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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 49 di 69

ISTRUZIONI PER L’USO DELLA BIBLIOMETRIA

Valutare la ricerca è indispensabile. E per farlo la comunità accademica giudica la qualità delle pubblicazioni scientifiche attraverso due metodi: la recensione dei pari e gli indicatori bibliometrici basati sulle citazioni. I secondi hanno il vantaggio di essere più democratici ed economici dei primi, ma anche due gravi limiti. Non esistono infatti dati di buon livello per tutte le discipline e manca un metodo bibliometrico standard. Meglio allora affidarsi a una saggia cooperazione tra revisione dei pari e bibliometria.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio i lettori per i loro commenti. La vicenda di cui dò conto nell’articolo si inserisce purtroppo in una storia pluriennale (Cigolini) in cui ai proclami circa l’importanza della scuola, non solo per ragioni di sviluppo civile e di ben-essere, si è associato nei fatti un progressivo disinteresse dei governi e del parlamento ma anche della stessa società civile, tra cui gli stessi genitori. Ciò nonostante quello che l’istruzione può significare per il futuro dei figli e per la crescita dell’economia (per una valutazione al riguardo rinvio a un recente lavoro di Banca d’Italia). La partecipazione molto limitata dei genitori alla vita scolastica (come rileva sconsolato Grasso) indebolisce il formarsi di un movimento d’opinione in grado di contrastare provvedimenti rivolti solo a far cassa. Ciò sia riducendo i finanziamenti statali alle scuole pubbliche, con prevedibili conseguenze sulla qualità dei servizi di base (insegnamento, attrezzature, pulizia e manutenzione dei locali) che lo Stato si mostra in grado di fornire a cittadini in erba, sia attingendo in modo surrettizio alle tasche delle famiglie (anche nelle modalità non “volontarie” indicate da A. Marotta).
Relativamente alla posizione dissonante di Stucchi, concordo con Celenza che sarebbe opportuno dedicare tempo e attenzione per esprimere valutazioni informate sulla situazione attuale della scuola. Quanto alla domanda di Paola credo che sia difficile dare una risposta. Una nota ministeriale che doveva essere il principale elemento informativo per definire i bilancio del 2010, giunta oltre il tempo massimo, contravvenendo nella tempistica e nei contenuti alle normativa in vigore e alle buone pratiche nei rapporti contrattuali con imprese private, la dice lunga circa la considerazione in cui sono tenuti la buona amministrazione e un rapporto trasparente con le famiglie. Il rifiuto da parte di singoli genitori a contribuire “volontariamente” può creare in queste condizioni una conflittualità tra famiglie e con gli interlocutori diretti – insegnanti e dirigenti scolastici – che potrebbe finire per peggiorare nell’immediato le già precarie condizioni ambientali in cui i nostri figli studiano. E’ mia opinione che solo una partecipazione più diffusa e istruita (anche la lettura dei bilanci delle scuole è una forma di educazione finanziaria; Grasso) delle famiglie possa incidere sulla politica per la scuola, con ciò cercando di assolvere ai doveri che i genitori hanno di aiutare fattivamente a creare un futuro migliore per i loro figli.

L’ISTRUZIONE FA LA DIFFERENZA

Il tetto al numero di alunni stranieri per classe annunciato dal ministro Gelmini risponde anche al timore che “troppi” immigrati possano pregiudicare l’apprendimento degli italiani. Ma è una preoccupazione confermata dai dati? Utilizzando quelli delle indagini Pisa, si vede che il fattore cruciale non è la quantità, ma la qualità: nei paesi che incentivano l’ingresso di immigrati relativamente istruiti un eventuale incremento della percentuale di studenti stranieri nelle classi finisce per arricchire il contesto formativo e favorire l’apprendimento dei nativi.

