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I SACRIFICI DELLE BANCHE

“Quello che va bene per la Fiat va bene per l’Italia” era un adagio popolare tanti anni fa. Il Presidente dell’Abi sembra averlo riscoperto. Commentando l’intervista in cui il Ministro Tremonti annunciava (peraltro non meglio specificati) sacrifici per petrolieri e banche, Faissola ha affermato: “E’ nell’interesse del Paese che l’industria bancaria sia andata bene, se non altro perché ha pagatotante imposte. Una riduzione degli utili non giova neppure al bilancio dello Stato” (Repubblica, 11 maggio 2008).
Ma perché i profitti delle banche italiane sono così elevati? L’Indagine conoscitiva preparata dall’Autorità per la Concorrenza nel 2007 scatta una fotografia impietosa del settore bancario italiano. “Dall’indagine svolta emerge che il mercato dei servizi bancari si caratterizza per l’esistenza di un deficit informativo a sfavore della clientela, di numerosi ostacoli alla mobilità di quest’ultima, di un frequente ricorso a forme leganti più servizi … La spesa per il conto corrente in Italia è superiore a quella di tutti gli altri paesi considerati. In particolare, la differenza di costo con gli altri paesi oscilla tra il 17% (Germania) e l’83% (Olanda)”. Solo pochi giorni fa Bankitalia è intervenuta per segnalare il mancato rispetto, in numerosi casi, delle norme sulla portabilità dei mutui, che rendono possibile la sostituzione di un istituto bancario con un altro senza costi per il debitore.
Il vero interesse del Paese, Presidente Faissola, sta nell’avere un settore bancario competitivo, in cui sia ridotto il costo dei servizi bancari per la clientela. Ben vengano i profitti delle banche quando sono legati a guadagni di efficienza. Ma fino a che essi provengono da scarsa concorrenza e dal rifiuto di adottare misure a favore della mobilità dei clienti, ben pochi si strapperanno i capelli se alle banche verrà chiesto di fare sacrifici.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Il pezzo ha suscitato qualche reazione, soprattutto da parte di esperti nel campo. Curiosamente, le reazioni sono di segno opposto, dagli amici “federalisti” (Alessandro Petretto) che mi accusano di aver ceduto sul principio della capacità fiscale; alla risposta piccata, per la ragione contraria, del presidente della Svimez, che ringrazio comunque per l’attenzione. Ma resto della mia opinione. Per le seguenti ragioni.
Primo, non esiste Paese, federale o meno, in cui l’offerta di servizi attinenti diritti fondamentali di cittadinanza –sanità, istruzione, certe componenti del welfare, etc.- siano delegati per intero alla sovranità i governi sub-centrali. Ovunque, il governo federale interviene in qualche misura, o con l’introduzione di standard nazionali o con il potere della borsa o con tutti e due. Fissare gli standard significa anche garantirne il finanziamento; e in un Paese duale, con bisogni differenziati, ci pone il principio del fabbisogno o della “spesa necessaria”. Certo, dipende anche da dove è collocata l’asticella. Se gli standard fossero veramente minimi, allora forse anche il principio della capacità fiscale potrebbe essere sufficiente. Ma non sono sicuro si tratti di una soluzione praticabile o auspicabile per il Paese. La soluzione di Bruno De Leo (spesa storica oggi, perequazione domani al Pil), mentre interessante sul piano pratico, rimanda solo il problema, perché capacità fiscale e Pil sono strettamente correlati.
Secondo, esiste una tensione inevitabile tra fissazione degli standard al centro e autonomia dei governi locali. Si può cerrcare di mitigarla, ma resta. So anch’io che in teoria regioni e enti locali possono esercitare la propria autonomia in aggiunta e a latere della spesa necessaria; ma visto l’abitudine inveterata dello Stato italiano di fissare gli standard in termini di input, piuttosto che di output, temo assai le conseguenze per l’autonomia territoriale di un’ interpretazione universale del principio per fabbisogni. Meglio limitarlo ai servizi davvero essenziali. Per gli altri, la spesa “necessaria” è semplicemente la capacità potenziale di spesa garantita dalle risorse proprie e dalla perequazione per capacità fiscale. Questo, naturalmente, non significa che lo Stato centrale non debba al contrario concentrare i propri sforzi, anche sul piano finanziario, a vantaggio dei territori dove minore è la presenza dei beni pubblici fondamentali che lo Stato stesso deve garantire: principalmente, sicurezza e infrastrutture di base. Terzo, i potenziali vantaggi del federalismo stanno tutti nella differenziazione: la possibilità di diversificare i servizi sul territorio sulla base di esigenze locali, finanziandoli al margine con tributi propri allo scopo di rendere responsabili i politici nei confronti dei propri elettori (pago, controllo, esigo). Se invece si vuole l’uniformità dei servizi, meglio centralizzare. Dire che la nostra Costituzione implica “il principio dell’uguaglianza dei cittadini dovunque risiedano”, e interpretare questo principio come riferito, non solo ai servizi fondamentali, su cui ovviamente concordo, ma alla totalità dei servizi offerti dagli enti territoriali di governo, come fa il presidente della Svimez, significa negare a priori la possibilità del federalismo. Dubito molto che questa fosse l’intenzione dei legislatori costituenti del 2001 e della maggioranza dei cittadini italiani che hanno votato a favore di questa proposta di revisione costituzionale.

