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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 46 di 69

Se il diritto allo studio non è uguale per tutti

Pochissime risorse per il diritto allo studio. A cui si aggiunge una elevata disparità di trattamento sul territorio nazionale. Nel 2009-10 solo in dieci Regioni la borsa è stata assegnata a tutti gli idonei, mentre in media uno studente su sei aventi diritto non l’ha ottenuta. Anche l’entità dell’assegno varia di Regione in Regione. Così come le detrazioni per i servizi garantiti. Una riforma è dunque necessaria. Dovrebbe ripartire dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nell’ambito del diritto allo studio e indicare chi li deve finanziare e come.

 

Le buone università ci sono, costruiamo l’eccellenza

Su università italiane e università americane ci sono alcuni luoghi comuni da sfatare. Non è vero che la situazione delle nostre sia così nera come si vuole a volte dipingerla. Né è vero che quelle di oltre oceano siano tutte eccellenti. La posizione dell’Italia nei ranking internazionali è del tutto adeguata al suo ruolo di settima potenza industriale del mondo. Se poi vogliamo creare anche da noi sedi di eccellenza, basta permettere la libera circolazione dei ricercatori. E aggiungere un rifinanziamento virtuoso degli atenei per i cosiddetti costi indiretti.

 

La risposta ai commenti

Ringraziamo le risposte fin qui giunte.
Il nostro obiettivo è quello di spostare l’attenzione sulle altre barriere che impediscono la diffusione delle reti wi-fi territoriali a larga diffusione in Italia. La nostra tesi è che purtroppo l’abrogazione del decreto Pisanu non allevierà la carenza di reti-wifi in Italia proprio perchè non elimina quelle che noi riteniamo essere le reali barriere. Secondariamente sosteniamo anche che le ragioni di sicurezza del decreto Pisanu non sono peregrine. Prova ne è il fatto che regolamentazioni à-la Pisanu esistono anche in altri Paesi (Russia, India, Uk) nonostante sulla stampa il decreto Pisanu sia stato dipinto come un unicum italiano.
Vorremmo partire dalla nostra esperienza, crediamo condivisa con la maggior parte dei lettori de Lavoce, di utilizzatori di reti wireless in mobilità sia in Italia che all’estero. Le reti ad accesso anonimo, pur presenti in molti paesi (ed anche in Italia se ne trova ancora qualcuna), sono comunque degli incontri saltuari (non puoi prevedere dove le troverai) ed inaffidabili sia dal punto di vista della qualità del servizio che da quello della sicurezza, in quanto possono essere molto facilmente dirottate (il cosiddetto spoofing). Il loro utilizzo è fonte di distrazione e perdite di tempo: si passano decine di minuti a cercare tali reti con i vari devices ed a tentare di capire perché non funzionano o perché sono intasate. Da quando la minaccia dello spoofing si è diffusa poi, noi personalmente abbiamo proprio smesso di usarle per questioni di sicurezza (sul nostro laptop abbiamo praticamente tutta la vita).
Le reti migliori, perché accessibili in continuità ed in mobilità, che si trovano dove e quando se ne ha bisogno, nei posti giusti e con la qualità e sicurezza necessaria, sono quelle aperte non anonime di cui parliamo nell’articolo. Ci sono in tutte le città europee ed americane, le trovi per strada, negli aeroporti ed in altri spazi strategici. Purtroppo sono spessissimo a pagamento. Di queste reti non ne ricordiamo una sola che fosse ad accesso anonimo. Anche l’esempio dei treni danesi portato da Silvio, siamo certi che richiedesse la registrazione di un profilo.
Se questa esperienza è in parte condivisa da altri lettori, ci poniamo le seguenti domande: come mai all’estero, almeno nei paesi dove non vige alcun obbligo alla Pisanu (eh si lo ribadiamo, il Pisanu non è un unicum italiano, vedi sotto), si sono comunque sviluppate tantissime reti che richiedono qualche forma di autenticazione? Se avessero ragione i detrattori del Pisanu -come molti dei commenti- che dicono che qualsiasi forma di autenticazione impedisce l’uso di tali reti, non dovremmo osservarne alcuna. Ed invece sembrano un florido business nel resto del mondo. Se questo è vero, vorrete convenire con noi che il decreto Pisanu non può essere la vera barriera alla diffusione di queste reti in Italia. Come può essere che imporre una forma di autenticazione impedisca lo sviluppo di reti che all’estero si sviluppano già con qualche forma di autenticazione senza alcuna imposizione legale? Noi crediamo che il paradosso è presto spiegato: il Pisanu c’entra poco o nulla con il sotto-sviluppo di queste reti territoriali. In Italia sono difficili da realizzare per gli altri motivi che individuiamo nell’articolo.
Vogliamo sottolineare che l’obbligo di autenticare le connessioni ad internet tramite wifi non è un unicum italiano. Obblighi in linea con il decreto esistono in paesi come la Russia, l’India e la civilissima Gran Bretagna. Anche li hanno ovviamente sollevato polemiche. Però questo va a conferma del fatto che il quadro del decreto Pisanu forse non è così peregrino come lo si vorrebbe dipingere e che le ragioni di sicurezza che esso solleva, che non riguardano solo i casi -magari remoti- di terrorismo, sono comunque sentiti anche in altri importanti paesi.
Alla luce di queste riflessioni noi riteniamo che il tradeoff tra sicurezza e facilità di accesso, per quanto riguarda l’accesso ad internet tramite wifi sia ormai ampiamente superato nei fatti. Sistemi di login acquistabili anche dai piccoli esercizi a costi contenuti sono in commercio. Tra le aziende che li producono ci sono anche quelle citate nei commenti. Quello che serve fare ora -lo abbiamo enfatizzato nel testo- è favorire la diffusione delle reti territoriali che sono ostacolate da normative che con il decreto Pisanu non c’entrano nulla.

