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Autore: Chiara Saraceno Pagina 4 di 7

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Già docente di sociologia della famiglia presso l'università di Torino e successivamente professoressa di ricerca presso il Wissenshaftszentrum Berlin fuer Sozialforschung, attualmente è emerita presso quest'ultimo e honorary fellow al Collegio Carlo Alberto di Torino. Si occupa di famiglia, politiche sociali, povertà, diritti dell'infanzia e adolescenza. È co-coordinatrice dell'Alleanza per l'infanzia.

La risposta al viceministro

Ringrazio il viceministro Guerra per l’attenzione con cui ha letto le mie osservazioni (il titolo non è mio) e la sua risposta, che fornisce, come auspicavo, importanti informazioni e chiarimenti. So bene che la vicenda della carta acquisti è complicata non solo per la frammentarietà dei finanziamenti (e la loro obbligata diversità nella distribuzione territoriale), che costringe a costruire dei puzzle, ma anche per il debole appoggio che una misura universalistica contro la povertà trova in parlamento e nello stesso governo. Occorre riconoscere che è merito del Ministro Giovannini e della viceministra Guerra se abbiamo, appunto, almeno un puzzle, con un disegno unitario, e non un insieme di frammenti eterogenei, pur all’interno di un quadro che rimane categoriale. La sperimentazione continua, infatti, a riguardare solo le famiglie con figli minori: una categoria certo meritevole, ed in cui vi è una forte concentrazione di povertà, ma che esclude altri soggetti.

Un aiuto ai più poveri che sa di vecchia politica

Finalmente arriva uno stanziamento sufficiente alla sperimentazione di una misura universale di contrasto alla povertà. Tuttavia ancora una volta c’è il rischio che i fondi siano utilizzati in modo frammentario, riservandoli a categorie molto ristrette di beneficiari. Dubbi e incertezze da fugare.

Tante proposte per il reddito minimo: ecco le differenze

Non c’è solo la differenza di costi tra le diverse proposte di reddito minimo. Per M5S e Sel i beneficiari sono gli adulti potenziali lavoratori. Si sottovalutano così i bisogni specifici dei minori. Ma anche dei giovani adulti senza qualifica. I problemi che nascono dalla titolarità individuale.

MENO TASSE PER LE DONNE: INEFFICACE E INGIUSTO

Per favorire l’occupazione femminile il governo Monti starebbe valutando una differenziazione nella imposizione fiscale sul reddito da lavoro di donne e uomini. L’idea è inefficace e ingiusta. Inefficace perché non c’è abbassamento di aliquota che compensi una domanda di lavoro debole o nulla rivolta a donne a bassa qualifica. Ingiusta perché rischia di rivelarsi una redistribuzione da famiglie a reddito basso verso quelle a reddito alto. Più utile investire nella formazione e destinare tutte le risorse possibili all’allargamento dell’offerta di servizi di cura.

SULLE SPALLE DELLA FAMIGLIA

Il governo sostiene di aver rafforzato il ruolo della famiglia. E infatti ricadono sulle famiglie italiane tutti i problemi di cui, nella maggior parte dei paesi, si fa carico lo stato sociale: dalla povertà alla dipendenza in età anziana, dalla disoccupazione giovanile alla cura dei bambini piccoli quando la madre lavora. Le timide proposte innovative del Piano nazionale per la famiglia sono rimaste lettera morta. Senza contare che una disoccupazione giovanile vicina al 30 per cento impedisce ai giovani di crearsi una propria famiglia. Le dimissioni delle lavoratrici madri.

Una tradizionale famiglia italiana

Per ora è solo un documento di intenti, ma “Verso un piano nazionale per la famiglia” indica gli strumenti per fornire un sostegno a chi ha figli o ha famigliari non del tutto autosufficienti: riforma del fisco, espansione dei servizi, costruzione di reti di solidarietà locali. Senza però far cenno a risorse o priorità. E in una visione tutta ideologica della famiglia, riconosciuta come tale solo quando è eterosessuale e basata sul matrimonio, mentre rimane indifferente di fronte ai cambiamenti e alla pluralizzazione dei modi di fare famiglia.

 

Dilettanti allo sbaraglio sulla non autosufficienza

Una proposta di legge affronta due temi finora trascurati nel nostro sistema di welfare: le necessità di cura delle persone non autosufficienti e la conciliazione con il lavoro remunerato. Ma la norma riesce a essere contemporaneamente vecchia, ingiusta e inefficace. Perché lo strumento scelto è il pre-pensionamento, che favorisce l’uscita dal mercato del lavoro e non la conciliazione. Perché non adotta un approccio universalista e garantisce condizioni più vantaggiose ai lavoratori pubblici. Perché scarica ancora una volta sulle famiglie l’onere del lavoro di cura.

