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La riforma dell’università parte dalla governance

L’approvazione del disegno di legge Gelmini sull’università è stata rinviata alla fine dell’anno, in attesa che governo e parlamento trovino le risorse necessarie. Una battuta d’arresto che può essere utile per introdurre nel disegno di legge quegli elementi che lo renderebbero una vera riforma. Perché così come è adesso non interviene sulla questione centrale dell’autoreferenzialità dei nostri atenei. Nuove norme sulla governance interna degli atenei sono il presupposto indispensabile per l’affermarsi della meritocrazia e per contrastare il potere dei baroni.

 

La risposta ad Anna Gerometta

L’’appassionato commento di Anna Gerometta (del Comitato mamme antismog) merita una risposta e qualche chiarimento. Procediamo per punti.

1)     Le misure di particolato e di PM10 possono essere in larga misura sovrapposte come è stato fatto nel grafico a cura di ARPA utilizzato nel nostro articolo criticato da Gerometta. Il PM10 rappresenta infatti la quota largamente maggioritaria del particolato, intorno all’’85%. L’’evoluzione nel medio periodo della concentrazione di questo inquinante risulta quindi essere assai positiva. C’’è poi un problema che vale la pena chiarire usando l’’aritmetica. Se – come dice Gerometta –  il PM2,5 è a sua volta l’’80% del PM10 e il PM1 è il 90% del PM2,5, ne segue che il PM1 è il 72% del PM10. Se prendiamo per buoni i dati dell’’Arpa Lombardia circa il particolato totale a Milano, il PM10 trent’’anni fa era circa 150μg/m3, mentre nel 2005 era circa un terzo (ma, come vedremo, oggi è anche meno).  Ne segue che il PM1 era pari a circa 107 μg/m3 trent’’anni fa, mentre oggi arriva a 36 μg/m3. Quindi, utilizzando le proporzioni menzionate da Gerometta, anche il PM1 è significativamente diminuito, a meno che trenta anni fa queste polveri sottilissime non fossero inferiori al 24% del PM10. Ma che oggi siano il 72% del PM10 e allora fossero meno del 24% appare del tutto implausibile.

2)     Anche negli anni più recenti, contrariamente a quanto sostiene Gerometta, si registra una tendenza alla riduzione delle concentrazioni del PM10, come evidenziato nel seguente grafico (Fonte: Agenzia Mobilità Ambiente Territorio, Monitoraggio Ecopass Gennaio – Settembre 2009)

3)     Non è chiara l’’affermazione di Gerometta secondo cui la qualità dell’’aria è migliorata nel Nord Europa perché “si è investito nella riduzione delle emissioni da traffico”. E certamente non corrisponde alla realtà dei fatti se si intende dire che la qualità dell’’aria è migliorata perché si è “investito” nel trasporto pubblico. Come evidenziato in un precedente intervento, l’’evoluzione della domanda di mobilità e della ripartizione modale fra trasporto individuale e collettivo è sostanzialmente omogenea in tutta Europa. Non fanno eccezione i Paesi del Nord. Ad esempio, Svezia e Norvegia – paesi con livelli di concentrazione di PM10 tra i più bassi in Europa –  presentano una ripartizione della domanda di mobilità del tutto simile a quella italiana: più precisamente, in Svezia la domanda soddisfatta dall’’auto nel 2007 è risultata pari all’’82,6%, in Norvegia all’’87,7% (in Italia l’’81,8%). Si noti che non è una questione di diversa densità della popolazione. L’’Olanda (che ha una densità ancora più alta dell’’Italia del nord) ha una ripartizione modale analoga a quella dell’’Italia. Quanto alla ripartizione modale nelle aree urbane, la comparazione è difficile per la disomogeneità dei dati. Un’’indicazione è quella che segue: a Milano gli spostamenti “motorizzati” interni alla città avvengono per il 50,2% con mezzi pubblici (compresa la metro), percentuale che scende al 32,3% per gli spostamenti in ingresso o uscita. A Stoccolma, gli spostamenti motorizzati interni alla città avvengono per il 64% con i mezzi pubblici. Anche in questo caso la percentuale scende (al 38,7%) per gli spostamenti all’’interno dell’’intera “contea” (compresi, quindi, quelli in entrata e uscita da Stoccolma). Guarda caso, nelle maggiori città norvegesi e in alcune svedesi, a partire dagli anni ’90, è stata attuata proprio una politica basata sull’’introduzione di sistemi di pedaggio e di potenziamento della rete stradale, analoga a quella delineata nel nostro intervento, mentre i sussidi al trasporto pubblico non sono certo aumentati.
4)     Le condizioni relativamente peggiori dell’’inquinamento atmosferico nel nord Italia non sono riconducibili ad emissioni più elevate ma a condizioni atmosferiche più sfavorevoli alla dispersione degli inquinanti. In particolare, per quanto concerne il PM10 ed il PM2,5, secondo i dati forniti da ARPA Lombardia, le emissioni pro-capite nella Regione sono nettamente inferiori alla media europea. Il dato sulle emissioni non va peraltro confuso col dato che in aree più dense più persone respirano l’’aria cattiva quando i livelli di concentrazione delle polveri sale oltre le soglie di allarme. Questo ha a che fare con il fatto che le concentrazioni sono un “male pubblico”, mentre il dato sulle emissioni pro-capite ha a che fare col contributo individuale medio alla produzione del suddetto male pubblico.