La risposta ai commenti

PER GLI STUDENTI SCETTICI

Supponiamo di ridistribuire in maniera casuale tutti i calciatori delle prime 90 squadre di calcio della Lombardia, a partire dalle Serie A e B e via via proseguendo per le divisioni minori. Cosa accadrebbe a Milan e Inter nel medio termine? Retrocederebbero in campionati di divisioni minori, la partecipazione in Champions League diventerebbe un miraggio, i calciatori di talento italiani e non migrerebbero verso altre squadre, gli spettatori abbandonerebbero gli stadi, i giovani più promettenti non si iscriverebbero alle loro scuole calcio, gli sponsor non supporterebbero più i due club. Mutatis mutandis, quella descritta è più o meno la situazione delle università italiane rispetto a quelle anglosassoni. L’’Italia ha bisogno di università che stanno all’’higher education come Milan, Inter, Juventus, Roma stanno al calcio.

MERITOCRAZIA E DEMOCRAZIA

Possono convivere? Da piccolo avrei voluto entrare nelle giovanili dell’’Inter, ma non ne avevo la stoffa. Qualcun altro c’’è riuscito e io ho trovato la mia realizzazione in un altro campo (non di calcio). L’’importante è che nel mio paese ci fosse innanzitutto una Inter e a me fossero date opportunità pari agli altri per potervi accedere. E’’ inutile pretendere università omogenee perché la selezione, dopo, la fa in ogni caso il mercato (quello reale) del lavoro.

FATTIBILITA’

Perché mai Harvard, Oxford, ecc. dovrebbero saper condurre una selezione efficiente dei docenti e noi no? Basta misurare il tasso di concentrazione di top scientist dell’’Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano per realizzare che anche in Italia è possibile. La proposta di policy è percorribile perché farebbe felici molti, senza scontentare nessuno.

COSTO

La progressiva chiusura delle sedi universitarie distaccate e il continuo incremento del numero delle matricole rendono in ogni caso necessario un progressivo aumento della capacità produttiva delle attuali università. Il costo incrementale di nuove università, al netto di quello per l’’espansione, è quindi relativamente basso. Il ritorno socio-economico dell’’investimento è evidentemente altissimo. Sistema produttivo e amministrazioni locali (la Provincia autonoma di Trento si è già mossa in tal senso) dovrebbero adoperarsi tutti, insieme al governo, perché ciò si realizzi. Il più grande aiuto di stato legale che possa esser fatto al sistema industriale è realizzare la gemmazione di nuove top university dalle esistenti. Where there is a will, there is a way”

La riforma dell’università parte dalla governance

L’approvazione del disegno di legge Gelmini sull’università è stata rinviata alla fine dell’anno, in attesa che governo e parlamento trovino le risorse necessarie. Una battuta d’arresto che può essere utile per introdurre nel disegno di legge quegli elementi che lo renderebbero una vera riforma. Perché così come è adesso non interviene sulla questione centrale dell’autoreferenzialità dei nostri atenei. Nuove norme sulla governance interna degli atenei sono il presupposto indispensabile per l’affermarsi della meritocrazia e per contrastare il potere dei baroni.

 

Cala il sipario sul diritto allo studio

Il fondo che finanzia le borse di studio per gli studenti universitari scenderà nel 2011 a 70 milioni di euro dagli attuali 96 milioni, tornando più o meno sui livelli del 1998. In Francia e in Germania la spesa annua per il sostegno agli studenti è di 1 miliardo e 400 milioni. E mentre in altri paesi il pacchetto di aiuti è uniforme su tutto il territorio nazionale, per gli universitari giovani i criteri di ammissione alle borse variano di Regione in Regione e talvolta anche all’interno di una stessa Regione. Perché nessuna voce si leva in difesa del diritto allo studio?