LA SCUOLA DOPO L’ENNESIMA DOCCIA SCOZZESE

Da anni, la scuola italiana è sottoposta a una sorta di doccia scozzese. A sperimentazioni di varia qualità seguono interventi di riforma che non ne tengono affatto conto. L’ultimo esempio è la riorganizzazione degli indirizzi nella scuola superiore. Sembra avere come obiettivo la mera riduzione dei costi. Perché non è chiaro quali siano le logiche formative che portano a tagliare le ore di materie chiave in ogni tipo di indirizzo (e i documenti alla base di questa riorganizzazione sono noti solo agli addetti ai lavori). Continueremo così a formare cittadini ignoranti dei meccanismi fondamentali che regolano la società in cui vivono.

CI SONO ANCHE I DISOCCUPATI INVISIBILI

I dati sulle forze di lavoro relativi agli ultimi due trimestri del 2008 non segnalano solo l’aumento della disoccupazione. Evidenziano una crescita della sotto-occupazione e del tasso di inattività, soprattutto al Sud e anche fra gli uomini. Un fenomeno destinato a peggiorare nei prossimi mesi, ma nessuno ne parla. Il rischio è che l’abbassamento ulteriore del tasso di attività marginalizzi ancora di più proprio le regioni più povere e con più basso tasso di occupazione rispetto a politiche orientate esclusivamente a contrastare la disoccupazione.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Tutti i commenti confermano l’opportunità di affrontare congiuntamente, nella discussione ma soprattutto nelle politiche, la questione dell’età alla pensione e quella del modo in cui va trattato il lavoro di cura (e i bisogni cui corrisponde). Ci sono tuttavia alcuni malintesi che occorre chiarire. Io non sostengo affatto che l’attribuzione alle donne del lavoro di cura (e ancor più di quello domestico) sia qualche cosa di inevitabilmente naturale. Ciò che è inevitabile, naturale, anche in epoca di fecondazione assistita, è che sono le donne a portare letteralmente al mondo i nuovi esseri umani e ciò non è senza conseguenze, non solo sul loro corpo, ma anche sul tipo di legame che si instaura tra madre e bambino durante la gravidanza e nei primi mesi di vita. Ma da questo non discende che solo le donne abbiano capacità e responsabilità di cura, che si presentano ben oltre quei primi mesi e anche non solo verso i bambini piccolissimi. Ciò che sostengo è che sia il bisogno di cura che il lavoro effettuato per rispondervi va riconosciuto per chi lo fa (donne e uomini): non con un salario per il lavoro domestico (incluso quello che si fa per il proprio marito o figli grandi), ma con congedi adeguatamente remunerati e di durata ragionevole (molte ricerche segnalano in un anno il punto di equilibrio che consente tempo per la cura ma non disincentiva dal ritorno nel mercato del lavoro) e contributi figurativi per lo meno con gli stessi criteri che si adottano per il servizio militare. Il lavoro di cura va anche in parte sostituito tramite una offerta di servizi di qualità e a prezzo accessibile. L’investimento in servizi, tra l’altro, oltre a incoraggiare le donne (ma auspicabilmente anche gli uomini) con responsabilità di cura a rimanere nel mercato del lavoro, avrebbe anche due altri effetti positivi: creerebbe domanda di lavoro e offrirebbe ai bambini quegli spazi educativi in età pre-scolare che molti studi segnalano essere necessari per contrastare lo sviluppo di disuguaglianze cognitive dovute alle disuguaglianze nell’ambiente famigliare.

Quanto alla mia affermazione che le donne che hanno carichi famigliari e sono anche occupate hanno una vita lavorativa complessivamente più lunga, se misurata in ore lavorate,  di quella degli uomini, non è una mia invenzione, ma sta nei dati empirici, italiani e non. Basta sommare – sia per gli uomini che per le donne in analoghe condizioni famigliari – l’orario di lavoro remunerato e quello del lavoro non remunerato famigliare, di cura e domestico. Questa differenza c’è in tutti i paesi, ma in Italia è tra le più alte, stante la più squilibrata divisione del lavoro famigliare tra uomini e donne e stante la più esigua disponibilità di servizi.

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