorse consumate per costruire l’infrastruttura e ai benefici da questa prodotti, al di là della fiscalità che distorce la nostra percezione, oltre che il mercato.
- Il progetto deve essere marginale, ovvero tale da non modificare la produttività del sistema e anche le preferenze di consumatori e imprese (ipotesi tutt’altro che soddisfatta nel caso della Tav).
La questione delle accise
Per quanto riguarda il primo punto (tralasciamo qui per motivi di spazio la discussione del secondo), va da sé che, nel momento in cui si punta all’utilizzo di prezzi che si avvicinano al mondo ideale della concorrenza perfetta attraverso l’eliminazione delle distorsioni di mercato (tra cui, appunto, le tasse), è quantomeno bizzarro ritrovare i mancati introiti delle accise quale costo per la collettività. In sostanza, siamo davvero sicuri che ridurre il finanziamento della guerra in Abissinia (una delle ragioni per cui si introdussero quelle accise) sia un danno per la società?
La Commissione di esperti – che è stata istituita dal ministro delle Infrastrutture senza un bando pubblico – si è prodigata in una difesa di questa scelta (pagine 73-75), riportando affermazioni reperite in alcune linee guida che non si applicano al caso italiano (ad esempio, quelle della Banca Mondiale) o in un articolo di Yukihiro Kidokoro, che verteva su un tema diverso e che comunque è ritenuto tutt’altro che un faro metodologico nella letteratura specialistica. La difesa preventiva sostiene poi che le accise entrerebbero nell’analisi costi-benefici della Tav in due punti e con due segni opposti:
- con un segno “meno” sul versante dello stato a causa della riduzione del proprio surplus;
- con un segno “più” (ovvero come benefici) sul versante dei consumatori che, utilizzando la ferrovia, risparmierebbero sulle tasse.
Secondo gli esperti l’operazione sarebbe corretta e comunque neutrale perché le due voci si eliderebbero. Ma non è così.
Innanzitutto, non è chiaro cosa sia il “surplus del governo”, che nulla ha a che fare con il surplus di bilancio pubblico e che temiamo non esista nella teoria economica di riferimento. L’analisi costi-benefici è, infatti, invariante rispetto alle tecniche di finanziamento del progetto sottostante, per cui l’impatto sulla finanza pubblica, nell’approccio vigente in Europa, viene tralasciato ed eventualmente considerato nell’analisi finanziaria, tanto è vero che gli Esperti non hanno inserito nella valutazione i costi attesi da risarcimento dei danni cui il governo italiano andrà incontro qualora l’opera dovesse essere accantonata. Ci rendiamo conto che la tentazione di considerare “surplus del governo” ciò che accade nei conti pubblici sia forte, ma non è corretto in quanto in questa tipologia di analisi il settore pubblico si occupa solo di allocare risorse, cercando di aumentare il benessere dei cittadini. In altri termini, ancora, il “surplus di bilancio del Settore Pubblico” non coincide con il “surplus di benessere del governo” e quest’ultimo, in realtà, coinciderebbe con il benessere della società, ovvero proprio con ciò che vorremmo stimare con l’analisi costi-benefici.
In seconda istanza, i benefici sociali prodotti dai consumatori che si spostano dalla gomma al ferro valgono solo per metà (la cosiddetta “regola del mezzo”, ovvero la regola per cui, per ottenere l’incremento di benessere, si stima il triangolo al di sotto della curva di domanda dividendo per la metà il valore ottenuto dal prodotto tra i risparmi unitari e il traffico deviato). Questo implica che i minori introiti dello stato pesano il doppio rispetto ai risparmi dei consumatori. Dunque, una scelta tutt’altro che neutra.
Pedaggi e decarbonizzazione del trasporto
Un ragionamento simile e anzi potenzialmente più dannoso, data la dimensione della posta e le condizioni di monopolio naturale, riguarda i mancati ricavi da pedaggi autostradali.
Anche in questo caso, come in quello del Terzo valico, le licenze degli esperti rispetto al modello economico di riferimento producono enormi distorsioni nel risultato che viene comunicato alla politica. Sarebbe bastato applicare le semplici indicazioni delle linee guida comunitarie, che escludono il gettito fiscale e i ricavi tariffari dall’analisi, per ottenere un esito diametralmente opposto. Le linee guida comunitarie sono quelle ufficialmente adottate dal ministero delle Infrastrutture.
L’analisi soffre di altre carenze metodologiche e approssimazioni pericolose. La stampa ne ha già notate diverse. Ne ricordiamo un paio, per la loro rilevanza. I benefici in termini di miglioramento dell’inquinamento atmosferico, che tradizionalmente rappresentano una delle voci più importanti a favore dell’opera, sono stati calcolati sulla base dei soli inquinanti PM10 e NO2. Gli autori mostrano come i livelli di PM10 di una città come Chamonix siano al di sotto delle soglie limite. Si dimenticano però di includere nell’analisi inquinanti altrettanto pericolosi come PM2.5, ozono e benzopirene. Su tutti e tre l’Alta Savoia è oltre le soglie limite.
Gli autori del rapporto hanno anche opinioni molto chiare sul modo in cui il settore trasporto può ridurre le emissioni di gas serra: non tramite il cambio modale, ma esclusivamente tramite l’innovazione tecnologica dei veicoli verdi (pag. 69). Queste posizioni non sono per niente condivise dal mondo scientifico, che vede invece in ambedue le leve la chiave per decarbonizzare i trasporti, come si capisce ad esempio dall’ultimo rapporto quadro dell’Ipcc, che riassume la conoscenza scientifica sul tema. Inoltre, secondo l’approccio inedito della Commissione di esperti, la decarbonizzazione del trasporto su strada attraverso la diffusione di veicoli verdi avrebbe come costo proprio le minori entrate (se non il loro azzeramento) da accise su combustibili fossili, a meno di non andare a tassare anche il nikel-cadmio delle batterie, la produzione di energia elettrica o l’idrogeno. Un paradosso. Alla faccia della “neutralità” rivendicata dai membri della Commissione.
In definitiva, l’analisi proposta, benché utile alla discussione, soffre di gravi carenze metodologiche e risente di ipotesi arbitrarie che trovano poco riscontro nella letteratura di riferimento, ovvero quella dell’economia del benessere. E poco ha a che fare con il computo ingegneristico del valore di un’opera.
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