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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 45 di 69

INCENTIVI ALLO STUDIO

Gli studenti italiani non brillano nelle classifiche internazionali. E allora alcune scuole e università hanno pensato di ricorrere ai premi in denaro per spingerli a impegnarsi di più. È una strategia che funziona? Un esperimento condotto all’Università della Calabria mostra che l’incentivo monetario ha un effetto positivo sui risultati, sia in termini di crediti conseguiti che di voto ottenuto agli esami. Vale però per gli studenti con maggiori abilità, sugli altri l’effetto è nullo. Per loro, l’incentivo dovrebbe considerare i miglioramenti rispetto al passato.

ANNO CHE VIENE, INCENTIVO CHE PORTA

Sull’università uno dei pilastri dell’azione di governo è la distribuzione meritocratica delle risorse. Ma se si guarda all’assegnazione del Fondo di finanziamento ordinario per il 2010 sorge il sospetto che si sia voluto correggere la distribuzione del 2009, ritenuta troppo sbilanciata a favore delle sedi settentrionali. Eppure, per incoraggiare gli atenei a intraprendere cammini virtuosi secondo direttive ministeriali, servono criteri annunciati in anticipo e stabili per un certo numero di anni. Oggi invece il meccanismo di incentivazione assomiglia a una lotteria.

PER LA RICERCA RISORSE SCARSE E POCO COMPETIVIVE

I problemi dell’università italiana non dipendono solo dai tagli al Fondo di finanziamento ordinario decisi dal governo. Altrettanto importanti sono le risorse, pubbliche e private, destinate a finanziare le attività di ricerca. Il confronto con l’Inghilterra fa emergere come siano particolarmente scarse in Italia. E come quelle che pur esistono vengano allocate in gran parte con procedure non competitive.

LA RIFORMA SPIEGATA AI NON ADDETTI AI LAVORI

L’impianto della riforma dell’università è in linea di principio coerente e razionale. Tuttavia nel testo mancano spesso dettagli importanti per valutare l’efficacia concreta delle disposizioni. Così come molte volte non è indicata o sembra eccessivamente limitata l’entità delle risorse per realizzarle. I meccanismi per la valutazione o l’incentivazione della qualità sembrano eccessivamente dirigistici. Si tratta di limiti che in larga parte dipendono dalla scelta di fondo fatta dalla legge: regolamentare invece di responsabilizzare.

