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Le pensioni fra rivalutazioni negative e indicizzazioni

Nell’inutile attesa di istruzioni dal Governo, alla fine del 2014 l’Inps ha sterilizzato la rivalutazione negativa dei contributi. Qualche mese dopo, la Consulta ha bocciato il blocco dell’indicizzazione. I due episodi dovrebbero stimolare una riflessione sul principio della parità di trattamento.

Il rendimento dei contributi
Lo scopo fondamentale dello schema contributivo è la parità di trattamento, garantita remunerando (rivalutando) i contributi di tutti in base a un rendimento annuo rigorosamente uniforme.
Per garantire anche la sostenibilità, cioè consentire allo schema di generare una spesa tendenzialmente pari al gettito contributivo, la riforma Dini scelse il rendimento uniforme uguale alla crescita nominale del Pil. In realtà, la scelta ricadde sul ‘rendimento quinquennale’ che si ottiene mediando i tassi di crescita registrati nei cinque anni che precedono la rivalutazione.
Alla fine del 2014, occorreva pertanto ‘rivalutare’ i contributi in base al rendimento negativo del -0,1927 per cento ottenuto mediando i tassi di crescita del quinquennio 2009-2013.
Ciò non è accaduto perché, nelle more dei lumi chiesti al Governo, l’Inps ha assunto la responsabilità di non procedere.
Il grafico accluso, che ‘ragiona’ in termini reali – cioè al netto dell’inflazione – evidenzia due aspetti interessanti. In primo luogo, per effetto della bassa inflazione del 2014, il rendimento ‘sterilizzato’ è, in realtà, il migliore dell’ultimo quadriennio.
In secondo luogo, fra il 2000 e il 2013, i contributi versati alla previdenza complementare (fondi negoziali) hanno più volte subito rendimenti negativi, cioè sono stati svalutati (perfino in termini nominali) senza destare allarme sociale. Il rendimento offerto dal secondo pilastro è stato anche più instabile e cumulativamente inferiore a quello offerto dal primo: 10,73 per cento contro 15,6 per cento.
La crescita negativa del Pil è un fenomeno ripetibile perché i cicli economici del futuro non potranno più innestarsi su trend crescenti come quelli del passato. Infatti, i nuovi saranno frenati dal mutato contesto internazionale e, soprattutto, dal declino demografico che colpirà l’Italia più dei partner europei. La sterilizzazione ripetuta dei rendimenti negativi impedirebbe allo schema contributivo di garantire il pareggio di bilancio. Perciò, occorre disciplinare la materia con la dovuta attenzione.
Il governo ritiene di averlo fatto con l’articolo 5 del Dl 21 maggio 2015, n. 65, che ratifica la scelta dell’Inps, disponendo che la rivalutazione non può essere negativa “salvo recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive”.
Purtroppo, la sterilizzazione recuperata produce iniquità perché avvantaggia chi va in pensione nel 2015, senza subire il rendimento negativo del dicembre 2014, rispetto a chi andrà in pensione successivamente, che invece deve subirlo nella forma di sconto del rendimento positivo atteso a dicembre prossimo. Insomma, il rendimento di uno stesso anno, il 2014, è nullo per taluni (i pensionati del 2015) e negativo per tal altri (i pensionati successivi).
È quindi tradita la parità di trattamento, principio fondante dello schema contributivo.
Due regole per il contributivo
Era stata suggerita una soluzione diversa. basata su un rendimento più stabile di quello attuale, e perciò meno esposto al rischio di assumere valori negativi: la media degli ultimi dieci tassi di crescita del Pil.
La terza curva del grafico mostra che il rendimento decennale è stato debolmente negativo, in termini reali, solo nel biennio 2011-12, sebbene in termini nominali si sia mantenuto positivo anche in tale frangente. Il grafico mostra, altresì, che il decennale supera il quinquennale per l’intero periodo; ciò in ragione del fatto che il Pil è andato tendenzialmente rallentando. Quando dovesse accelerare, il rendimento decennale si adeguerà più lentamente all’inversione di tendenza e perciò sarà superato dal quinquennale. Insomma, nel lungo periodo i due rendimenti sono equivalenti.