E OGGI PAGHIAMO L’INDULTO

Il voto ha premiato gli unici due partiti che si sono opposti all’indulto. Non a caso. L’indulto non solo ha fatto aumentare l’attività criminale in Italia, ma ha anche modificato la composizione dei flussi migratori, finendo per attrarre nel nostro paese più criminali che altrove. Tanto che oggi quattro italiani su dieci temono gli immigrati, non per il lavoro, ma per i reati che possono commettere. Se non si rafforza la repressione dell’attività criminale in Italia prima o poi saremo costretti a chiudere le frontiere. A quel punto, importeremmo solo immigrazione irregolare, in un circolo vizioso di illegalità che alimenta nuova illegalità.

 

La risposta audio dell’autore ai commenti.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Molto interessante il commento di Carlo sul sistema inglese. Sembra un sistema molto flessibile, con la più ampia possibilità di scelta, un buon vantaggio fiscale e il contributo del datore di lavoro. Il “fai da te” per quello che riguarda la composizione del portafoglio può essere una soluzione per persone con una buona cultura finanziaria, anche perché consente di risparmiare sui costi di gestione.  Forse non è adatto a tutti, ma rende il mercato più concorrenziale e non vediamo motivi per vietarlo. Starà ai promotori delle diverse forme previdenziali convincere le persone che conviene affidarsi a gestori professionali. Ci sembra che l’idea meriti di essere presa in seria considerazione.

Riguardo al commento di Ivano, osserviamo che anche le forme individuali (Fip e fondi aperti ad adesione individuale) possono fruire del contributo del datore di lavoro. A differenza di quanto avviene nelle forme collettive, il lavoratore deve però ottenere di volta in volta il consenso del datore di lavoro. E deve essere correttamente informato: gli schemi Covip di Nota Informativa prevedono che venga richiamata l’attenzione del lavoratore sulla necessità di verificare se e a quali condizioni egli abbia diritto al contributo del datore di lavoro. Ivano ritiene che recuperare il contributo del datore di lavoro attraverso la performance del fondo sia “praticamente impossibile”. Ha ragione. Proprio per questo bisogna cambiare la legge, in modo che il contributo del datore di lavoro segua le scelte del lavoratore riguardo alla destinazione del Tfr. In un mercato concorrenziale non può esistere una discriminazione di questo tipo fra forme previdenziali, come ha argomentato Pietro Ichino su questo sito (7/11/2005), nonché, con formale comunicazione al Parlamento, l’Autorità Garante della Concorrenza (28/9/2005). Questa discriminazione che fa sì che nella stragrande maggioranza delle imprese, a meno di atti di liberalità del datore di lavoro, il lavoratore abbia una sola possibilità di scelta (il fondo negoziale); qualche volta, nelle piccole o medie imprese, oltre al fondo negoziale, c’è  un fondo aperto ad adesione collettiva. Di qui la segmentazione del mercato di cui parliamo nell’articolo. Non sembra un’architettura ragionevole, almeno per chi crede che alla lunga la concorrenza sia il modo migliore per fornire servizi efficienti a prezzi bassi.     