La risposta ai commenti

Ringrazio i molti lettori che hanno voluto condividere le loro osservazioni e i loro commenti. Come era forse prevedibile, si sono equamente suddivisi in commenti favorevoli e contrari, ma tutti presentano argomenti degni di ulteriore riflessione. Mi sembra però che la simpatia o l’antipatia per questa legge di riforma renda difficile a tutti rispondere serenamente al principale problema che avevo cercato di porre: una volta riconosciute le contraddizioni fra obiettivi (condivisi da molti) e strumenti/risorse (riconosciuti inadeguati dai più), quali le conseguenze del fallimento (ormai probabile) di questo tentativo di riformare l’università italiana? Il modo in cui si è sviluppato il dibattito politico e culturale, la prova di forza intorno a questo ddl il cui significato e la cui portata va ben al di là dei meriti e demeriti del ddl stesso, mi rendono pessimista su queste conseguenze; e in molti dei commenti ricevuti trovo conferma di ciò.
Facciamo un solo esempio dei molti aspetti contraddittori contenuti nel ddl e dei diversi modi in cui si può rispondere a queste contraddizioni. Il nuovo percorso previsto per il reclutamento (la cosiddetta tenure track) si ispira al sistema seguito dalle migliori università in Europa e nel mondo, ma manca una componente cruciale: l’obbligo per le università di accantonare i fondi per il tempo indeterminato da utilizzare dopo il periodo di prova. Come reagire a questa contraddizione?
Si può incalzare il governo (anche dopo l’eventuale approvazione del ddl) a prevedere quest’obbligo per realizzare un vero percorso di tenure track, con numerosi argomenti: che se veramente vogliamo allinearci ai migliori sistemi universitari occorre seguirne la logica che li ispira e non adottare soluzioni parziali che non riuscirebbero a rispondere a quella logica; che se veramente vogliamo favorire il merito e combattere il nepotismo questo è il sistema migliore, perché qualunque sistema concorsuale può fallire nel valutare le capacità e l’impegno nella ricerca e nella didattica di un candidato, mentre il vederlo alla prova per alcuni anni consente a tutti i colleghi di valutare se il “nuovo acquisto” rende il dipartimento più competitivo o meno. Insomma, si può dire: questo è il principio migliore, ma questo governo (o il prossimo che farà la riforma) deve applicarlo in modo coerente.
Oppure si può rispondere che la tenure track “è ben altro”, che questo dimostra che tutta la riforma è un bluff, che sarebbe bastato applicare seriamente la norma già esistente della conferma in ruolo (dimenticando che questa conferma non è mai stata negata a nessuno…). O addirittura rispondere che in questo modo si estende il precariato, si dà più potere ai baroni, ecc.
Ora, è sotto gli occhi di tutti un progressivo slittamento nel dibattito dalla prima risposta alla seconda e alla terza. E resto convinto che il clima culturale che si è creato (il mutamento nelle posizioni del PD, gli slogans delle proteste amplificati dai media e ormai assorbiti dall’opinione pubblica, il ripensamento di molti rettori) è tale per cui, se la riforma non passerà, sarà il terzo tipo di risposta a dominare. Se e quando il dibattito sulla riforma riprenderà, sarà pesantemente condizionato da questi mutamenti nei valori e negli orizzonti in cui si muovono alcuni dei protagonisti e degli opinion leaders.
Un altro tema evocato da alcuni commenti è il fatto che si sia trattato di un tentativo di riforma poco partecipato. Personalmente sono a favore della concertazione delle riforme importanti, ma si tratta di capire chi devono essere gli interlocutori. L’università è diventata una istituzione fondamentale per la crescita economica e lo sviluppo sociale e culturale di un paese e non può quindi essere governata principalmente da e nell’interesse di chi vi lavora. E’ facile banalizzare l’apertura dei cda agli esterni (che esiste da tempo in tutti i paesi avanzati) presentandola come una volontà di privatizzazione o di spartizione fra i partiti. Certo, questi sono rischi purtroppo sempre presenti (anche se le esperienze straniere mostrano che il vero rischio è il disinteresse e lo scarso impegno dei membri esterni), che bisognerà sempre cercare di combattere. Ma non possono essere usati come alibi da docenti o studenti per evitare di render conto a qualcuno che ha il compito di rappresentare interessi più generali, “altri” dai loro.

L’università della conservazione

Introdurre elementi di competizione fra gli atenei, distribuire una parte delle risorse in base al merito, sottrarre potere alle corporazioni: sugli obiettivi della riforma dell’università esisteva fino a poco tempo fa un consenso molto ampio. Che sembra ora evaporare via via che l’attenzione si sposta sull’inadeguatezza o la contraddittorietà degli strumenti individuati per realizzarla e le parole d’ordine si fanno sempre più ideologiche. Se la riforma non sarà approvata, i propositi di modernizzazione saranno abbandonati e prevarrà la conservazione dello status quo.

 

La risposta ai commenti

Nei commenti dei lettori sono state poste due questioni inerenti il diritto allo studio universitario: l’’età per accedere alla borsa di studio, l’’importo di borsa relazionato al costo della vita.
In Italia non esiste un limite di età per beneficiare della borsa di studio ma i criteri che determinano l’’idoneità sono esclusivamente due: quello economico, avere un valore ISEE inferiore ad una certa soglia, e quello di merito, acquisire un determinato numero di crediti in relazione all’’anno di iscrizione. Ne consegue che quando si parla di borsisti non necessariamente si parla di “sbarbatelli”. In Piemonte, ad esempio, il 2% dei borsisti ha oltre 35 anni; il borsista più anziano ha 71 anni.
Differentemente, in Francia e Germania hanno diritto al sostegno economico gli studenti che non abbiano compiuto, rispettivamente, 28 anni e 30 anni, sebbene in Germania sia in discussione l’’innalzamento del limite di età a 35 anni.
Anche questo dovrebbe essere un argomento da prendere in esame in sede di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
In merito al commento che giustificherebbe le differenziazioni regionali in ragione sia della competenza regionale in materia di diritto allo studio sia dei differenti costi di vita, il discorso è più articolato e difficile da sintetizzare in poche righe. In primo luogo, il “riformato” Titolo V della Costituzione stabilisce che l’’autonomia legislativa delle Regioni è limitata dalla competenza esclusiva del legislatore statale, cui spetta definire i livelli essenziali delle prestazioni per garantire nel paese l’’uniformità delle condizioni di vita. In attesa che avvenga tale definizione vige la normativa attuale, che da talune Regioni non viene rispettata quando fissano degli importi di borsa inferiori al livello minimo previsto, e che presenta il limite di non specificare quali costi la borsa intenda coprire.
Ne consegue che gli importi differiscono da regione a regione senza che vi sia un fondamento oggettivo a tali differenze. Un esempio su tutti: l’’importo massimo di borsa dello studente in sede è pari a 2.430 euro in Puglia, a 2.510 euro in Lombardia, a 2.083 euro in Piemonte ed a 1.000 euro in Toscana: è evidente che questi non riflettono i diversi costi di mantenimento. L’’importo massimo è poi ridotto in base a differenti criteri, così come è diverso l’’importo detratto dalla borsa dello studente fuori sede beneficiario di posto letto, da 1.500 euro a 2.200 euro, e quello detratto per il servizio ristorativo. La difformità non poggia su motivi fondati.
Sarebbe necessario che lo Stato nel riformare la materia del diritto allo studio esplicitasse quali costi di mantenimento la borsa di studio debba sostenere, e conseguentemente il metodo di calcolo dell’’importo di borsa che dovrebbe essere lo stesso per tutti gli studenti, come accade nella federale Germania. Regole certe, chiare e uguali per tutti su tutto il territorio nazionale probabilmente favorirebbero anche la diffusione di informazione sulla possibilità di sostegno: le analisi condotte in Piemonte dimostrano che vi è circa un 40% di studenti iscritti al primo anno che non presenta domanda di borsa pur avendone diritto.