Su queste pagine è stato spiegato che lo schema contributivo deve indicizzare le pensioni in base al medesimo tasso con cui rivaluta i contributi. Infatti, lo schema è concepibile come una banca virtuale che a ognuno intesta un conto corrente, prima alimentato dal deposito dei contributi e poi prosciugato dal prelievo delle rate di pensione. Sui saldi di tutti i conti, tanto dei lavoratori attivi quanto dei pensionati, la banca deve annualmente riconoscere il rendimento sostenibile. Il rendimento accreditato all’attivo produce effetti differiti consentendo, dal pensionamento in poi, di prelevare più di quanto è stato versato. Il rendimento accreditato al pensionato produce, invece, effetti immediati. Ad esempio, se l’aspettativa di vita di un neo pensionato è di dieci anni e, in forza dei contributi depositati e dei rendimenti accreditati durante la vita attiva, il saldo del suo conto (montante contributivo) è di 100 euro, il primo prelievo (prima annualità di pensione) è consentito nella misura che si ottiene dividendo il secondo per la prima, ed è pertanto pari a 100/10 = 10 euro. Se i 90 euro che restano sul conto sono remunerati al 10 per cento, il saldo successivo è di 99 euro, così che il secondo prelievo può salire a 99/9 = 11 euro, cioè aumentare del 10 per cento rispetto al primo. Ecco che il rendimento si traduce in un’identica indicizzazione.
È stato anche spiegato che può essere anticipata, all’età del pensionamento, una quota del rendimento spettante dopo. Ciò per consentire coefficienti di trasformazione, e quindi pensioni, più generose. Per non pagare due volte la quota anticipata, occorre però recuperarla abbattendo l’indicizzazione dello stesso importo. Nell’esempio precedente, se il rendimento fosse anticipato nella misura del 3 per cento, l’indicizzazione dovrebbe essere del 7 per cento.
Insomma, lo schema contributivo si fonda sul rispetto di due regole: una per calcolare la pensione, l’altra per indicizzarla. Entrambe variano in ragione della quota anticipata del rendimento del pensionato. Ad anticipazioni maggiori corrispondono coefficienti di trasformazione più grandi, ma indicizzazioni più piccole. Perciò l’anticipazione è una scelta socialmente importante, configurandosi come la leva con cui il legislatore può disegnare il profilo temporale della prestazione pensionistica.
Paradossalmente, nel 1995 l’Italia fece la scelta (quanto consapevole?) di anticipare l’1,5 per cento ma “dimenticò” di indicizzare le pensioni contributive in base alla regola testé ricordata. Tutt’oggi i coefficienti sono maggiorati dall’anticipazione, ma alle pensioni contributive rimane estesa l’indicizzazione ai prezzi (progressiva) in vigore dal 1992 per quelle retributive. Meno disattenti sono stati gli altri paesi che hanno seguito l’esempio dell’Italia. In particolare, Svezia e Norvegia indicizzano le pensioni contributive in base alla differenza fra il rendimento e l’anticipazione, che la prima ha scelto uguale all’1,6 per cento e la seconda allo 0,75 per cento. Se l’Italia volesse finalmente fare altrettanto, a maggior ragione dovrebbe lasciare il rendimento quinquennale per quello decennale, così attenuando il rischio che la deduzione dell’1,5 per cento lasci spazio a indicizzazioni negative.
Svezia e Norvegia hanno anche evitato regole di indicizzazione differenziate nel periodo transitorio, estendendo, alle pensioni retributive, quella propria delle contributive. Anni prima, la stessa scelta era stata suggerita al governo Dini. Se fosse stata accolta, e se il rendimento fosse stato decennale anziché quinquennale, dal 1996 al 2015 l’indicizzazione delle pensioni avrebbe totalizzato l’88 per cento contro il 53 per cento generato dal cumulo dei tassi di inflazione.
In deroga alle scelte scandinave, l’indicizzazione delle pensioni retributive italiane potrebbe, sì, replicare quella delle contributive, ma essere progressiva. Se lo fosse più dell’attuale indicizzazione ai prezzi, non si dispiacerebbe la sostenibilità della spesa, né l’equità intergenerazionale.
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  1. Roberto Enrico

    La complessità del ragionamento sviluppato nell’articolo dimostra che in un sistema a ripartizione anche il calcolo contributivo ha ben poco di “oggettivo” come tassi di mercato e/o abilita’ del gestore nell’impiego dei capitale accumulato. Si tratta sempre di scelte “redistributive” compiute dal sistema politico. Qualcuno paga con i suoi contributi le pensioni di altri e può sempre trovare motivazioni anche tecniche per metterne in discussione l’equita’. Anche gli attuali lavoratori sottoposti alle regole del contributivo Dini potrebbero andare incontro a critiche dei bambini di oggi che pagheranno le loro pensioni.