5)     Quanto alla qualità delle misurazioni (messa in discussione da Gerometta), non essendo esperti del campo, rimandiamo al comunicato emesso in merito alcuni mesi fa da ARPA Lombardia.
6)     Anche in materia di impatti sulla salute non siamo esperti. Ci pare utile, di nuovo, sottolineare che le conclusioni dello studio presentato all’’Accademia Francese quanto ai rischi per la salute non sono molto dissimili da quelli contenuti in un precedente intervento pubblicato su lavoce.info (e che appariva molto preoccupato) e da quelli ottenuti dalla letteratura citata da Gerometta: il livello di rischio relativo attuale di contrarre un tumore al polmone è circa di 20:1 tra fumatori e non fumatori. I rischi correlati ai vari impatti sulla salute dell’inquinamento sono di 1,02-1,05:1. A ciò va aggiunto che il rischio relativo è diminuito (conseguenza necessaria, data la riduzione dell’inquinamento che abbiamo documentato) e che nelle città dove c’’è più inquinamento si vive come se non più a lungo di dove ce n’’è meno. Per esempio, nell’’Italia del nord la speranza di vita è superiore a quella norvegese (identica per gli uomini e superiore di un anno per le donne) e se si raffrontano livelli di inquinamento e speranza di vita nelle diverse province italiane non c’è alcuna correlazione diretta. Il che non ci dice che l’’inquinamento fa bene, ovviamente, ma solo che incide relativamente poco sulla speranza di vita.
7)     In ogni caso, il nostro intervento non era finalizzato a dire che il livello di inquinamento nelle città italiane è “giusto” oppure è “alto” o è “basso”. Volevamo solo mostrare come (a) l’’inquinamento urbano non sia aumentato (al contrario di quanto spesso si sente dire) e (b) non sia efficace combatterlo spendendo di più per il trasporto pubblico a parità di congestione. E quest’’ultimo punto è tanto più vero se – come dice Gerometta – il traffico è responsabile del 60% delle emissioni dei principali inquinanti atmosferici “locali”. Una politica di decongestionamento – lo ribadiamo – è più efficace nell’’abbattere gli inquinanti rispetto a un generico aumento della spesa il per trasporto pubblico. È una questione di logica, non di opinione.
8)     Infine, alla domanda su come sia possibile potenziare il trasporto pubblico di superficie, a parità di spesa, con una efficace politica di decongestionamento crediamo di aver già risposto nella replica al dott. Harari, cui rinviamo. Ci dispiace che Anna Gerometta l’’abbia ignorata.

