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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 54 di 69

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Commento: Vi è il rischio di accesso alle professioni senza laurea.
Risposta: No! Nella mia proposta ho subito chiarito che il profilo abilitativo della laurea va lasciato così com’è: non è lì il problema.

Commento: Non sarebbe meglio stabilire che la laurea sia un requisito necessario per l’accesso ai concorsi pubblici, ma lasciare che la valutazione sia incentrata interamente sulla prova concorsuale?
Risposta: Vedrei questa soluzione come un second best, almeno si eviterebbe la scandalosa prassi attuale, in base alla quale i laureati provenienti dalle università selettive, che quindi spesso hanno punteggi di laurea non alti, sono superati dai candidati provenienti dalle università non selettive, che regalano i 110 e lode.
Tuttavia si rifletta che: a) incentrare tutta la valutazione sulla prova concorsuale implica un aumento dei costi amministrativi (la prova deve essere, infatti, articolata, ben congeniata e ben calibrata), b) la prova unica aumenta il rischio di risultati casuali: con una valutazione ‘one shot’, la fortuna/sfortuna diventano elementi condizionanti; c) nonostante l’accuratezza della prova concorsuale, il risultato della valutazione sarà molto più veritiero se si tiene in adeguata considerazione il curriculum di studi del candidato, curriculum fondato su una preparazione di 3 o 5 anni e basato sul risultato di 15-25 diversi esami. Perché rinunciare a valutare questi dati?

Commento: Nessun ranking può valutare con precisione il valore delle Università.
Risposta: Vero solo in parte. E’ certo che tutti i parametri utilizzabili sono discutibili (e concordo sulla artificiosità della classifica stilata dall’Università di Shangai). Tuttavia, tutte le classifiche più accreditate si fondano su parametri difficilmente contestabili, quali la produzione scientifica dei docenti, il rapporto del numero docenti/studenti, le performances degli studenti nel corso di studi, ecc. L’applicazione del complesso di questi parametri consente una valutazione abbastanza veritiera del valore delle singole Università. Chiunque insegni può testimoniare, ad esempio, che il ricercatore che pubblica molto è mediamente più preparato, dedicato e capace di trasmettere il sapere di quello che pubblica poco o niente. Che avere 20 studenti a lezione consente di fornire una preparazione migliore rispetto all’ipotesi di averne 200, ecc
Ma c’è un punto che deve indurre ad accettare definitivamente lo strumento del ranking. Mentre in Italia stiamo ancora discutendo del valore delle classifiche, il resto del mondo le usa senza problemi e giudica le nostre università altrettanto bellamente. E’ quindi inutile far finta che non ci siano o che non funzionino. Nel mondo già ampiamente globalizzato dell’istruzione superiore, per gli studenti sarà indifferente studiare a Parigi, Cambridge o Madrid piuttosto che a Padova o Bologna (anche dal punto di vista economico). E la scelta verrà fatta sui ranking. 

Commento: Potrebbe esservi il caso che il capace e il meritevole, per ragioni economiche, non può iscriversi ad una lontana università di serie A, ma deve accontentarsi di quella sotto casa, di serie B.
Risposta: con l’incremento del flusso di risorse a beneficio delle università migliori, queste ultime possono realmente (e non a parole, come avviene adesso) predisporre delle borse di studio per i meritevoli. Ciò peraltro è nell’interesse delle università in questione perché studenti bravi aumentano le performances e dunque migliorano la posizione nel ranking.
A parte questo, inviterei chi paventa la prospettiva a valutare la cosa anche sotto una diversa angolatura. Continuare, per ragioni economiche, la finzione della parità di preparazione consentita dal valore legale del titolo, aiuta chi si è laureato in medicina nell’Università di serie B ad entrare, ad esempio, nell’USL, ma non aiuta affatto il paziente di quella USL il quale, data la posta in gioco, preferirebbe di gran lunga un medico laureato di un’Università di serie A. In proposito credo che sia ora di guardare alle esigenze dei servizi pubblici dal punto di vista del ‘pubblico’ e non solo dalla prospettiva individuale di chi deve trovare un lavoro, costi quel che costi (al paziente).   

Commento: La proposta è di stampo dirigista e complicata da attuare.
Risposta: La proposta non è dirigista: la PA è libera, per ciascun concorso e a seconda delle sue esigenze, di assegnare il peso relativo del ranking, e il peso relativo della posizione delle università nel ranking. E non è nemmeno complicata: già oggi, in taluni casi, la PA compie con facilità una operazione analoga, consistente nell’assegnare diversi punteggi concorsuali a seconda del diverso punteggio di laurea. Inoltre le particolari esigenze del posto bandito possono trovare spazio adeguato nella prova concorsuale, che non si propone di abolire. Per riprendere l’esempio fatto dal Prof. Figà Talamanca, se per la posizione lavorativa posta a bando è preferibile un matematico esperto di analisi numerica, anziché geometria algebrica, perché non proporre un problema di analisi numerica nella prova concorsuale? L’ammissione al concorso anche di laureati in ingegneria o in informatica mi trova completamente d’accordo, ma non è in contrasto con l’attribuzione di uno specifico peso dell’Università di provenienza.

