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VENDITE, -2%: ARRIVA LA RECESSIONE?

Le vendite al dettaglio nell’aprile 2008 sono scese di due punti percentuali rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. E’ la temuta recessione che si avvicina a grandi passi? Troppo presto per dirlo. Come avverte l’Istat, il dato pubblicato riguarda il valore totale delle vendite, e incorpora quindi sia l’andamento delle quantità vendute che quello dei prezzi di vendita. Un segno “meno” complessivo può quindi essere il risultato sia di una riduzione delle quantità vendute che di una riduzione dei prezzi. Per gli alimentari ci sono pochi dubbi: i prezzi sono saliti (circa +6% su base annua nel 2007). Il segno “meno” è quindi da attribuire ad una flessione delle quantità vendute. Ma il segno meno per le vendite di alimentari è piccolo: solo -0,8%. Non sono gli alimentari i principali responsabili della flessione delle vendite: la voce delle vendite diminuita in modo più marcato è quella dei beni non alimentari (-3,4%). E qui siamo in dubbio: le nostre spese in prodotti non alimentari possono diminuire sia perché comperiamo meno telefonini ma anche perché il prezzo dei telefonini scende nel tempo. C’è poi da considerare che, nascoste sotto ai dati aggregati, succedono tante cose. Una di queste è la continuazione del processo di ristrutturazione nel settore della distribuzione. La grande distribuzione (nelle sue varie forme: ipermercati, supermercato, hard discount, grandi magazzini) per ora tiene, facendo segnare un più zero e qualche cosa rispetto ad un anno fa. E’ la piccola distribuzione a far segnare valori molto negativi. Se recessione è, dunque, per ora non è la recessione di tutti ma solo di qualcuno, quelli con le spalle meno larghe. Del resto era stato così anche nella ripresina del 2006-07: pochi grandi esportatori ci avevano guadagnato e molto, mentre i tanti piccoli avevano solo visto passare la locomotiva della ripresa in televisione.

LE REGOLE DELLA BUONA EDUCAZIONE FINANZIARIA

L’educazione finanziaria va rafforzata in tutti i paesi e per tutte le fasce della popolazione. Per questo l’Ocse ha pubblicato un documento sulle buone pratiche internazionali. In una materia per sua natura trasversale, fondamentale la creazione di strutture operative dedicate, per promuovere e coordinare i diversi progetti. Tanto più in campo previdenziale. Dove sono particolarmente importanti le politiche che tendono a rendere più semplici le scelte e la previsione di opzioni di default ben disegnate. E una costante attenzione allaregolamentazione finanziaria.

PASSAGGIO AL BUIO

Con la manovra finanziaria appena varata si dà alle università la possibilità di trasformarsi in fondazioni di diritto privato con una semplice delibera del senato accademico assunta a maggioranza assoluta. Si tratta di una riforma potenzialmente molto importante, che rompe l’insensata uniformità del nostro sistema universitario e consente il dispiegarsi di una maggiore autonomia. Ma servono chiarimenti su punti fondamentali come le condizioni minime per il passaggio, i più ampi gradi di libertà così garantiti e il mantenimento dei livelli di finanziamento.

QUALE RIFORMA PER IL PUBBLICO IMPIEGO

Sul pubblico impiego il governo indica una serie di innovazioni che è difficile non condividere. Quindici anni di insuccessi, tuttavia, spingono a essere cauti sulla possibilità di realizzarle. Perdura l’idea di applicare in modo uniforme gli stessi principi a tutta la pubblica amministrazione. E riemergono i progetti ad hoc di miglioramento della produttività. Mentre l’esperienza insegna che sarebbe preferibile un approccio graduale, iniziando a misurare e premiare la produttività delle strutture prima che quella dei singoli. Sulla base di indicatori ben definiti e trasparenti.