L’università dell’incertezza

La riforma dell’università , contestata da studenti, ricercatori e opposizioni, sembra ormai l’ultima bandiera di un governo in difficoltà. Ma richiede decine di decreti attuativi e tempi lunghi per la sua applicazione. E dunque, se approvata, finirà per aggiungere un’ulteriore dose di incertezza nel mondo universitario. Intanto, sui finanziamenti per l’anno in corso e per il futuro regna la confusione, i concorsi sono bloccati e la valutazione della ricerca è ferma al 2001-2003.

 

La mobilità accademica nella proposta di riforma

In un articolo apparso su lavoce.info Giovanni Abramo sogna di creare nuove università riservate a bravi scienziati. Certamente il nostro paese ha forte bisogno di tali istituzioni, ma allo stato attuale delle cose non è pensabile che si riescano a trovare risorse ex-novo per un simile progetto. Inoltre, non è detto che trovare risorse sia sufficiente a garantire il risultato auspicato, come insegna la storia recente di alcune istituzioni di ricerca nate per essere trasparenti ed eccellenti, ma che veleggiano in direzione completamente diversa.
Molto probabilmente un sistema di migrazione spontaneo del corpo docente potrebbe essere il sistema più efficiente per la formazione di poli di eccellenza, ma in Italia la mobilità accademica è rara. Giusto per avere un’idea, esaminando i 15.232 concorsi universitari, svolti tra marzo 1999 e luglio 2002, si scopre che di tutti i docenti immessi in ruolo solo 202 non provenivano dalla stessa università.
Il fatto che un sistema universitario aperto e capace di mescolarsi sia un vantaggio è cosa acclarata e lo stesso Miur ha già dichiarato di credere in questo valore in quanto nella valutazione dei risultati dell’attuazione dei programmi delle Università (D.M. 18 ottobre 2007, n. 506) l’indicatore E2 premia la proporzione dei punti organico utilizzati per assunzioni di professori ordinari e associati precedentemente non appartenenti all’Ateneo. Purtroppo questo e la legge Zecchino per la mobilità non sembrano, dati alla mano, bastare, e bisogna fare qualcosa di nuovo.

LA PROPOSTA

L’azione che auspichiamo è semplicissima: i singoli docenti universitari devono essere i comodatari del proprio budget. Quindi i concorsi a trasferimento diventano a costo zero. In caso di trasferimento di un docente viene contestualmente anche trasferita la risorsa retributiva. Quando un docente si pensiona (o cessa il servizio) il suo budget viene assegnato d’ufficio all’ateneo dove in quel momento egli prestava servizio.
Tecnicamente basta modificare di poco il punto del Ddl oggi in discussione dove si parla di federazione e fusione di atenei e razionalizzazione dell’offerta formativa, autorizzando gli Atenei, soggetti a valutazione positiva da parte dell’Anvur, a coprire posti di ruolo tramite trasferimento di professori e ricercatori da altro Ateneo con contestuale trasferimento della risorsa retributiva.
Naturalmente è necessario che gli Atenei che bandiscono i posti siano incentivati ad aumentare la propria qualità dal punto di vista della didattica e della ricerca. Questo pone un limite al numero dei concorsi a trasferimento e garantisce che l’Ateneo opererà una selezione all’ingresso. Si può anche pensare ad un meccanismo che permetta solo trasferimenti vincolati su base di progetti di alto livello scientifico confermati dalle valutazioni Anvur.
Facciamo presente che nel collegato alla Finanziaria 2010 l’articolo12 già prevede: “in caso di trasferimento di un docente dalla Scuola Superiore di Economia e Finanze ad Università Statale viene anche trasferita la risorsa retributiva”.