L’INIZIO DELLA FINE DEI CONCORSI

La vera novità del decreto 180 è che per la prima volta in Italia una quota significativa delle risorse viene attribuita alle università in funzione della valutazione dei loro risultati. Intanto, nei concorsi per ricercatore sono state eliminate le prove d’esame, un assurdo privo di paralleli internazionali e spesso cavallo di Troia per operazioni poco limpide. E a giudicare saranno solo professori ordinari. Con il Dl si sono fatti passi da gigante verso la fine dei concorsi, anche grazie alla pioggia di critiche che lo ha accompagnato.

LA BORSA INCERTA NON DA’ DIRITTO ALLO STUDIO

Il decreto legge 180 aumenta le risorse per il diritto allo studio universitario per il 2009, che erano state tagliate con la legge 133. E porta a 246 milioni lo stanziamento del fondo integrativo per le borse di studio. Una buona notizia. Che non risolve però i problemi di fondo: cattiva individuazione del bisogno sociale a cui il programma dovrebbe rispondere, pessimo assetto istituzionale del sistema, enormi difetti nella sua attuazione. Ma anche un’insufficienza cronica di risorse e soprattutto mancanza di certezza su base pluriennale.

IL TABU’ DEL VALORE LEGALE DELLA LAUREA

Un provvedimento sarebbe cruciale per l’università italiana: l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Vi ruotano attorno aspetti finanziari, reclutamento dei meritevoli ed efficienza complessiva del sistema. Eppure, né il decreto governativo né la proposta dell’opposizione lo affrontano. Anche perché, si dice, non esiste nessuna norma che lo preveda per le lauree e quindi non vi è niente da abrogare. Non è proprio così, ma non c’è alcun serio problema tecnico né alcun costo per la sua eliminazione. Solo un formidabile ostacolo, di natura politica.

I TEMPI DIVERSI DI SCUOLA E FAMIGLIA

Il decreto Gelmini, da poco trasformato in legge, non risponde alle esigenze delle famiglie, né delle madri, né dei padri e ancora meno dei figli. Gli effetti più importanti riguardano l’occupazione, gli orari e l’organizzazione del tempo della famiglia. Nonché i contenuti del tempo scuola. In particolare, i tagli di personale riguarderanno soprattutto donne. Mentre la riduzione del tempo-pieno può rallentare la tendenza a una maggior simmetria tra i genitori. E avrà effetti diversi sulla divisione del lavoro domestico per famiglie appartenenti a fasce di reddito diverse.

COMMISSARI PER CASO

Lo spirito meritocratico che ispira il decreto legge sull’università è nel complesso condivisibile, perché rompe il principio del trattamento uniforme degli atenei e va incontro alle recenti proteste degli studenti. Salvo però contraddire i suoi stessi intenti quando modifica le procedure per la costituzione delle commissioni dei concorsi universitari, introducendo un meccanismo assai complesso, probabilmente inapplicabile e che non dà comunque alcuna garanzia di riuscire a premiare i migliori.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ci fa piacere che il nostro articolo abbia contribuito a portare l’attenzione sull’importanza del tempo pieno nella scuola materna ed elementare e a mettere in luce le ambiguità.
Ringraziamo per i commenti che mettono in evidenza altri rilevanti aspetti collegati a quelli più direttamente sollevati dal nostro contributo (scuole superiori, qualità complessiva dell’istruzione, centralità dei bambini).
Vorremmo sottolineare i seguenti punti:
– se il governo pensa di allocare nell’orario pomeridiano i maestri che sarebbero in esubero dopo l’introduzione del maestro unico e continuare (e potenziare) a offrire il tempo pieno, bene, ma al momento questa è un’intenzione dichiarata ai media e non presente nei documenti, dove, per contro, c’è una chiara difesa del modello delle 24 ore.
– le necessità dei bambini sono ovviamente una priorità: non siamo pedagogiste per dire quante ore al giorno sarebbe meglio per un bambino studiare e quante giocare; è chiaro che attualmente anche nel sistema delle 40 ore ci sono le ore di riposo, di mensa, intervallo. I bambini restano sotto la responsabilità dell’insegnante, che dovrebbe essere garanzia di migliore qualità rispetto al "parcheggio" sul quale restiamo scettiche, se pensiamo ad un contesto educativo.
– il confronto con altri paesi europei evidenzia come il contesto istituzionale sia, tra paesi, molto differenziato: in Francia per esempio il part-time è molto più diffuso che in Italia,le politiche di conciliazione supportano le famiglie dalla primissima infanzia e c’è un settore dei servizi privato ma regolamentato (accreditato) dallo Stato che si affianca all’intervento pubblico diretto, molto più consistente di quello che si osserva nel nostro paese.
– il tempo pieno è una realtà nel Nord soprattutto nelle grandi città (a Milano oltre il 90% dei bambini frequenta una scuola primaria a tempo pieno). Come abbiamo sottolineato nell’articolo, il Sud ha pochissime scuole a tempo pieno. Ma ha anche tassi di occupazione femminile molto bassi (31% contro una media del 57% del Nord). Non possiamo dire quale sia la causa e quale l’effetto senza studi più approfonditi, ma sarebbe auspicabile avvicinare il Sud ai livelli di occupazione femminile del Nord piuttosto che avvicinare il livello di servizi del Nord a quello del Sud.
– solo alcune famiglie possono permettersi di scegliere tra baby-sitter, ragazza alla pari, scuola privata, orari ridotti. Una scuola dell’infanzia e primaria di qualità dovrebbero però essere un diritto per tutti.