Ma l’inquinamento a Milano non è in calo*

L’’articolo di Boitani e Ramella dà ragione ai commentatori che lamentano l’’uso disinvolto che si fa dei dati riguardanti l’’inquinamento atmosferico. Un ripasso della situazione dell’”’evoluzione negli anni “a Milano sul sito di Arpa (1)  fornisce un’’immagine d’’insieme che è meno rosea di quella in esso prospettata.
A Milano gli unici valori che hanno subito diminuzioni stabili, effettive e consistenti dagli anni ‘90 sono quelli del biossido di zolfo e benzene, grazie alla conversione degli impianti di riscaldamento a metano e alla riduzione del tasso di benzene nei carburanti. Viceversa, i citati valori del particolato del 1990 non possono essere evidentemente paragonati a quelli odierni: sino al 1998 veniva misurato il cosiddetto Particolato Totale Sospeso, ovvero l’’insieme del particolato sospeso ricomprendente la frazione del particolato più grossolana ed avente effetti meno nocivi.  Dal 1998 viene utilizzato come riferimento per il particolato unicamente il PM¹⁰ ovvero una frazione di particolato di dimensioni molto inferiori a quella del PTS. Le due misure non possono dunque essere sovrapposte.

Sta di fatto che un grafico -– sempre di ARPA Lombardia – più aggiornato di quello da voi prodotto (fermo invece al 2005) evidenzia bene come, a Milano, dagli anni 90 ad oggi non sia affatto in corso una diminuzione dei livelli del particolato. Anzi, dal 2005 pare esservi stata un’’ulteriore crescita dei livelli dello stesso.
L’’evoluzione che invece l’’articolo omette di riportare riguarda ciò che oggi è noto del particolato che respiriamo nelle aree urbane,  ovvero che esso ha dimensioni minime, ha in parte rilevante origine secondaria (ovvero deriva da reazioni chimiche degli inquinanti in atmosfera) e, diversamente da quello di origine industriale di molti anni fa, è inalabile, come un vero e proprio areosol entrando appunto in circolo nel sangue.
Nel suo studio “Collaborative Research Project for Air Pollution Reduction in Lombardy Region” 2006-2010 (lo si veda per intero sul sito www.genitoriantismog.it) il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea ha effettuato un’’estensiva opera di campionamento del particolato lombardo, sulla base dell’’analisi di più di 1000 campioni prelevati ed analizzati in Lombardia,  giungendo alla conclusione che, in area urbana, mediamente l’’80% del PM¹⁰ è costituito da PM²̇⁵, e circa il 90% del PM²̇̇⁵ è costituto da PM¹ (si veda in proposito il 7° rapporto, parte I).
Il PM¹ ,anche detto ”ultrafine,” è la frazione del particolato studiata che possiede il più elevato potenziale infiammatorio: penetra nelle cellule e negli alveoli e, superate le barriere endoteliali ed epiteliali, entra  in circolo nel sangue. Invito gli autori a leggere il recente “Inquinamento atmosferico e salute umana” su Epidemiologia e Prevenzione del novembre 2009 per una carrellata degli ormai numerosissimi studi scientifici che hanno accertato la riconducibilità di conseguenze davvero gravi, sia in termini di mortalità che di morbilità, a breve e a lungo termine, all,’esposizione agli inquinanti presenti nell’’aria.
Non è dunque vero che vi sarebbe un trend di miglioramento nelle città italiane; certamente non a Milano. Migliorano davvero le città del nord Europa dove si è investito nella riduzione delle emissioni da traffico che, come accertato in un recente Rapporto Tecnico dell’’agenzia Europea dell’’Ambiente, rappresenta la più importante fonte di inquinamento dell’’aria in Europa (“Annual European Community LRTAP Inventory EEA Technical Report 7/2008”). Lo dimostra l’’ultima mappa dell’’Europa realizzata dall’’Agenzia Europea per l’’Ambiente (Technical paper 1/2009 “Assessment of health impacts of  exposure  to PM 2.5 in Europe” ) che indica “a colori” lo stato della nostra aria e dei morti che ne discendono e che, rispetto a quella precedente realizzata sulla base dei dati nel 2000, ha decisamente “schiarito” la zona dell’’Europa del nord ma non la nostra.