IL COMMENTO DI STEFANEL, DIRIGENTE SCOLASTICO

L’articolo di Paolo Manasse ha analizzato in maniera inequivocabile la circolare del miur relativa al tetto del 30% degli alunni stranieri per classe. Oltre ai problemi evidenziati da Manasse ce n’è altri più interni allo specifico scolastico, che nascono dall’essere questa iniziativa ministeriale un ulteriore meccanismo di complicazione della scuola.
L’Italia non è in grado di gestire i flussi dell’immigrazione e questo si trasferisce nell’ambito locale, perché neppure i comuni sono in grado di gestire i flussi dei minori e di smistarli nelle varie scuole sostenendo quelle più in difficoltà. Lo straniero accettato o respinto dalla scuola è uno straniero solo davanti al sistema scolastico italiano e la scuola e il dirigente che accolgono o respingono sono soli con i propri spazi, le proprie difficoltà, i propri bilanci.
Lo Stato non sta pagando alle scuole quello che loro spetta per la gestione ordinaria (supplenze, ore eccedenti, funzionamento amministrativo, esami, ecc.) e questo credito delle scuole viene chiamato in gergo “residuo attivo”, ma poiché ci sono residui attivi che risalgono al 2002 non si intravedono possibili arrivi di nuove risorse. Quello che scrive Manasse in chiusura di articolo è totalmente sensato: invece di pensare a meccanismi complicati e farraginosi per gestire gli stranieri è meglio intervenire a supporto delle scuole in maggiori difficoltà. Ma se il provvedimento deve essere a costo zero come potrà avvenire questo intervento?
La norma del 30% non fa altro che registrare quanto già avviene nelle scuole, in quanto sia le classi di soli alunni stranieri, sia quelle con pochi italiani sono dettate più che da scelte da necessità o da situazioni contingenti. Il 30% è un numero che in alcuni casi è inutile, in altri inapplicabile: 

  • la gran parte dei paesi e delle città italiane non ha un problema del genere in quanto o ha pochi stranieri residenti oppure ha strutture ricettive con numeri che permettono una distribuzione equa degli stranieri delle classi;
  • alcuni quartieri in alcune città italiane invece sono abitati quasi solo da stranieri e le scuole di riferimento ne accolgono moltissimi: quando non si rispetta il tetto dove vanno i bambini in più? Sto parlando qui di bambini soprattutto dai 3 agli 8-9 anni, quelli che  non usano i mezzi pubblici, che vengono accompagnati dai genitori, che hanno paura, che sono troppo piccoli per percorrere lunghi spazi cittadini da soli, che vivono in luoghi dove non è previsto il servizio di scuolabus.
  • se una scuola ha pochi italiani chiude del tutto visto che non potrà applicare il 30%?

Quelli che ho riportato sono solo alcuni esempi di una norma applicabile quasi dovunque, ma che, dove non sarà applicabile, porterà alla paralisi. C’è poi il problema dei numeri: se una scuola respinge 5-6 stranieri può anche perdere una classe e quidi far perdere il posto ad alcuni suoi docenti.
Nei quartieri di Roma o Napoli o Torino (ma anche di Udine) dove vivono molti stranieri si assiste poi ad un meccanismo molto semplice: gli italiani tendono a portare i propri figli “un po’ più in là”, mentre gli stranieri portano sempre i figli a scuola vicino a casa. Gli alunni stranieri vanno nelle scuole per vicinanza abitativa, ma i loro problemi linguistici o culturali, le loro privazioni e la soglia della povertà quando questa è varcata sono questioni che compaiono a scuola e che l’ente locale non vuole conoscere. In questo momento esiste un vero baratro tra i servizi di assistenza sociale comunali e le scuole perché non stanno perseguendo la stessa missione.
I comuni dovrebbero capire che la scuola non  ha una struttura tipica di accoglienza  per gli stranieri, ma che semplicemente adatta le sue pratiche ai nuovi arrivi. Qualche volta questa procedura è facile da attuare, qualche altra no e quando lo straniero invece di arricchire l’ambiente lo impoverisce, lo disturba, lo contamina anche in forma teppistica salta tutto il meccanismo dell’accettazione e dell’integrazione. Se non  si gestiscono i flussi cittadini nei confronti della scuola ci si troverà sempre di più davanti alla fuga degli italiani dalle scuole dove gli stranieri sono governati male.

