Le riflessioni di Raffaele Tangorra ci fanno tornare a dibattere, come molte volte è accaduto, sugli indicatori di povertà.

QUALE RIVALUTAZIONE

È noto che la povertà relativa si misura a partire da una soglia di reddito/spesa per consumi che si muove in funzione dei cambiamenti nelle condizioni di benessere della popolazione, rilevando lo svantaggio di alcuni soggetti rispetto a tutti gli altri. Il risultato dipende appunto dalla distribuzione nella popolazione della variabile di riferimento (reddito o spesa), associandosi inequivocabilmente alle misure di disuguaglianza. Quando si utilizza la spesa per consumi, la linea di povertà relativa si sposta di anno in anno a seguito della variazione sia dei prezzi al consumo, sia dei comportamenti di acquisto delle famiglie. Ma se guardiamo solo al primo aspetto, cercando di misurare l’impatto sulla povertà della variazione dei prezzi attraverso una rivalutazione della soglia, non stiamo forse cercando di “assolutizzare” qualcosa che in realtà è “relativo”? L’Istat svolge ogni anno l’esercizio di rivalutazione, ma lo fa per distinguere quanta parte della variazione annua della linea sia imputabile all’aumento dei prezzi e quanta, invece, al cambiamento nella distribuzione dei consumi. Va però detto che la stima ottenuta considerando la linea rivalutata non corrisponde a una diversa incidenza di poveri relativi, ma al numero di quanti, in quell’anno, non hanno raggiunto uno standard di vita calcolato esclusivamente sui parametri distributivi dell’anno precedente, come se cioè null’altro fosse cambiato oltre ai prezzi.
Considerando un intervallo temporale più ampio, ad esempio tra il 2008 e il 2011, come suggerito da Tangorra, la differenza tra la stima dell’incidenza nel 2011 e quella ottenuta con la linea di povertà 2008 rivalutata al 2011, non rappresenterebbe le famiglie diventate relativamente povere tra il 2008 e il 2011, bensì il numero di quelle che, nel 2011, non hanno speso quanto necessario per raggiungere lo standard di riferimento del 2008, definito in base alla spesa media pro-capite di quello stesso anno.
Nulla vieta di considerare l’indicatore di Tangorra, come tanti altri, ma consapevoli di cosa esso significhi, e non come se ci si riferisse a un diverso numero di poveri. Peraltro, se è vero che la povertà relativa è sostanzialmente stabile nel corso del tempo, non si possono trascurare gli importanti elementi di dinamicità che sono emersi rispetto a segmenti particolari della popolazione. Nel corso degli anni, ad esempio, è peggiorata la condizione delle famiglie più ampie, quella delle famiglie monoreddito, soprattutto monogenitori o coppie con figli, quella delle famiglie operaie, di lavoratori in proprio, o con persone in cerca di lavoro (vedi Istat, Rapporto annuale 2012, cap. 2, par. 2.4.3). Non vanno poi dimenticate le caratteristiche della crisi e il fatto che nella maggioranza dei casi la perdita del lavoro ha riguardato giovani nella famiglia di origine, “protetti” dai redditi dei genitori: a significare che non necessariamente la disoccupazione del figlio ha comportato la caduta in povertà della famiglia, pur creando un grave problema per il futuro dei giovani.

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IL PROBLEMA DELLE RISORSE

Va inoltre sottolineato che un indicatore che “assolutizza” la misura della povertà relativa in termini dinamici tende a sovrapporsi a quello della povertà assoluta: non a caso, infatti, il risultato dall’esercizio proposto trova riscontro nella misura di povertà assoluta, la cui incidenza, tra il 2007 e il 2011, passa dal 4,1 al 5,2 per cento tra le famiglie e dal 4,1 al 5,7 per gli individui per gli individui, con un incremento di circa un milione di poveri assoluti. Tangorra osserva come, per alcune tipologie familiari, la soglia di povertà assoluta sia più elevata di quella della povertà relativa. Ciò è noto e deriva dal fatto che la prima delle due misure tiene conto del fabbisogno e costo dei beni e servizi inclusi nel paniere per famiglie di differente dimensione e composizione per età nelle diverse aree del paese (ripartizione e ampiezza del comune).
In linea di principio, tali peculiarità potrebbero essere considerate anche dalla misura di povertà relativa, a patto di modificare la metodologia adottata con a) una nuova scala di equivalenza che, oltre al numero dei componenti, consideri la loro età e gli specifici fabbisogni; b) la disponibilità annuale di indici (generali) di parità del potere di acquisto a livello sub-nazionale, per tener conto del livello dei prezzi al consumo nelle diverse aree territoriali. L’Istat ha prodotto, in via sperimentale, indici delle parità di potere d’acquisto nei comuni capoluoghi di Regione, ma la messa a regime di indicatori regionali implica investimenti metodologici e organizzativi che, vista la situazione di bilancio dell’Istituto, non sembra possano essere messi in cantiere. In conclusione, si ricordi la crescente attenzione che l’Istat ha posto alle misure di povertà: basti citare la nuova metodologia della povertà assoluta oppure l’impegno profuso sugli homeless insieme a Caritas, Fiopsd e ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Peccato che la crisi e le risorse pubbliche destinate alla statistica (la metà di quanto speso in Francia) non solo frenino ricerca e innovazione, ma addirittura rischino di provocare un pesante arretramento dell’attuale produzione. Si pensi, ad esempio, alla non troppo remota possibilità che, nel caso non si rivedano i tagli di bilancio previsti a legislazione vigente, si interrompa la produzione degli indicatori di povertà a livello regionale o che si realizzi l’interruzione di serie degli indicatori di povertà. Ben venga, quindi, un rinnovato interesse per la ricerca su questo tema, purché sia finanziata adeguatamente. L’Istat è pronto a farsi promotore di una riflessione più ampia, mettendo a disposizione la propria esperienza, riconosciuta anche a livello internazionale.

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