Costruiamo nuove università riservate ai bravi scienzati

In Italia non ha molto senso parlare di università migliori di altre. Ci sono semmai scienziati o gruppi di ricerca migliori di altri, indipendentemente dagli atenei cui appartengono. Distribuiti a macchia di leopardo, cosicché nessuno raggiunge quella massa di eccellenza critica necessaria per competere a livello internazionale. Stesso discorso vale per gli studenti più capaci. Si dovrebbe perciò favorire la nascita per gemmazione di nuove università, equamente distribuite sul territorio, verso le quali far migrare solo i professori più bravi.

La risposta ai commenti

Mi sembra che l’’essenza delle articolate argomentazioni del dott . Matteoli siano riconducibili a due punti essenziali:
1) Il privato, avendo obiettivi di profitto, può avere comportamenti opportunistici gravemente lesivi dell’’interesse pubblico.
2) il privato non investirà mai le rilevantissime somme necessarie a risistemare lo stato catastrofico del sevizio idrico italiano.

Una, devastante, obiezione alla prima argomentazione è che un sistema di gare non significa affatto privatizzazione del sistema: se imprese pubbliche offriranno condizioni più favorevoli in termini di costi, tariffe e qualità, vinceranno le gare, come è ovvio, e come è successo moltissime volte ovunque in Europa. Quindi non vi è alcun nesso tra gare e privatizzazione dell’’acqua, come strumentalmente si tende a far credere al fine di difendere ad oltranza uno status quo indifendibile. Non solo: la periodicità obbligatoria delle gare costituisce un incentivo potente all’’efficienza e al rispetto delle condizioni di interesse pubblico espresse nel bando. Comportamenti inadeguati comprometterebbero gravemente la reputazione delle imprese inadempienti, anche nei confronti di gare in contesti diversi da quelli dove avessero inizialmente vinto. E alla reputazione le imprese private tengono molto….
La seconda argomentazione appare ancora meno difendibile: se occorrono moltissimi soldi per investimenti, necessari a “tappare le falle” delle passate gestioni (generalmente pubbliche), questi soldi occorrono comunque, indipendentemente da chi li spenda. Se si decide che li debbano pagare gli utenti, le tariffe dell’’acqua aumenteranno, e di molto. Se si decide che questi costi, per ragioni sociali, dovranno essere pagati dallo stato, cioè dai contribuenti, i gestori dei servizi idrici saranno pesantemente sussidiati, pubblici o privati che siano. Significa che si avranno meno risorse pubbliche per scuole o trasporti pubblici, scelta politica del tutto legittima. Cioè si trasferiranno risorse da servizi sociali politicamente giudicati meno prioritari ai servizi idrici.
Infine, che i privati abbiano obiettivi di profitto, cioè “egoistici”, è assolutamente ovvio, e per questo occorre una seria regolazione pubblica. Che amministrazioni pubbliche corrotte, o dove domina il “voto di scambio” (fattori talmente reali, che sono verificabili attraverso l’’attuale vergognoso dissesto del sistema: meno manutenzione e più assunzioni clientelari, o appalti “agli amici”), esprimano obiettivi meno egoistici dei privati, mi sembra una argomentazione perlomeno ardua.

Ringrazio anche per i molti commenti costruttivi, ricordando che i limiti di spazio della Voce costringono a forti sintesi (tipo “bianco-nero”), il che ha anche dei vantaggi. Le argomentazioni rivolte a Matteoli rispondono alla maggiorparte di voi. Rimarco comunque che in molti commenti domina un tragico equivoco: gare=privatizzazione. Se imprese pubbliche saranno più efficienti, vinceranno le gare, magari al secondo giro. E’ successo in Svezia, in USA e in Germania per i trasporti pubblici, perché non dovrebbe succedere per l’acqua?

Un’onda anomale minaccia l’università

La Camera inizia l’esame del disegno di legge sull’università, norme di reclutamento comprese. Veniamo da un lungo blocco dei concorsi e da norme restrittive sull’adeguamento dell’organico. Ma un blocco di assunzioni e carriere seguito da una riforma radicale spesso comporta la successiva assunzione di una massa di ricercatori qualitativamente eterogenea. E lascia un segno indelebile sulla produttività scientifica media. In Italia è già accaduto dopo le riforme del 1980 e del 1998. Nel Ddl 1905 ci sono tutte le premesse per una futura nuova onda anomala di assunzioni.

A medicina va curata la distribuzione degli studenti

Ogni anno il ministero determina a livello nazionale il numero di immatricolazioni al corso di laurea in Medicina e la ripartizione dei posti tra le singole sedi. Il sistema quindi garantisce la sopravvivenza delle piccole facoltà e insieme le progressioni di carriera dei docenti dei grandi policlinici. Il ministero dovrebbe limitarsi a fissare un numero programmato su base nazionale ed espletare un concorso unico per le ammissioni, garantendo poi maggiore autonomia alle singole sedi per decidere il numero di studenti ammessi.

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