I budget, ossia obiettivi quantitativi sulla base dei quali vengono erogati incentivi a dipendenti e collaboratori, possono essere all’origine di fenomeni di mis-selling, per evitare i quali occorrono le regole (trasparenza, conflitto di interressi, responsabilità ecc.). Ma sono anche un formidabile strumento di efficienza utilizzati in tutte le imprese private. Anziché denigrarli, sarebbe utile pensare a come estenderli, ad esempio, alla pubblica amministrazione per renderla un po’ meno inefficiente. Robert Schiller dell’Università di Yale colloca gli incentivi ai venditori di prodotti finanziari e assicurativi fra le importanti  innovazioni della finanza, perché consentono di indurre le persone a intraprendere atti di previdenza, cui altrimenti dovrebbe pensare lo Stato, con costi più elevati a carico del contribuente (“Il Nuovo Ordine Finanziario”, Il Sole 24 Ore, 2003). L’obiettivo del venditore è ovviamente quello di vendere, ma per fare questo deve dedicare tempo al cliente per spiegargli le caratteristiche dei diversi prodotti, in relazione alle esigenze che gli vengono prospettate. Possiamo chiamare questa attività come più ci aggrada (consulenza o altro), ma è certo che si tratta di un’attività utile, anzi necessaria. Naturalmente deve essere svolta secondo regole di correttezza e trasparenza. 

SARKOZY E’ DAVVERO UN LIBERALE?

Il presidente francese è indiscutibilmente un uomo di destra, ma si può definirlo un liberale? Lo è da un punto di vista culturale. Sotto il profilo economico, invece, Sarkozy esprime le contraddizioni dei francesi. Vorrebbe sviluppare iniziativa privata, talenti individuali e competizione, ma non ha mai criticato apertamente il comportamento antiliberale dei settori corporativi che godono di posizioni di privilegio. Ha illuso i cittadini su globalizzazione e potere di acquisto perché non è stato in grado di spiegare che lo Stato non è onnipotente, anche se non è inutile.

TUTTE LE DONNE DEL PRESIDENTE

L’AGENDA EUROPEISTA DEL NUOVO GOVERNO

Potere legislativo al Parlamento europeo, spazio transatlantico, emissione di Eurobond, tassazione coordinata dei consumi: le proposte di Tremonti sollevano problemi certamente esistenti. Soprattutto parlano di Europa, quando quasi nessuno ne parla più. Ma è un’Europa fortezza in un mondo fatto di accordi bilaterali, non un soggetto che contribuisce gradualmente alla formazione di un mondo multilaterale. Un’occasione di dibattito che l’opposizione non dovrebbe sprecare. Di temi analoghi si dicuterà al Festival dell’Economia di Trento dal 29 maggio al 2 giugno.

LA RISPOSTA DI NINO NOVACCO, PRESIDENTE SVIMEZ

Il prof. Massimo Bordignon, rispondendo ad una nota della SVIMEZ, definisce l’interpretazione data al comma 4 dell’art. 119 come perniciosa per gli enti territoriali di qualunque latitudine, in quanto renderebbe di fatto impossibile il federalismo fiscale, ed incostituzionale ogni autonomia attribuita agli enti locali.