LETTERA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Raccogliendo il disagio diffuso per lo stato dell’Università italiana, gli studenti di Alternativa Democratica hanno cercato di far sentire la loro voce sull’argomento, approfittando dell’occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico in Bocconi. Il risultato della mobilitazione ha visto come soluzione la proposta, da parte dell’Università, di consegnare una lettera firmata da tutti i rappresentanti degli studenti nelle mani del Presidente della Repubblica. Questa iniziativa, che per la natura delle proposte come per i metodi messi in atto, avrebbe avuto per lo meno il merito di rappresentare una prospettiva riformista sull’argomento, è stata trattata dalla stampa con una certa superficialità. Invitiamo tutti i lettori al workshop che si terrà all’Università Bocconi il 14 novembre.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Mi sembra ci sia poco da aggiungere.
Ringrazio coloro che sono intervenuti civilmente, dando dimostrazione che si tratta di una questione di grande importanza per il futuro della nostra società.
Mi sembra anche che la maggior parte degli intervenuti siano d’accordo con le posizioni che ho espresso. Qualche precisazione sulle divergenze.

1) La formazione di classi in cui 25 bambini su 30 non parlano italiano è un’esagerazione. Se accadono, le concentrazioni abnormi dipendono:
1) da scelte dei responsabili scolastici;
2) dalla formazione di ghetti urbani (in Italia comunque al momento ancora rari).
La soluzione non sono le classi separate.

2) Costano anche le classi ponte; giacché l’apprendimento dell’italiano in contesti separati sarà più lento, rischiano persino di costare di più delle misure di accompagnamento che propongo, e che in parte sono già in uso. I test di italiano si possono fare, ma come strumenti per dare sostegno didattico, non per istituzionalizzare classi distinte. Penso che forse i test si dovrebbero fare anche per i bambini italiani, allo scopo di dare sostegno a chi ne ha bisogno (senza che sia necessario diagnosticare un handicap).

3) Sbagliato a mio avviso separare l’istruzione dall’integrazione sociale: la scuola deve preparare i futuri
cittadini di una società coesa, dinamica, aperta al futuro. Che non potrà che essere multietnico, al di là delle nostre personali preferenze.

4) A me non risulta che in Germania (stato federale, quindi possono esserci differenze regionali) vi siano classi di inserimento istituzionalmente separate, soprattutto oggi. Sono certo comunque che la tendenza di gran lunga prevalente nel mondo sviluppato non è quella. Anche l’apprendimento delle basi linguistiche può avvenire, e avviene meglio, con altre modalità.

5) Ho un dato nuovo che precisa quanto affermavo nell’articolo (lo devo a Meri Salati, Caritas ambrosiana): in provincia di Milano dieci anni fa c’era un insegnante-facilitatore ogni 50 alunni immigrati; oggi ce n’è uno ogni 500. Di certo le difficoltà saranno maggiori.

6) Mi pare sintonatico che le obiezioni riflettano le posizioni dei giornali filo-governativi, senza riferimento né a esperienze straniere (a parte l’ultimo caso, impreciso), né a opinioni pedagogiche qualificate. Saranno tutti in errore i governi, i responsabili scolastici e i pedagogisti che in Europa e nel mondo hanno scelto altre strade, e sarà più competente in materia l’on. Cota?

DECALOGO PER DOTTORATI

I dottorati di ricerca sono un elemento fondamentale per il progresso scientifico e tecnologico di un paese. E la loro qualità è uno dei migliori indicatori della qualità di un sistema universitario. La situazione dei nostri è assai deludente e una riforma è ormai ineludibile. Dovrebbe passare per dieci punti fermi: dalla valutazione esterna dei programmi a nuovi criteri per la ripartizione del fondo di finanziamento ordinario alle università, da un premio per le tesi più innovative al divieto di partecipare a concorsi per ricercatore nella sede dove si è conseguito il dottorato.

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