  2. QualeWelfare

    Ben venga qualsivoglia provvedimento tecnico che migliori la “coerenza” in applicazone del metodo contributivo, e tuttavia mi pare che l’articolo, in linea con la maggior parte dei cotributi sul tema in Italia, manchi il punto decisivo, che riguarda il cosidetto “rischio politico” intrinseco a tutti i sistemi pensionistici pubblici (ma anche privati, per le varie possibilità di intervento sui regimi fiscali di contributi, rendimenti e prestazioni). Gli interventi della Corte e ancor più quello di INPS + conferma governativa non fanno altro che riportare al centro della questione il fatto che le regole pensionistiche (in questo caso della previdenza pubblica) sono oggetto e funzione di dinamiche politiche ineludibili. Il metodo contributivo, pur valido sotto molti aspetti, incorpora la pretesa della regolazione automatica, della “depoliticizzazione” della policy previdenziale, cosa nei fatti irrealizzabile nei fatti (si vedano gli interventi del governo svedese sul funzionamento del contributivo nel periodo della crisi), e mi si consenta di aggiungere da non perseguire in ragione della fondamentale valenza (politica e sociale) delle prestazioni pensionistiche,La cosa davvero importante è che i decisori politici agiscano responsabilmente muovendo dalla consapevolezza che il sistema a ripartizioe deve essere sostenibile, dopodichè le leve di politica pensionistica azionabili al fine di combinare la prima con adeguatezza ed equità sono svariate e, ahimè, poco esplorate in Italia

  3. Silvestro De Falco

    Un sistema previdenziale articolato secondo lo schema tradizionale, come quello illustrato in questo articolo, costituisce uno spreco indicibile del risparmio della nazione visto che una quota parte del reddito prodotto ogni mese viene sottratto e utilizzato semplicemente per pagare le pensioni in essere.
    Un sistema più moderno, in linea con le mutate condizioni demografiche, consentirebbe l’uso di quella quota non solo per pagare le pensioni in essere, ma anche per assicurare una pensione dignitosa ai futuri pensionati e fare da propellente alla crescita economica.
    Le premesse dell’articolo sono indicative: “Per garantire anche la sostenibilità, cioè consentire allo schema di generare una spesa tendenzialmente pari al gettito contributivo…”.
    Ciò significa che in un’ottica di invecchiamento della popolazione il gettito contributivo tende a diminuire, con il risultato che o diminuiscono le pensioni in essere o aumentano i contributi. In ogni caso i futuri pensionati, essi stessi vittime dell’invecchiamento, vedono ridursi sempre di più le loro pensioni – andando in pensione più tardi o con frequenti adeguamenti del coefficiente di conversione. Ed è appena il caso di far presente che la situazione è esacerbata dalla scarsa crescita, dalla disoccupazione e dall’occupazione incentivata dagli sgravi contributivi.

    • QualeWelfare

      Soluzioni dunque? tenendo conto di: invecchiamento demografico, bassa crescita, disoccupazione elevata e…last but not least…instabilità e volatilità dei mercati ..?

  4. marco

    Qualche anno fa, il tema fu trattato dal prof. nell’articolo “Pensioni contributive: come garantire la corrispettività”. Credo che sia più importante scrivere sul numero dei contributi che sul rendimento degli stessi. Sia per una migliore informazione, sia per affrontare il tema da un pdv “politico” auspico un approfondimento sul tema del “numero minimo di contributi da versare” per avere la pensione/montante in base al volume/anni dei contributi versati. Non tutti ( i giovani men che meno) forse sanno che se versano contributi per 19 anni non hanno diritto a ricevere il montante dei contributi (altro che indicizzazione).

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