MIGLIORARE SI DEVE. E SI PUÒ

I commenti all’articolo Il concorso che visse due volte si collocano su diversi piani. Condividono tutti il rifiuto di pratiche intollerabili di gestione dei concorsi universitari. In qualcuno prevale un amaro senso di impotenza. In altri, lo sdegno e insieme l’indicazione di proposte per contrastare  questo stato delle cose. E spicca un commento anomalo, che assume la forma di lettera aperta all’avvocato Mariastella Gelmini, nuovo ministro dell’Istruzione, università e ricerca, sottoscritta da oltre la metà dei professori di prima fascia di Statistica economica – il settore al quale si riferisce il concorso ibernato e scongelato – e da quasi tutti i componenti il consiglio direttivo della Società Italiana di Statistica.
Non risponderò a ciascuno, anche perché qualche commento neppure richiede una risposta. Mi fermo, invece, su tre temi di rilievo generale che emergono dagli interventi. Ricapitolando, prima, i fatti e gli interrogativi che pongono.

I FATTI

Nel lontano 2002 l’università di Messina bandisce un concorso per professore di prima fascia in Statistica economica. Di cui si perde traccia, grazie a due commissioni giudicatrici che si succedono senza concludere i lavori. Ora, sta per essere eletta la terza. Chiamata a giudicare i pochi candidati superstiti sulla base di pubblicazioni di sei anni fa. Perché semplicemente l’ateneo non emana unnuovo bando per lo stesso posto? La scelta avrebbe l’evidente vantaggio di consentire la partecipazione di tutti gli interessati di oggi, e con una produzione scientifica aggiornata. Perché il ministero dell’Università, così attento nell’emanare disposizioni su modalità e tempi di svolgimento dei lavori delle commissioni, non si accorge della “trave” di un protrarsi abnorme del procedimento concorsuale, che viola apertamente la logica della selezione basata sul merito scientifico, e non fissa una ragionevole durata massima per l’intero procedimento?

MERITO, AUTONOMIA RESPONSABILE E VALUTAZIONE

Il caso del “concorso che visse due volte” è esemplare, ma (sfortunatamente) non ha nulla di singolare. Alcuni commenti segnalano altri casi indecorosi. E recentemente non sono mancate inchieste giornalistiche e televisive che hanno documentato le degenerazioni dei concorsi universitari: quello che è stato chiamato “nepotismo ambientale diffuso, che sostituisce all’integrità del sistema una vasta corruttela familistica”. (1)
C’è chi, sconsolato, ne deduce che ci potrebbe salvare soltanto la deontologia dei docenti universitari: che però non c’è, o comunque non in misura sufficiente. Non sono d’accordo. La deontologia non è una sorta di patrimonio genetico, immutabile. È una cultura: che si forma certo in tempi lunghi e con forti inerzie. Ma, come si è (de)formata, così si può cambiare. Per rinnovarla servono buone regole, fatte rispettare rigorosamente (niente è peggio di una severa grida manzoniana largamente disattesa). E servono incentivi che premino i comportamenti virtuosi.
Nella riunione della Commissione istruzione del Senato del 17 giugno, il ministro Gelmini ha presentato gli indirizzi generali della politica su università e ricerca, per diversi aspetti convincenti. Tre passi ne danno il segno: l’affermazione che l’azione del ministero si fonderà “sul trinomio autonomia, valutazione e merito”; l’impegno a rinnovare i criteri di finanziamento degli atenei, “innalzando almeno al 20 per cento la quota degli stanziamenti destinati a premiare i migliori”;  l’intenzione di riattivare il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca, per “non interrompere la valutazione delle università e degli enti di ricerca”, e di ripensare  la disciplina dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, riducendone il sovraccarico di compiti. Il tutto, appunto, nella prospettiva di “un sistema integrato di valutazione, che vincoli il finanziamento ai risultati”. (2)
Se il ministro procederà in queste direzioni, contribuirà a far crescere la deontologia dei docenti universitari. Che comunque in molti non manca. La lettera aperta che ho richiamato all’inizio ne è una testimonianza. E non c’è motivo di dubitare che energie vive, sane siano ampiamente presenti nelle diverse aree disciplinari: pronte a essere coinvolte nella costruzione di una università migliore.