Mortalità prematura (per 10 000, all’’anno) riconducibile all’’esposizione al PM2.5 (anno 2005).

Mortalità prematura (per 10 000, all’’anno) riconducibile all’’esposizione al PM2.5 (anno 2000) tratto dalla Valutazione di impatto (settembre 2005 – SEC2005 1133) redatta dalla Commissione Europea in funzione a fini della formulazione e adozione della nuova Direttiva sull’’Aria.
In conclusione, incrociando il dato – raccolto dagli scienziati della Commissione Europea – inerente la natura “ultrafine” del nostro particolato urbano, la sua prevalente origine da traffico, con la stabilità dei livelli soprattutto nelle nostre aree urbane, ci si avvede che la diagnosi degli autori sul miglioramento della situazione nelle nostre aree urbane è decisamente errata.
Aggiungo che la notizia riportata circa il presunto miglioramento dell’’aria di Milano solleva il problema della qualità delle misurazioni. L’’art. 3 della Direttiva 2008/50 relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa, come già faceva la precedente direttiva 96/62/CE, prescrive ai paesi membri dell’’Unione di designare organi competenti e responsabili del controllo della qualità delle misurazioni dell’’aria. Ad oggi in Italia tale sistema di controllo della qualità dei dati è carente se non addirittura assente. Ciò è stato dimostrato dai risultati delle misurazioni effettuate in Lombardia, dal 2006 in poi, dal Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea in parallelo ed in collaborazione con ARPA Lombardia: i dati raccolti dall’’organismo di ricerca europeo hanno in più occasioni evidenziato gravi sottostime delle misurazioni effettuata dall’’agenzia regionale per l’’ambiente.
Fino a quando non sarà stato messo in atto il sistema di  garanzia di “accuratezza” delle misurazioni prescritto dalla normativa europea, ogni trionfalismo su pretese vittorie o miglioramenti della nostra aria suonerà necessariamente più un giudizio con basi traballanti che altro.
Ciò detto, l’’accanimento circa un peggioramento o miglioramento dell’’aria pare davvero sterile. Come poco trasparente pare la tesi dell’’irrilevanza dei danni derivanti dall’’inquinamento allorché gli autori sono costretti, per corroborarla, a ricorrere ad uno studio datato e poco noto del “Presidente onorario dell’’Istituto Francese del Petrolio” (2).
Perché i nostri autori non hanno letto i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dell’’Agenzia Europea dell’’Ambiente, o degli scienziati internazionalmente accreditati che da anni hanno accertato una diretta riconducibilità all’’inquinamento atmosferico  di asma, allergie, BPCO, edemi polmonari, infarti, ictus, ridotta funzionalità polmonare, morti anticipate a breve e a lungo termine laddove non addirittura, nei più recenti studi, una riduzione della capacità cognitiva dei bambini cresciuti in aree con alti livelli di inquinamento atmosferico  (Suglia, Gryparis et al. “Association of Black Carbon with Cognition among children in a Prospective Birth Cohort Study”, American Journal of Epidemiology, 15 nov. 2007)?
Che si lamenti la congestione delle aree urbane proponendo sistemi di tariffazione è più giusto anche alla luce della rilevanza dell’”’effetto congestione” sulle emissioni (3). Ma che si semplifichi l’’analisi ricavata da dati inerenti Torino e la sua metropolitana per sostenere  che il potenziamento del trasporto pubblico non sarebbe, per le aree urbane, una, e forse la principale, delle soluzioni per la riduzione dell’’inquinamento atmosferico, rappresenta non un punto di vista diverso, ma, non ce ne vogliano gli autori, davvero cattiva informazione.
Se il traffico è responsabile mediamente, per esempio a Milano, di una porzione pari ad almeno il 60 per cento (4) di ciascuno dei principali inquinanti atmosferici (Nox-Co-PM10 e O3 ) pare davvero improbabile che l’’effetto della mera decongestione conseguente all’’istituzione di tariffe di ingresso, e quello presunto dato dalla creazione di tunnel sotterranei e parcheggi, possano avere qualche effetto senza una politica seria di potenziamento dei trasporti pubblici. E, da ultimo, ci dicano gli autori, per cortesia, come andranno a lavorare quelli bloccati dall’’effetto decongestionante del pur sacrosanto road pricing?