IMPLICAZIONI DELLA PROPOSTA

A livello diretto per i docenti questa norma non può che essere vantaggiosa in quanto  non coercitiva. Anche per gli atenei riceventi si hanno solo vantaggi. Supponiamo che in un ateneo virtuoso un docente si pensioni. Il Ministero toglie il 50 per cento del budget del pensionato. Se viene bandito un posto a trasferimento e l’ateneo possiede capacità attrattive non ci sono grossi problemi. Infatti, non solo si riesce a mantenere invariata la proposta didattica grazie al trasferimento, ma il 50 per cento del pensionamento diventa una risorsa aggiuntiva. Certo per l’ateneo di provenienza del trasferito si ha una perdita secca del 100 per cento e maggiori problemi.
Questa norma ha naturalmente molte altre conseguenze. Per esempio, essa permette un auto-riordino delle sedi decentrate. Siccome, oggi, la coperta corta i vari trasferimenti permetterebbero di mettere a nudo le sedi che si reggono sul nulla, dove magari i docenti sono quasi esclusivamente pendolari. Inoltre la norma permette all’autonomia universitaria di diventare più democratica: ogni docente diventa attore di un piccolo pezzo di autonomia, un qualcosa che adesso troppo spesso è in mano a gruppi di potere piuttosto che ai docenti più seri. Quindi un docente potrebbe trasferirsi perché in disaccordo con la politica del proprio ateneo, oppure perché stufo del provincialismo del proprio dipartimento dove un settore scientifico-disciplinare comanda tutto e bandisce posti solo per i notabili della zona.
Soprattutto questa norma darebbe la possibilità di costituire gruppi di ricerca più efficienti ed efficaci per esempio dove ci sono interessanti facilities sperimentali ed in generale dove esiste più attenzione per la ricerca. Infatti, chiaro che solo i docenti attivi e di buona qualità hanno un vero interesse verso la mobilità. Questo sarebbe un primo passo verso l’idea di Giovanni Abramo. Certo, Abramo sogna molto di più ma questa norma a costo zero e ha il vantaggio di non basarsi su difficili ed improbabili esercizi legislativi.

CONCLUSIONI

Non bisogna nascondere che questa norma possa essere anche fastidiosa. Gli equilibri di potere nelle università potrebbero diventare più mutevoli e sappiamo che questo è un problema per chi vive nei corridoi dei rettorati o per chi vuole sistemare dei protetti. Per questo motivo la nostra proposta, avanzata già in altre sedi di discussione tra docenti universitari, ha sollevato molte reazioni negative. Purtroppo il nostro sistema universitario ha paura di qualunque cambiamento. Paura che i trasferimenti alterino gli equilibri di potere. Paura che arrivi uno bravo sul serio a perturbare la quiete del fannullone. Paura che l’ateneo marginale scompaia nel nulla. Paura che l’Università in Italia diventi una cosa seria.

La risposta ai commenti

Nel ringraziare i lettori che hanno commentato il mio articolo, vorrei fornire qualche doveroso chiarimento.