INTERVENIRE SUBITO: SI PUÒ, E SI DEVE

Ma qualcosa si può fare subito, a legislazione vigente, per scoraggiare pratiche concorsuali indecorose, e i loro esiti negativi sui nostri atenei. Anzi, a ben vedere, si deve fare. Per ragioni di merito, illustrate nell’articoloIl concorso che visse due volte. E per un obbligo di legge.
La legge 241/1990 prevede infatti che per ciascun tipo di procedimento, nel nostro caso un concorso universitario, l’amministrazione pubblica competente, nel nostro caso il ministero dell’Università, determini il termine entro cui esso deve concludersi.
In maniera del tutto ragionevole (perché non immaginava comportamenti degeneri), il ministero ha fissato termini rigorosi, ma soltanto per un segmento della procedura concorsuale: la durata in carica delle commissioni giudicatrici. Ora, a fronte dell’evidenza di comportamenti dilatori, che violano lo spirito della normativa sui concorsi, è auspicabile che il ministero intervenga sollecitamente e fissi un termine – diciamo 18 o 24 mesi – per la conclusione dell’intero procedimento concorsuale.

DIETRO L’ANGOLO

Guardando un po’ più in là, serve poi riflettere ai nuovi concorsi universitari, che dall’anno prossimo saranno regolati dalla legge 230/2005. Con due obiettivi:

§     Eliminare malcelati meccanismi di progressione ope legis, tramite la riserva di consistenti quote di posti per giudizi di idoneità a professori ordinari e associati, rispettivamente per professori associati e ricercatori con anzianità di servizio. Il ministro Gelmini si è espresso chiaramente: “reputa inaccettabile che l’università favorisca le progressioni di carriera locali piuttosto che l’ingresso di forze nuove, mantenendo in vita un sistema duplicemente impermeabile, rispetto ai giovani studiosi italiani a agli esperti stranieri”. (3)
È un’affermazione importante. Attendiamo le decisioni conseguenti

§     Aumentare la trasparenza delle procedure concorsuali, anche tramite forme di peer review da parte di comitati di esperti di elevata qualificazione, per monitorare i nuovi meccanismi concorsuali. Sia chiaro: non a fini di controllo burocratico-formale, ma per un vaglio di merito complessivo della rispondenza di regole e comportamenti alle finalità di un procedimento di selezione meritocratico. Rendere l’intero processo di reclutamento trasparente, chiamare tutti a “rispondere”, anche soltanto sul piano morale, delle scelte operate, è un deterrente contro logiche “familistiche”. Ed è un ingrediente essenziale che può far crescere quell’etica del merito di cui oggi, giustamente, si lamenta la debolezza.

(1) Martinetti G., “Una università diversa (e migliore)?”, in R. Moscati e M. Vaira (a cura di), L’università di fronte al cambiamento, Bologna, Il Mulino, 2008, pag. 60.
(2) Senato della Repubblica – Legislatura 16a – 7a Commissione permanente – Resoconto sommario n. 7 del 17/6/2008: Seguito delle Comunicazioni del ministro dell’Istruzione, università e ricerca sugli indirizzi generali della politica del suo dicastero, pp. 2-3 [http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=16&id=304295].
(3)Senato della Repubblica, cit., pag. 4.

LETTERA APERTA AL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE

Lettera aperta all’On. Avv. Mariastella Gelmini, Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Signor Ministro,