* Anna Gerometta è Avvocato e membro del comitato direttivo dell’associazione Genitori Antismog

(1)   http://ita.arpalombardia.it/ITA/qaria/doc_EvoluzioneAnni.asp
(2)   http://www.academie-sciences.fr/publications/rapports/rapports_html/rapport12_AsC_gb.htm
(3)   (il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea ha misurato le emissioni di NOX – precursore di ozono e pm secondario – di un furgone su un circuito a Milano ed ha evidenziato emissioni di NOX più che doppie rispetto a quelle previste dal limite prescritto dal circuito di omologazione NEDC, V Rapporto p. 210 e ss.)
(4) Dati Inemar inventario Regionale Emissioni Arpa http://ita.arpalombardia.it/ITA/inemar/inemarhome.htm)

Le fondazioni bancarie: una risposta a mucchetti

Lettera al Corriere della Sera

Caro direttore,

Massimo Mucchetti nel suo articolo di sabato 23 ottobre ci arruola al “partito di Geronzi”. La ragione? Un nostro intervento su lavoce.info sarebbe ripreso dal Foglio a sostegno di tesi dell’attuale Presidente di Generali. In questo intervento, coerentemente con quanto pensiamo e scriviamo liberamente da tanto tempo, sosteniamo che: 1) le fondazioni bancarie farebbero bene a diversificare il loro portafoglio per meglio svolgere le loro funzioni sociali; 2) avendo vertici di nomina politica, non dovrebbero nominare a loro volta i consiglieri delle banche, evitando ancor di più di sceglierli tra le proprie fila. Quanto alla nostra vicinanza a Geronzi, invitiamo a leggere su questo sito cosa abbiamo scritto sul curriculum dell’ex banchiere. Non ci risulta che Mucchetti abbia mai dato queste informazioni ai suoi lettori.

Come vengono utilizzati i soldi rimasti della legge 488/92?

Come noto, le risorse per finanziare gli “storici” strumenti di incentivo alle imprese (legge n. 488, legge “Sabatini”, crediti d’imposta per occupazione e investimenti, ecc.) sono da tempo finite. Rimangono solo quelle derivanti dalle revoche dei vecchi incentivi già accordati, per rinuncia o decadenza dal diritto dei destinatari. Fino a pochi anni fa, nessuno sapeva nemmeno a quanto ammontasse questo “tesoretto”. Una norma della Finanziaria 2008 (governo Prodi), aveva disposto l’accertamento annuale di tali risorse e la loro destinazione ad un apposito fondo destinato a finanziare una pluralità di interventi soprattutto nel Mezzogiorno.(1)
Il governo Prodi è caduto prima di poter dare attuazione alla norma, avendo avuto solo il tempo di accertare – con il previsto decreto ministeriale annuale – l’ammontare delle risorse liberate per il 2008 (785 milioni di euro). Il governo successivo (Berlusconi), prima ancora di adottare il decreto annuale di accertamento delle economie per il 2009, con il decreto-legge n. 5 del 10 febbraio 2009 ha dirottato quelle risorse – valutate in ben 933 milioni di euro – a copertura dei nuovi incentivi alla rottamazione e a correzione dei saldi. Il decreto annuale di accertamento delle economie per lo stesso anno è stato poi adottato solo il 28 febbraio, segnalando l’importo di 375 milioni di euro per il 2009. Nel luglio 2009, con la legge n. 99 il governo ha poi prescritto nuovi vincoli di utilizzo, soprattutto legati a interventi nel Centro-Nord.(2) Tutte scelte legittime, comunque, che riflettono cambiamenti di priorità in gran parte dal Sud al Nord.
Il 4 maggio 2010 si è però prodotto un fatto grave sul quale non ci risulta sia sin qui intervenuto il sistema istituzionale dei controlli, a presidio della legittimità e legalità dell’azione del Governo, a partire dalla Corte dei conti e dal Parlamento.