Innanzi tutto per completezza di informazione (in un breve articolo non si può dire tutto e quello pubblicato l’’ho dovuto accorciare di più della metà per farlo entrare nelle dimensioni standard de La Voce) gli otto ranking da me presi in considerazione e sintetizzati nella figura 1, sono: (1) Higher Education Evaluation & Accreditation Council of Taiwan; (2) Academic Ranking of World Universities, Shanghai Jiao Tong University (Cina); (3) Times Higher Education World University Ranking; (4) Webometrics Ranking of World Universities, Cybernetics Lab del Consejo Superior de Investigaciones Científicas (CSIC), Spagna; (5) Quacquarelli Symonds World University Rankings; (6) International Professional Classification of Higher Education Institutions – École des Mines, ParisTech; (7) Centre for Science and Technology Studies, Leiden University; (8) Global Universities Rankings della Rating of Educational Resources, Russia. Non ho invece tenuto conto dello Scimago Institutions Ranking, Granada University (Spain), perché in esso è fatto solo sul numero delle pubblicazioni, senza pesare i vari criteri e quindi senza pervenire ad un indice unitario, con inevitabili distorsioni (gli enti più grossi, come i vari enti di ricerca nazionali con staff di migliaia di persone, sono chiaramente avvantaggiati).
Il ranking citato da più lettori (in cui non vi sono università italiane tra le prime 200, che è verosimilmente anche quello presentato dal Corriere della Sera) e che ha fatto recentemente scalpore nei mass media è quello del Times Higher Education che, –come chiarifico in un altro mio articolo, – ha la caratteristica di non essere basato solo sulla qualità della produzione scientifica calcolata in base a criteri bibliometrici (impat factor ecc.), ma su tanti altri parametri. La qualità della produzione scientifica incide solo per il 35%. Invece quello da me citato (HEEACT) fa una classificazione interamente basata sui criteri bibliometrici (come anche qualche altro tra gli otto citati). Per cui non è corretto sospettare che qualcuno mente e qualche altro dice il vero: semplicemente i parametri presi in considerazione dai diversi ranking sono diversi. Se, ad es, si prende in considerazione anche il rapporto tra le università e le industrie come criterio di valutazione (come fa il Times Higher Education), allora è evidente che le università italiane risultano svantaggiate rispetto a quelle degli USA. Purtroppo, spesso, di queste differenze non si tiene conto nei discorsi che si fanno.
Nonostante le diversità tra i vari ranking, tuttavia, ho voluto mettere in evidenza come vi sia una convergenza degli otto esaminati nell’’indicare un certo numero di università italiane come quelle che sono piazzate tra le prime 500; alcune per un motivo, altre per un altro, ma in ogni caso presenti. Che qualche lettore veda certe anomalie rispetto alle convinzioni possedute o alla reputazione generale, dipende dal fatto che sono avvantaggiate le università che presentano il range maggiore di discipline, mentre sono sfavorite quelle specializzate (come i politecnici e la Bocconi). E questo è un importante fattore che deve essere preso in considerazione, insieme ad altri, invece di prendere le classifiche così come vengono proposte senza interro­garsi su come sono fatte. Ecco perché che il confronto tra gli otto ranking abbia almeno in parte ovviato alla parzialità che può provenire dal prenderne solo uno di essi e leggerlo come il Vangelo. Purtroppo per un lettore, non ci sono ranking sloveni; ma qualora ci fossero, basterebbe andare a vedere la metodologia che ne sta alla base e qualora essa fosse corretta non vedrei nulla di male a prenderlo in considerazione. Nel mio articolo non si vuole difendere l’’indifendibile, ma semplicemente far vedere come la situazione offerta da una valutazione comparativa dei diversi ranking (se li dobbiamo prendere sul serio) non è così semplice come ci si vorrebbe far sembrare dal prenderne in considerazione solo uno, a seconda della tesi che si vuole dimostrare.
In merito alla mia proposta sulla mobilità dei ricercatori (sganciando il loro budget dai singoli atenei), non so quante università al mondo la pratichino, ma di certo in Italia ci si lamenta della loro scarsa mobilità: ci si laurea in una università, vi si fa il dottorato e vi si diventa docenti, sino al pensionamento. E allora a mali estremi, un rimedio radicale. È ovvio che esso deve essere accompagnato da altre misure, altrimenti si potrebbero verificare le patologie lamentate da un lettore: innanzi tutto l’’università dove ci si vuole trasferire deve essere disposta ad accogliere il nuovo ricercatore, il suo corpo docente deve essere commisurato in qualche modo agli studenti e così via. Infine deve esserci una valutazione della produzione scientifica dei dipartimenti, per evitare di accogliere i ricercatori che si trasferiscono solo per motivi di comodo. Insomma la mia è una proposta che deve essere ulteriormente articolata e contestualizzata; ma mi sembra che sia comunque un forte elemento di rimescolamento e di dinamismo nella sclerotizzata realtà italiana. E poi, non si vuole arrivare alla formazione di un certo numero di università di eccellenza, con una sufficiente massa critica di ricercatori? Si cominci allora da questa innovazione.

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