SE LA SCUOLA VA AVANTI CON I SOLDI DEI GENITORI

Il contributo volontario versato dai genitori è da anni prassi comune nelle scuole. Serve a finanziare l’ampliamento dell’offerta formativa che ciascun istituto decide autonomamente. Ma è anche una voce di bilancio certa e prevedibile nei tempi di incasso. Tanto che il ministero consente ora di ricorrervi per colmare la carenza dei finanziamenti statali per le spese ordinarie necessarie all’erogazione del servizio scolastico base. Equivale all’imposizione di una nuova tassa, regressiva perché di ammontare fisso indipendentemente dal reddito.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio i lettori che hanno commentato il mio articolo. Il tema è molto delicato: lo spettro di classi ghetto, gli echi di Rosarno, l’insoddisfazione verso la scuola pubblica, la fuga dei ricchi verso le scuole private: ce n’è a sufficienza per alimentare commenti molto accesi Riassumo sinteticamente. Bisogna distinguere tra obiettivi e strumenti. Evitare classi ghetto e ripartire gli studenti con difficoltà linguistiche tra le scuole (oltre che, ovviamente, tra le classi) è un obiettivo al contempo “equo” (perché garantisce lo stesso trattamento ai cittadini-studenti) ed “efficiente” (al fine di favorire l’integrazione e l’apprendimento degli stessi). L’imposizione di quote è invece uno dei possibili strumenti per realizzare l’obiettivo: una politica scolastica seria deve indicane i costi e le modalità di applicazione. In particolare, a) con quale criterio si vuole discriminare tra chi ha diritto ad iscriversi alla scuola più vicina e chi no? b) Quanto costa trasferire studenti tra le scuole e chi sostiene tali spese? Senza dettagli a riguardo, è molto difficile valutare se lo strumento delle quote sia il più idoneo, o non vi siano mezzi sostitutivi o complementari (più insegnanti di sostegno o fondi per le scuole con più stranieri) preferibili.
Sono d’accordo con i lettori Marco Dore e Adriano Stabile (parte 2) che sottolineano come si debba partire dal garantire omogeneità nella composizione delle classi all’interno di ciascuna scuola, e come la quota stranieri vada nella direzione giusta, contribuendo anche a ridurre le disparità tra istituti. Circa la proposta di avere classi differenziate all’interno delle scuole, per intelligenti e meno intelligenti (lettore Dore, parte 3), ricordo che stiamo parlando della scuola dell’obbligo, e che Albert Einstein da piccolo era notoriamente un somaro…
Alcuni lettori rilevano altre difficoltà d’applicazione della “quota per stranieri”. Il provvedimento, chiede il lettore Iansolo, deve essere applicato solo alle classi di nuova formazione (le “prime” elementari, medie)? O richiederà invece di smembrare e ricostituire classi esistenti (e legami affettivi tra i ragazzi)? E cosa accadrebbe se eventuali bocciature comportassero la violazione delle quote? Come osserva il lettore Franco M, se il problema è quello della lingua, esso va affrontato valutando le capacità degli alunni (bambini “stranieri” potrebbero avere maggiore padronanza della lingua di bambini italiani, si pensi ad esempio al caso di bambini adottati). Ma quanto costeranno le task-force richieste per tali valutazioni? Altri lettori sottolineano il problema della ripartizione dei costi: saranno gli immigrati a pagare (lettore Roberto Simone)? I piccoli comuni, che con difficoltà riescono a pagare uno scuolabus (lettore Mauro Vecchietti)? Le scuole, dove già gli insegnanti non hanno la formazione per aiutare gli studenti che non capiscono la nostra lingua (lettore Mario)? Concordo con queste perplessità.
Altri lettori invece sembrano più ottimisti di me. Antonio Cianci, ad esempio, confida in una specie di “mano invisibile del mercato scolastico”: i genitori , votando con piedi, renderebbero omogenea la qualità dell’offerta scolastica tra gli istituti. Temo ciò non accada, e dunque penso che le quote possano, insieme ad altri strumenti, essere utili. Come ho detto, ritengo giusta l’esigenza di distribuire tra le classi i ragazzi con difficoltà linguistiche (lettore Rinaldi). Infine, non è vero quanto sostiene il lettore Bruno Stucchi: il mio esempio numerico non richiede l’uso di Excel, ma di sole carta e penna!