Il quasi-dimissionario ministro Scajola con un decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale oltre quattro mesi dopo, il 17 settembre 2010 a ministero ancora “decapitato”, ha destinato le risorse disponibili a due finalità estranee a qualunque prescrizione vigente di legge. Dei 152 milioni di euro accertati, infatti, 48 milioni di euro sono stati attribuiti alla programmazione negoziata nelle aree del Centro-Nord e 50 milioni sono stati addirittura destinati all’industria bellica degli armamenti, attraverso il rifinanziamento di una legge del 1993 (legge n. 237/93) per la quale il legislatore aveva previsto una copertura finanziaria solo fino al 2001. Dei restanti 54 milioni di euro non si fa menzione esplicita, ma a questo punto è facile supporre che siano andati ai soli interventi – tra tutti quelli contenuti nei lunghi e vani elenchi compilati dal legislatore – che erano associati a precisi importi: 50 milioni all’emittenza televisiva locale, 2 milioni ai sistemi di illuminazione del Veneto e 2 milioni ai “sistemi delle armi” di Brescia (forse raggiunti anche dall’altro finanziamento).

CHIEDIAMO PERTANTO AL NUOVO MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO PAOLO ROMANI:

Può darci un rendiconto completo di come sono stati utilizzati i risparmi della legge 488 in questa legislatura? Ed è possibile che un decreto ministeriale rifinanzi una legge statale, in carenza assoluta di fondamento normativo?

 

(1) Programma nazionale per l’inserimento lavorativo dei giovani laureati meridionali; la riduzione del costo del lavoro per tecnici e ricercatori in favore delle imprese innovatrici in start up; il sostegno alla ricerca nel settore energetico; il riutilizzo di aree industriali nel Mezzogiorno; la costruzione di centri destinati a Poli di innovazione.
(2) Tra questi compaiono obiettivi generici – quali il sostegno all’internazionalizzazione e al Made in Italy, la “valorizzazione dello stile e della produzione italiana”, gli incentivi ai distretti industriali, ecc. – assieme a interventi puntualmente specificati, come il sostegno ai “sistemi produttivi locali delle armi di Brescia” e ai “sistemi di illuminazione del Veneto”, per i quali la legge indica addirittura gli importi (2 milioni di euro per ciascuno).

Se la locomotiva va nella direzione sbagliata*

L’avanzo della Germania è in gran parte verso la zona euro. E’ stato originato da un boom di produttività specifico alla manifattura tedesca. Il riequilibrio avrebbe richiesto l’apprezzamento del cambio reale della Germania: è avvenuto il contrario. La governance europea comporta ora che l’aggiustamento spetti ai paesi partner, senza compiti per i tedeschi. Ciò provoca effetti depressivi e distorsioni per la zona euro. Le strategie per la crescita dovrebbero accantonare la retorica manifatturiera e rimettere all’ordine del giorno la questione dell’efficienza dei servizi.

Cala il sipario sul diritto allo studio

Il fondo che finanzia le borse di studio per gli studenti universitari scenderà nel 2011 a 70 milioni di euro dagli attuali 96 milioni, tornando più o meno sui livelli del 1998. In Francia e in Germania la spesa annua per il sostegno agli studenti è di 1 miliardo e 400 milioni. E mentre in altri paesi il pacchetto di aiuti è uniforme su tutto il territorio nazionale, per gli universitari giovani i criteri di ammissione alle borse variano di Regione in Regione e talvolta anche all’interno di una stessa Regione. Perché nessuna voce si leva in difesa del diritto allo studio?