se non ha avuto occasione di leggere l’articolo “Il concorso che visse due volte”, apparso su lavoce.info venerdì 6 giugno e ripreso da SISmagazine (il notiziario della Società Italiana di Statistica) il giorno successivo, La invitiamo a farlo.
Ugo Trivellato solleva, nel suo articolo, una questione di interesse generale per l’Università italiana. Non aggiungiamo niente alle sue osservazioni, che condividiamo pienamente. Riattivare un concorso a distanza di sei anni, limitando la partecipazione ai (pochi) candidati rimasti (molti nel frattempo hanno vinto altri concorsi) tra quelli che si erano presentati allora, senza consentire a tutti (e soprattutto ai più giovani) di partecipare, è procedura che contrasta con lo spirito dei concorsi, come dice Trivellato, ma non solo. È anche umiliante per gli stessi candidati ancora in lizza, che, dovendo essere valutati su una produzione scientifica vecchia ormai di sei anni,  non hanno modo di dimostrare il loro effettivo valore e la loro capacità di tenersi al passo con l’evolvere della disciplina.
La sospensione del concorso in questione è cosa nota nella comunità scientifica degli statistici e ha già generato un dibattito acceso. In quell’occasione (eravamo nel 2004), molti aderirono pubblicamente alla lettera che tre commissari del concorso avevano inviato ai componenti della comunità degli statistici economici, segnalando alcune preoccupazioni circa il rispetto delle procedure. Qualcuno di noi, nel motivare l’adesione, espresse, allora, un concetto che qui ci piace riprendere.

[…]  qualunque meccanismo di reclutamento universitario, e quello italiano forse più di altri, ha dei lati deboli:[…]. Vi sono però almeno due importanti elementi di controllo previsti dal legislatore: la scelta democratica di coloro che sono chiamati a giudicare […] e un insieme di regole procedurali stabilite per legge, che garantiscono un minimo d trasparenza e tempestività del procedimento. […]  I tre colleghi, ai quali manifestiamo adesione, non sono mai entrati nel merito dei criteri di valutazione, ma, più semplicemente, hanno segnalato preoccupazione verso il mancato rispetto delle regole di procedura che potrebbe, di fatto, impedire lo svolgimento del concorso […]. Questo ci pare assai più grave di una lecita difformità di giudizio su uno o più candidati. Si configura una situazione in cui la comunità scientifica decide di “giocare una partita” con regole date ma qualche suo componente ha la facoltà di annullarla, ignorando le stesse regole. Se questo dovesse accadere, i concorsi diventerebbero di fatto un “gioco senza regole”, che a qualche giocatore spregiudicato può piacere, ma che non può essere l’obiettivo di una Comunità Scientifica degna di chiamarsi tale.

Tutto, poi, si era sopito e i timori sul gioco senza regole, almeno in relazione a quella ‘partita’, sembrarono infondati. Purtroppo, il presagio di allora sembra essersi avverato oggi.
Ci siamo chiesti: che fare? La strada maestra è certamente nelle mani del legislatore, che, soprattutto in ambito universitario,  dovrebbe prevedere una norma che dichiari decaduto un concorso bandito da un tempo troppo lungo e non espletato per qualsiasi ragione (a dire il vero, i termini sono già indicati nella legge, ma soltanto per la durata in carica delle Commissioni giudicatrici, il che lascia spazio a comportamenti dilatori).  Confidiamo che Lei, Signor Ministro,  provveda in tal senso. Per quanto riguarda il caso specifico, ci sembra sussistano gli estremi per sospendere un procedimento che contrasta chiaramente con le “norme in materia di procedimento amministrativo” (legge 241/90) e che offre il fianco a ricorsi di vario genere (come sottolinea paoloc su lavoce.info nel suo commento “..adoperarsi per cambiare le cose..” all’articolo di Trivellato).

Noi speriamo che il Suo auspicato intervento possa arrivare in tempo utile a sospendere un atto che non fa onore all’Università.  Qualora ciò non fosse possibile, rimane ancora una  possibilità, che chiama in causa la nostra responsabilità di professori del settore scientifico disciplinare: se la procedura andrà avanti, dovremo, tra poco, esprimere la nostra preferenza per colleghi che riteniamo adatti, per capacità e rigore, a svolgere il delicato ruolo di commissari. Non andare a votare, chiamandosi fuori da un problema spinoso, è tentazione forte, ma crediamo che sarebbe un errore.