ALUNNI STRANIERI IN QUOTA

Il ministero dell’Istruzione ha stabilito che il numero di alunni stranieri per classe non dovrà superare il tetto del 30 per cento. Vanno comunque esclusi dal computo i ragazzi che non hanno cittadinanza italiana, ma sono nati in Italia. Un provvedimento anche condivisibile, ma che segue la solita logica dell’annuncio perché la sua applicazione sembra piuttosto complicata. Non sarebbe meglio allora accrescere il numero di insegnanti nelle scuole in difficoltà invece di spendere risorse per trasportare avanti e indietro gli studenti?

UNA NUOVA GOVERNANCE PER GLI ATENEI. MA QUALE?

Le recenti linee guida del CdM e la risposta della CRUI prefigurano cambiamenti alla governance d’ateneo e va perciò compiuta un’analisi scientifica della situazione nazionale. Superando il mero dibattito sulla accountability, si deve studiare l’efficacia delle forme di governo.
Negli ultimi decenni 3 fattori hanno messo in discussione il tradizionale modello di governance degli atenei, non solo in Italia. Alla spinta democratica prodotta dall’università di massa è seguita una pressione efficientista in conseguenza della saturazione dei modelli di welfare degli stati europei, seguita dal progressivo spostamento verso il mercato che ha reso gli atenei più sensibili alla domanda esterna. Queste pressioni hanno prodotto 3 effetti sull’università: a) crisi di legittimità dovuta allo scemare di fiducia nella società; b) mutamento della missione da culturale a più utilitaristica; c) trasferimento di poteri dal centro alla periferia.

IL CASO ITALIANO

Il caso italiano si complica a causa di una legiferazione che fin dalla L.168/89 (autonomia universitaria) è stata discontinua e incoerente: da un lato conferisce piena autonomia (normativa, organizzativa, contabile), dall’altra impone alcuni organi di governo e numerosi paletti contabili. L’errore più grande è d’aver approvato il sistema di finanziamento (il budget d’Ateneo, L.537/93) 4 anni dopo l’introduzione dell’autonomia statutaria. Oltre metà degli atenei hanno approvato lo statuto prima del ’93, alcuni organi di governo si sono così caricati di responsabilità per cui non erano stati concepiti. L’impianto di governance imposto dal legislatore nell‘89 sembrerebbe funzionare: il senato accademico come centro delle politiche scientifiche, il CdA di quelle gestionali e il rettore quale garante dell’equilibrio fra i due. Confrontando questo modello con best practice e teorie di governance emergono 4 ordini di problemi:

1)     mancata separazione fra gestore e controllore: il rettore è presidente e AD, diventa cioè amministratore unico (sconsigliato in dottrina per dimensioni d’un ateneo) senza averne l’autorità (elettività della carica).
2)     Mancata unione delle 3 funzioni di governo (strategico, ambientale, controllo) in un organo esecutivo: la strategia è definita dal senato (piano di sviluppo triennale), il CdA assume responsabilità economica su decisioni altrui.
3)     Organi di governo pletorici tendenti al conflitto fra interessi contrapposti: i membri rappresentano categorie, non funzioni, e quindi interessi particolari
4)     Mancato controllo sulle risorse umane, poiché condizioni contrattuali dei docenti sono determinate a livello centrale