Ma la formazione continua paga

Se la formazione professionale per lavoratori disoccupati è poco efficace, le cose vanno meglio con la formazione continua degli occupati. Chi vi partecipa ottiene retribuzioni notevolmente più elevate, in particolare nelle piccole e medie imprese. Perché l’incentivo a finanziare corsi inutili e fittizi è minore e soprattutto perché è un tipo di formazione che avviene spesso in azienda. I sussidi pubblici sono gestiti dalle Regioni. Così nel periodo 1994-2005 la spesa per abitante varia dai 22,6 euro della Regione Calabria ai 286,7 euro del Trentino Alto Adige.

 

Un commento di Massimo Matteoli*

Il Prof. Marco Ponti sintetizza in maniera intelligente ed efficace la posizione di quanti sono favorevoli alla gestione privata del servizio idrico.
Mi convince la sua critica ad un approccio astrattamente ideologico al problema dell’’acqua. Proprio per questo non riesco a  convincermi che la soluzione “privatistica” sia la migliore.
Anzi mi sembra che molti sostenitori del “modello privato” cadano nell’’identico errore, dando per scontato che la gestione privata del servizio idrico sia a priori più efficiente di quella pubblica.
Mi colpisce, soprattutto, che i critici della gestione pubblica del servizio idrico richiamino spesso la necessità dell’’intervento finanziario dei privati, entrando però raramente nel dettaglio delle cifre. Nel modello di società mista (ed ancor di più in quello a totale gestione privata) il pubblico dovrebbe garantire il controllo, mentre al privato farebbero carico l’’efficienza gestionale ed i finanziamenti per gli investimenti.

LE CIFRE DELL’ACQUA

Proprio qui si  manifesta la debolezza congenita dell’’idea privatistica. Il deficit degli investimenti, di cui già oggi ci lamentiamo, non è dovuto solo al naturale riflesso del socio privato di limitare al minimo gli esborsi di capitale, ma soprattutto all’’enorme divario tra necessità e possibilità.
Proverò a dare alcune cifre, limitate all’’essenziale, per comprendere meglio le reali dimensioni del problema.
Una fonte sicuramente attendibile e prudenziale come il Blu Book 2010 stima in oltre 62 miliardi di Euro gli investimenti necessari per il nostro disastrato servizio idrico.
Per dare un’’idea più concreta la spesa annua (ovviamente senza considerare l’’inflazione) dovrebbe passare da 1,37 a €9,48 per ogni metro cubo erogato.
Ciascuno di noi può facilmente calcolare le conseguenze sulla propria tariffa: anche se spalmati in trenta anni, servirebbero investimenti per almeno 2,13 miliardi di Euro ogni anno!
In venti anni, come probabilmente sarebbe necessario per la vetustà degli impianti attuali, occorrerebbero più di tre miliardi di euro ogni anno.
Dove si trova il privato che ha la possibilità di investire cifre di questa entità?
Basti pensare, che le quattro società più importanti del settore dei servizi pubblici quotate in borsa (Acea, Hera, Iren, A2a) hanno investito nel settore idrico nell’’anno 2009 nemmeno 450 milioni di Euro e, pur operando anche in settori ben più redditizi di quello dell’’acqua, al 31.12.2009 avevano debiti complessivi per circa 10 miliardi e 700 milioni di Euro, superiori di oltre un miliardo e duecento milioni al loro patrimonio netto.
Anche se si trovasse un socio privato ben disposto, ovviamente questi interverrebbe per ottenere un rendimento adeguato al proprio investimento. Ciò può avvenire solo con la tariffa, come del resto prevede la legge esistente.
Saranno perciò le bollette a finanziare la maggior parte dell’’enorme mole di investimenti necessaria nei prossimi anni.

