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Titoli di Stato: eppur son rischiosi

In un recente articolo Marcello Esposito ha criticato il giudizio di Peter Praet, capo economista della BCE, circa la rischiosità dei titoli di Stato presenti nel portafoglio delle banche, soprattutto italiane e spagnole. Secondo Esposito, il ragionamento di Praet “è sbagliato e incredibilmente pericoloso per il futuro stesso dell’euro”. Sono del parere opposto: è sbagliato e incredibilmente pericoloso per il futuro dell’euro continuare a permettere agli istituti di credito di imbottirsi i bilanci di titoli pubblici. Come giustamente si evidenzia, [tweetability]le banche dei paesi periferici hanno svolto, all’apice della crisi dei debiti sovrani, la funzione di prestatori di ultima istanza [/tweetability] dei governi nazionali; in altri termini, in assenza di altri compratori propensi ad accettare l’alto rischio di credito insito in questi titoli, le banche (e le compagnie di assicurazione) sono state le uniche ad avere i mezzi per intervenire ed evitare un incremento dei tassi fino a livelli non più sostenibili per le casse pubbliche, come avvenuto, ad esempio, in Grecia, Irlanda e Portogallo. Così facendo, però, hanno svolto una funzione che non compete loro e che, nei paesi con sovranità monetaria, spetta alla Banca Centrale. Sono riuscite in questo anche grazie alla liquidità immessa dalla BCE attraverso le LTRO, liquidità che però aveva come ratio quella di rimettere in moto il mercato del credito, così come evidenziato dallo stesso Mario Draghi. Acquistando titoli di Stato hanno invece legato, in modo ancor più stretto, le loro sorti a quelle dei rispettivi paesi domestici. Secondo Esposito questo avrebbe prodotto comunque un beneficio per l’intera economia in quanto sono stati abbassati gli spread, e quindi anche i tassi d’interesse applicati a famiglie e imprese. In realtà, se con la liquidità ricevuta dalla BCE le banche italiane avessero, invece, finanziato l’economia reale, prestando risorse a imprese e famiglie meritevoli, avrebbero potuto sostenere la crescita, ottenendo dunque lo stesso risultato, ovvero  migliorare lo spread, ma attraverso un canale ben più utile. Su questa materia è intervenuto di recente anche Francesco Giavazzi (1), la cui proposta è esonerare le banche dall’accantonare maggior capitale a fronte dell’investimento in titoli di Stato qualora vogliano mantenerli nei loro bilanci fino a scadenza (cosiddetto banking book). L’idea sottostante è quella che il rischio di default di un titolo governativo non dovrebbe essere contemplato, in quanto “equilibri perversi”, in cui si permette ad uno Stato dell’Area euro di fallire, dovrebbero essere scongiurati dalla presenza delle OMT, ovvero il programma condizionato di acquisti di titoli sovrani da parte della BCE. Invece, per i titoli mantenuti con finalità di scambio sui mercati finanziari (trading book), le banche dovrebbero essere tenute ad accantonare capitali per far fronte al rischio di mercato dato dalle normali oscillazioni delle quotazioni. Tuttavia questo approccio si scontra con due fondamentali aspetti. In primo luogo, l’attuale regolamentazione di Basilea 2.5 lascia grande arbitrio alle banche di decidere se allocare i titoli di Stato tra quelli che andranno detenuti fino alla scadenza oppure tra quelli destinati alle contrattazioni sui mercati. Aspetto mancante delle regole internazionali è proprio l’obbligo, da parte degli istituti di credito, di dimostrare che effettivamente hanno la possibilità di detenere i titoli fino alla loro naturale scadenza, senza che esigenze di gestione, quali ad esempio il rimborso di proprie emissioni obbligazionarie, le inducano a dover dismettere prima del tempo questi titoli. La scelta se allocare i titoli tra i trading e il banking book è quindi al momento guidata esclusivamente dalla ricerca di un minor assorbimento di capitale. (2) Qualora si procedesse nella direzione indicata da Giavazzi, senza ulteriori aggiustamenti sulla normativa, la convenienza ad allocare i titoli nel banking book aumenterebbe ulteriormente. In secondo luogo,  è opportuno tener conto che per le banche italiane l’incidenza del trading book non è comunque trascurabile. Secondo le indicazioni di Banca d’Italia, relative al 2011, sul portafoglio dei titoli di Stato in possesso della banche italiane, circa un quarto era allocato per finalità di trading. Qualora questa quota si fosse mantenuta anche negli anni successivi, e posto che al momento gli istituti di credito italiani detengono circa 400 miliardi di euro di titoli di Stato, ciò vuol dire che ben 100 miliardi sarebbero soggetti al rischio di mercato, con relativa esigenza di accantonamento di capitale, una misura ingente se si pensa che nel 2012 l’intero Tier1 del sistema bancario è stato pari a 180 miliardi. Più in generale, bisogna considerare che con i dovuti accorgimenti regolamentari, la proposta di Giavazzi è sostenibile solo per quelle banche con un buono stato di salute. Per quelle a serio rischio di default la distinzione tra rischio di fallimento e rischio di mercato, a fronte dei titoli di Stato posseduti, non regge più. Infatti, nel caso di difficoltà, sarebbero costrette a vendere i loro asset, così come previsto dalla recente direttiva sulle risoluzioni bancarie, a prescindere dal fatto che siano inseriti nel trading o nel banking book. In definitiva, se si vuole rompere l’intreccio tra Stati e banche ed evitare la rinazionalizzazione del debito, vero passo di avvicinamento alla dissoluzione dell’euro, vanno imposti vincoli ben più stringenti sulla detenzione di titoli pubblici in capo alle banche. Per scongiurare sconquassi è necessario si vada, seppur gradualmente, in questa direzione. Allo stesso tempo, però, è importante evitare di cadere nella trappola del Principio del Tempi Non Maturi, ossia che in un certo momento non si dovrebbe fare ciò che si reputa giusto in quel momento, perché il momento che si reputa giusto per quella certa cosa non è ancora arrivato.

 

(1) Francesco Giavazzi, “La trappola perversa”, Il Corriere della Sera del 18 dicembre 2013.

(2) Si veda al riguardo Giovanni Pepe, 2013, “Basel 2.5: potential benefits and unintended consequences”, Questioni di Economia e Finanza, Banca d’Italia.

 

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La risposta al viceministro

  1. Piero

    Va tutto bene ma, se i titoli non sono acquistati dalle banche, da chi vengono sottoscritti? A mio avviso se il mercato non è liquido non vi saranno alternative: il debito pubblico andrà sulle banche e naturalmente si creerà il fenomeno del credit crunch per le imprese; se al contrario il mercato e’ liquido vi sarà un’allocazione diversa e qui dovrà intervenire la Bce, che deve smetterla con la politica suicida di non aumentare la liquidità nel sistema e si dovrebbe comportare come la Fed.

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