NON BASTANO DUE “COMMI” PER COSTRUIRE UN FEDERALISMO SOSTENIBILE

E’ evidente che dell’art. 119 si possono dare diverse interpretazioni, dal momento che il testo, come ammette il prof. Bordignon, cerca di contemperare due esigenze contraddittorie nella realtà italiana: dare autonomia effettiva agli enti territoriali e, nel contempo, evitare che il meccanismo di finanziamento comporti l’incapacità di alcuni enti di fornire – in un Paese economicamente dualista – i servizi che essi devono assicurare alle popolazioni. A questa contraddizione Bordignon risponde ritenendo fondamentale il comma 3, che viene prima del 4, e che si limita ad attribuire risorse compensative ai territori con minore capacità fiscale, e proponendo, come nel disegno di legge delega del precedente Governo, un’applicazione parziale del finanziamento integrale delle funzioni previsto nel comma 4, introducendo una distinzione – che è del tutto assente nel testo costituzionale – tra funzioni che riguardano diritti fondamentali di cittadinanza, ed altre funzioni.
Il problema viene affrontato in sostanza con la sola lettura di tale articolo, e viene visto come prevalenza dell’uno o dell’altro comma, quando è invece l’intero articolo che deve essere letto nel contesto complessivo in cui si colloca, che è e resta la Costituzione Italiana. Ed è questo il rilievo della SVIMEZ: l’interpretazione dell’art.119 che si vuole far prevalere – e non solo nelle più accese sedi leghiste – lede gli articoli 2, 3 e 53 della nostra Costituzione, in quanto va ad intaccare il principio dell’uguaglianza dei cittadini dovunque risiedano, che è elemento fondante della nostra convivenza civile.
Quanto agli spazi di autonomia degli enti, poi, essi non risulterebbero certo sacrificati dall’interpretazione della SVIMEZ. Tutti gli enti potrebbero infatti esercitarla al di fuori e in aggiunta alle funzioni finanziate integralmente, ricorrendo alla propria leva fiscale, escludendo comunque meccanismi di piè di lista, e quindi stimando il fabbisogno sulla base dei costi standard ed avendo a riferimento le capacità fiscali degli enti. E’ piuttosto la posizione di Bordignon, riflessa nel disegno di legge delega del precedente Governo, e ancor più in quella espressa nella proposta del Consiglio regionale della Lombardia, a rendere impossibile l’esercizio dell’autonomia, ma solo da parte degli enti del Mezzogiorno. Soltanto essi sono infatti costretti ad utilizzare tutti gli spazi a loro disposizione per coprire spese e fornire servizi importanti che altrove sono finanziati con livelli di pressione fiscale più bassi, che si applicano a basi imponibili più elevate. Per contro, non si hanno spazi di autonomia quando non vi sono sufficienti entrate e non si possono chiedere sacrifici a popolazioni a basso livello di reddito, come è generalmente il caso del Mezzogiorno.
Questi, ad avviso della SVIMEZ, i motivi reali e gravi del contendere.

INDIPENDENTI NEL CDA? SI’, MA SUL SERIO

La Consob ha diffuso un documento di consultazione sulle operazioni con parti correlate che coinvolgono le società aperte. La novità più interessante è la centralità attribuita agli amministratori indipendenti, ai quali è affidata la responsabilità di seguire le trattative e svolgere l’istruttoria per operazioni che rientrano entro certe soglie di rilevanza. Si dovrebbero attenuare anche i costi di agenzia e le asimmetrie informative. Tuttavia, i vantaggi della nuova regolamentazione dipendono dalla effettiva indipendenza, non solo formale, degli amministratori disinteressati.

L’ITALIA NELLA SPIRALE DEL “DEGIOVANIMENTO”*

Siamo uno dei paesi più squilibrati nei rapporti tra le generazioni. Rispetto ai coetanei europei, i giovani italiani contano meno non solo dal punto di vista demografico, ma anche da quello sociale, economico e politico. Se alla riduzione quantitativa delle nuove generazioni non si risponde con un aumento qualitativo, nessuna barriera protezionistica sarà sufficiente per proteggerci dal declino.

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