IL MONOPOLIO NATURALE

In situazioni di monopolio naturale come l’acqua una logica privatistica produce più facilmente effetti distorsivi che maggiore efficienza. Basti pensare al pericolo, tutt’’altro che teorico, che il privato per migliorare il risultato economico tagli le spese di manutenzione degli impianti: il monopolio naturale in cui opera il gestore (con l’’impossibilità per gli utenti di cambiare fornitore) rende economicamente improduttivo per il privato qualunque serio intervento di tutela dei singoli utenti. Né le gare periodiche per l’’assegnazione del servizio mi sembra possano risolvere il problema.
Anche qui l’’unione tra gara pubblica e gestione privata sembra favorire più la somma dei vizi del pubblico e del privato che quella dei pregi.
Nella pratica la lunga durata, legata necessariamente ad ogni ipotesi di affidamento del servizio idrico, ridurrebbe di molto, se non del tutto, lo stimolo ad una maggiore efficienza di sistema del gestore privato a favore della naturale tendenza del monopolista di utilizzare la posizione di rendita per aumentare il proprio guadagno. Nemmeno la gara, poi, risolve il problema di fondo: chi paga gli investimenti? Proprio la natura di “monopolio naturale” del servizio idrico, perciò, fa sì che solo una gestione pubblica possa assicurarne al meglio trasparenza ed efficienza. Dove invece il Prof. Ponti ha ragione da vendere è nel lamentare la grave mancanza di un’’autorità di regolazione indipendente per il settore.
E’ evidente che il totale controllo pubblico delle aziende erogatrici non garantisce di per sé né efficienza né tutela dei cittadini. Gli esempi di distorsioni burocratiche delle strutture pubbliche sono fin troppo noti perché ci sia bisogno di parlarne diffusamente, Non possiamo, perciò, accontentarci della sola proprietà pubblica.
L’’impegno per l’‘acqua pubblica deve essere legato indissolubilmente, pena un tragico insuccesso, ad un altrettanto deciso impegno per l’’efficienza industriale del servizio,senza riserve mentali, rimpianti del bel tempo che fu od opposizioni di campanile ai necessari processi di ristrutturazione industriale del settore. Oltre all’’Authority come le abbiamo conosciute, sono necessarie anche forme di tutela degli utenti più originali ed incisive. Troppo spesso dimentichiamo che la gestione dell’’acqua, come tutti i servizi pubblici, oltre all’’impatto generale sul sistema, tocca anche i singoli utenti, che troppo spesso i processi di concentrazione già realizzati hanno abbandonato ai soli “numeri verdi” dei call center. Occorre, quindi, da un lato prevedere tavoli istituzionali di confronto a livello “macro” sulla politica degli investimenti e quella tariffaria che permettano agli interessi sociali organizzati (dalle associazioni sindacali ed  imprenditoriali, a quelle dei consumatori, alle Camere di Commercio, etc..)  di confrontarsi direttamente con i gestori.

UN GARANTE DEGLI UTENTI

Vedrei inoltre necessaria anche una figura di vero e proprio “Garante degli Utenti”, che possa  favorire  la conciliazione delle controversie, con poteri effettivi di indagine e di intervento per la risoluzione dei problemi del singolo utente.
Occorre, cioè, affiancare alle forme di controllo istituzionale di sistema un luogo ed un’’autorità pubblica a cui ogni singolo cittadino possa rivolgersi in via pre-contenziosa per denunciare abusi e chiedere tutela.
Non sottovalutiamo, perciò, l’’importanza di creare in un settore così delicato come quello dei servizi pubblici, una struttura “amica” che possa efficacemente intervenire in difesa dei diritti del semplice utente.
In questo modo ne guadagnerà anche l’’efficienza generale del sistema.
Anche per questo appare preferibile la gestione pubblica del servizio, sicuramente più reattiva del privato a forme di controllo in cui un’opinione pubblica consapevole si affianchi in maniera decisa agli strumenti istituzionali.

* Responsabile Comunicazione Cambia l’’Italia Toscana

Costruiamo nuove università riservate ai bravi scienzati

In Italia non ha molto senso parlare di università migliori di altre. Ci sono semmai scienziati o gruppi di ricerca migliori di altri, indipendentemente dagli atenei cui appartengono. Distribuiti a macchia di leopardo, cosicché nessuno raggiunge quella massa di eccellenza critica necessaria per competere a livello internazionale. Stesso discorso vale per gli studenti più capaci. Si dovrebbe perciò favorire la nascita per gemmazione di nuove università, equamente distribuite sul territorio, verso le quali far migrare solo i professori più bravi.

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