Il principio di autorità non è mai un argomento convincente, ed è stupefacente che venga usato proprio da tanti economisti (che si vantano di essere costituzionalmente dissacratori) nel dibattito sull’euro. Men che meno autorizza a usare i dati in maniera superficiale ed errata.
Pochi giorni fa un gruppo di 25 premi Nobel ha pubblicato sulle pagine di Le Monde un appello pro-euro. Al di là e al di qua delle Alpi, per molti quell’appello fu sufficiente per chiudere il dibattito: “ipsi dixerunt”, e questo deve bastare. Eppure, tutti sanno che tra quei premi Nobel alcuni non hanno la benché minima conoscenza di macroeconomia, e altri non si sono mai occupati di questioni europee (e qualcuno, sospetto, non saprebbe nemmeno indicare il Belgio sulla carta geografica). Le istanze degli euroscettici, per quanto in certi casi presentate confusamente, esprimono un disagio reale: meritano una trattazione meno superficiale. Da quando tra gli economisti (che si vantano di essere costituzionalmente dissacratori) vige il principio di autorità? Con le dovute proporzioni, questa situazione rischia di ricordare la Riforma protestante: a furia di ipse dixit, anatemi e scomuniche, gli scolastici, pur con tutti i loro titoli accademici e le loro cariche ecclesiastiche, si ritrovarono spazzati via da Lutero e Calvino.
L’ Argentina nel 2002: non tutto è così ovvio
Senza scomodare i premi Nobel, lo stesso atteggiamento condiscendente si ritrova anche nel dibattito nostrano. Un esempio è il modo in cui alcuni pro-euro citano spesso l’esperienza dell’Argentina, che nell’inverno del 2002, abolì il currency board (una specie di unione monetaria con il dollaro) e svalutò pesantemente.
Una svalutazione riduce il prezzo in euro delle esportazioni italiane, aumentando così la domanda di prodotti italiani e l’occupazione; ma aumenta anche il prezzo in lire delle importazioni, riducendo così il potere di acquisto dei salari e di tutti i redditi. I no-euro, sostengono i pro-euro, “la fanno facile” perché non rendono mai esplicita questo secondo effetto delle svalutazioni, che può portare a una riduzione della domanda, del Pil pro-capite, e della occupazione.
Non ci sono verità rivelate in questo campo: alla fine è una questione empirica. I pro-euro citano spesso due dati. Il Pil reale (cioè la quantità di beni e servizi prodotta nell’economia argentina) cadde nel 2002 del 12 percento, una recessione terribile. Ma omettono spesso un altro dato: subito dopo, dal 2003, il Pil cominciò a aumentare al ritmo dell’8 percento per ciascuno dei cinque anni successivi. Nel 2004 era tornato ai livelli del 2001, e dal 2005 era ben superiore. Un no-euro potrebbe, altrettanto a ragione, concludere da questi dati che la svalutazione ha funzionato.
Questo non vuole negare l’enorme sconvolgimento sociale che avvenne in quegli anni in Argentina, con un fortissimo aumento della povertà e altre drammatiche manifestazioni di malessere. Ma è ragionevole attribuire tutto questo all’abolizione del currency board? L’economia argentina sotto il currency board stava già implodendo: nei tre anni precedenti il 2002 il Pil era già sceso del 10 percento. Il currency board era semplicemente insostenibile. Se tolgo un coperchio da una pentola che bolle, il fumo che ne esce non è stato causato dalla mia azione di togliere il coperchio: anzi, posso dire di avere evitato una esplosione peggiore.
Il salario reale argentino: una clamorosa caduta …di stile
La condiscendenza è pericolosa e controproducente perché porta a trattare con superficialità argomenti complessi. In questi giorni è circolato sui social un grafico (da un lavoro di Stephanie Schmitt-Grohé e Martin Uribe, della Columbia University) che, secondo i pro-euro, chiuderebbe definitivamente la questione. Eccolo qui sotto. Rappresenta il (presunto) salario reale argentino immediatamente dopo la svalutazione: una caduta del 70%!
Cosa c’è di sbagliato nella interpretazione che è stata data di questo grafico? Una riduzione del salario reale del 70% in un anno dovrebbe immediatamente fare insospettire: neanche durante le invasioni barbariche si assistette a un simile scempio. Infatti questo grafico non mostra il salario reale nel senso di evoluzione del potere di acquisto di un salario medio argentino negli anni della svalutazione, ma il salario argentino espresso in dollari. Dopo la fine del board, il peso si svalutò di un fattore pari a quattro, il che spiega la riduzione del salario in dollari di circa il 70 percento.
Ma per calcolare il potere di acquisto del tipico salario argentino non dobbiamo usare il tasso di cambio, bensì il prezzo in pesos del tipico paniere di beni e servizi acquistati dal tipico salariato argentino, cioè l’indice dei prezzi al consumo. A quel tempo, l’Argentina era un paese abbastanza chiuso, con una incidenza delle esportazioni e importazioni sul Pil di circa il 10 percento. Il prezzo della maggior parte dei beni e servizi non aumentò certo in proporzione della svalutazione.
Non è facile trovare dati attendibili sui salari argentini prima del 2002. L’istituto di statistica argentina pubblica però il valore totale dei salari pagati ogni anno, il numero di salariati, e le ore lavorate. L’unica serie storica abbastanza lunga sui prezzi al consumo è quella dei prezzi al consumo nella grande Buenos Aires. Con questi dati, si può ricostruire il salario reale medio, sia per lavoratore che per ora lavorata. Entrambe le variabili rivelano una riduzione del 20 percento complessivo nel 2002 e 2003: fortissima e socialmente dirompente, ma ben lontana dal 70 percento del grafico. E interamente recuperata entro il 2006.
La Svezia nel 1993 e l’uso selettivo dei dati
L’economia Argentina del 2002 era molto diversa da quella italiana odierna, così come diversi furono i motivi per entrare nell’unione monetaria. Un esempio forse più interessante per l’Italia è quello della Svezia. Nel 1993, nel mezzo di una forte e prolungata recessione, la Svezia svalutò la corona rispetto al marco di oltre il 30 percento. Il Pil continuò a scendere nel 1993 del 2 percento, ma dal 1994 e per i successivi sei anni aumentò al ritmo di quasi il 4 percento annuo. Naturalmente tante altre cose avvennero in Svezia nello stesso periodo, e è difficile attribuire il rilancio dell’economia interamente alla svalutazione. Ma questo dato suggerisce che, quando si parla di fenomeni controversi, non ci sono scorciatoie: l’affermazione “una svalutazione riduce sempre drammaticamente il salario reale” non diventa automaticamente vera solo perché viene ripetuta spesso senza aver guardato i dati.
L’alterigia accademica
Personalmente credo che l’uscita dall’Euro sarebbe un disastro per l’Italia, e che il modello svedese non sia riproducibile in Italia. Ma questo è irrilevante: il mio intervento ha un intento metodologico. Come in tutte le questioni economiche (e non solo), niente autorizza a usare i dati in modo superficiale, errato e controproducente, solo perché si ritiene che l’argomentazione sia così ovvia che non vale la pena perderci tempo con persone meno qualificate accademicamente, e tutto è consentito perché il dibattito dovrebbe essere stato chiuso da un gruppo di 25 premi Nobel.
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