ERRORI ED ESPERIENZE POSITIVE

Agli errori del legislatore si sono sommati quelli degli atenei, ma esistono esperienze positive. Con l’autonomia statutaria si sono configurati 3 diversi modelli di governance nelle università italiane: il sistema bicamerale perfetto, il modello a senato preminente e quello a CdA preminente.
La maggioranza degli atenei ha scelto modelli aderenti alla riforma, modificando però la composizione degli organi. Molti atenei l’hanno ampliata tanto da uniformare i due organi eoptato per la doppia competenza: ad ogni decisione un organo ha potere deliberativo e l’altro consultivo. Si è instaurata così una sorta di bicameralismo perfetto che rallenta i processi decisionali e ne rende incerti gli esiti.
Alcuni atenei statali (Venezia, Tor Vergata, Torino) hanno invece configurato il CdA in modo atipico ammettendo solo specialisti esterni per meglio governare gli aspetti economici. Il contributo di un CdA simile è qualitativamente migliore, ma si consuma così la cesura definitiva fra CdA e senato, a netto favore di quest’ultimo che ha potere strategico.
Il terzo modello emergente è quello di Trento e degli atenei non statali, dove il CdA è univoco organo di governo con potere d’indirizzo e di controllo. Il rettore è nominato dal CdA, nel quale però sono spesso previsti docenti. Fra i modelli italiani questo è l’unico dotato delle caratteristiche irrinunciabili per un governo efficace: chiarezza nei ruoli fra organi, univocità nell’attribuzione delle responsabilità, unità di comando in un organo esecutivo.

COINVOLGIMENTO AMPIO

È restrittivo affrontare il tema della governance d’ateneo nei termini della giusta alchimia fra organi. Il problema si estende a tutti gli attori che contribuiscono all’ateneo e da esso ottengono ricompense, poiché l’obiettivo è il contemperamento degli interessi. Stabiliti organi e meccanismi di governo bisogna dunque definire i soggetti con diritto a partecipare alla governance.
Classificando la governance degli atenei rispetto alla tipologia (interni o esterni) ed alla varietà (monopolio o pluralità) dei soggetti con potere sostanziale, si possono individuare 4 modelli. Nel caso di sistema bicamerale o senato preminente, la governance è di tipo accademico, poiché solo i docenti determinano le decisioni. Con CdA prevalente la governance è fiduciaria, perché coinvolge altri soggetti interni (studenti, PTA) ed esterni. Nella maggioranza degli atenei il governo è accademico, per via del contributo critico apportato dai docenti. Ma non va sottovalutato l’apporto degli studenti (finanziario), del PTA (conoscenza specifica) e della comunità locale (appoggio logistico). A fronte del loro contributo, andrebbero coinvolti fattivamente nelle decisioni.
Chiarezza di ruoli, responsabilità univoche, unità di comando, contemperamento degli interessi, coinvolgimento ampio. Queste le poche regole che possono garantire una governance d‘ateneo efficace. Le intenzioni del governo e le attese della CRUI, tuttavia, non mettono mano all’ambiguità del sistema bicamerale che regge i nostri atenei.

MANAGER ACCADEMICO CERCASI

L’assetto della governance delle università è la vera chiave di volta per qualsiasi riforma complessiva ed efficace del sistema. Il disegno di legge Gelmini fa importanti passi avanti verso la modernizzazione. Ma non risolve la questione delle nomine del consiglio di amministrazione e dell’elezione di rettore, presidi e direttori di dipartimento. Mantenendo sostanzialmente intatti i conflitti d’interesse, individuali o di gruppo, che oggi distorcono molti dei processi decisionali. E continua a mancare la figura essenziale del manager accademico.

CI VUOLE METODO PER VALUTARE LA RICERCA

Gli esercizi di valutazione della ricerca sono condotti in Italia con il sistema “informed peer-review”. Che ha però molti limiti di precisione, affidabilità, robustezza, funzionalità, costi e tempi di realizzazione. Difetti che invece non si ritrovano nel sistema di supporto alla valutazione della ricerca che si basa sui dati dell’Osservatorio della ricerca pubblica. Ed è paradossale che si valuti la ricerca ignorando i progressi fatti nelle metodologie di valutazione.

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