La nostra speranza è che questa lettera a Lei indirizzata, sottoscritta da molti di noi professori di i prima fascia del settore e da quasi tutti i membri del direttivo della Societa’ Italiana di Statistica, abbia l’effetto di ricordare a chi dovesse essere eletto in commissione, se mai ce ne fosse bisogno, di adoperarsi affinché sia rigorosamente applicato, nella valutazione, il criterio principale che la legge sancisce per l’accesso al ruolo di prima fascia: la presenza di una produzione di livello adeguato, largamente riconosciuta dalla comunità scientifica.
In attesa di una sollecita revisione della norma, questo appello alla nostra deontologia professionale ci pare l’unica strada da percorrere.

Con i più cordiali saluti

Seguono 40 firme          

I MUTUI E L’IGNORANZA CHE COSTA CARA

Esiste una asimmetria, rilevata anche da indagini empiriche, tra il sempre più complesso mondo del credito e della finanza e la capacità di accedere alle informazioni che lo riguardano. Le regole sono importanti, ma insufficienti. Certo, un programma di educazione finanziaria è destinato a offrire risultati soltanto nel lungo periodo, può essere costoso e non conquista le prime pagine dei giornali. Ma ci renderebbe tutti meno ignoranti in un campo dove la conoscenza è potere. Non a caso, il Congresso degli Stati Uniti sta discutendo proprio di questo.

MAESTRO DI RISPARMIO CERCASI

Una quota rilevante della popolazione italiana ha un basso livello di alfabetizzazione finanziaria. Lo dimostra l’ultima Indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane. Solo il 60 per cento calcola correttamente la variazione del potere d’acquisto di una somma e circa metà è in grado di leggere correttamente un estratto conto bancario, di comprendere l’andamento dei corsi azionari e le caratteristiche di diversi tipi di mutuo. Un problema serio. Perché sembra difficile convivere con i rischi del futuro senza possedere almeno l’abbicì della finanza.

PERCHE’ AUMENTA IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE

Dopo due anni di continua discesa, il tasso di disoccupazione nel primo trimestre dell’anno in Italia è tornato a crescere: 7,1 per cento rispetto al 6,4 per cento del primo trimestre del 2007. Non è una buona notizia, ma deve comunque essere letta con attenzione. Il tasso di disoccupazione può aumentare perché diminuiscono gli occupati o perché aumentano le persone che vogliono cercare un lavoro. In Italia negli ultimi dodici mesi sono stati creati più di trecentomila posti di lavoro grazie a un importante contributo dei lavoratori stranieri. Il tasso di occupazione, il rapporto tra occupati e persone tra 15 e 65 anni, è infatti aumentato ancora e si attestato al 58,3 per cento. In sostanza il tasso di disoccupazione è aumentato perché vi è stato un massiccio aumento dell’offerta di lavoro. L’aumento della disoccupazione non è ancora un fenomeno preoccupante, anche perché ad aumentare è stata soprattutto la componente femminile della forza lavoro, con una crescita quasi del 4 per cento in tutto il territorio, mezzogiorno compreso. Se il mercato del lavoro funziona, queste persone troveranno presto un lavoro e contribuiranno ad aumentare il tasso di occupazione del Paese. A livello legislativo, il Governo ha presentato una serie di modifiche legislative sulla regolamentazione dl lavoro. Il disegno di legge prevede la reintroduzione del lavoro a chiamata, una figura prevista dalla legge Biagi e cancellata dal Governo Prodi. Si prevede anche un’ulteriore liberalizzazione del lavoro a termine, con l’introduzione di deroghe oltre i 36 mesi introdotti nella precedente legislatura. Si tratta, tutto sommato, di modifiche marginali e che non cambieranno in modo significativo il nostro mercato del lavoro. Più importante è invece l’abolizione completa del divieto di cumulo tra pensione e lavoro. E’ una misura che certamente contribuirà a aumentare il tasso di occupazione degli individui sopra i 55 anni. Ne avevamo bisogno.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

La democrazia in Europa

La tesi del dissenso disinformato dell’Irlanda sul trattato di Lisbona ha attirato diversi commenti, molti di adesione, ma anche molti di critica. Ringraziando tutti i lettori, cercherò di fornire qualche risposta ai critici

Valutate nel loro complesso le osservazioni critiche mi pare possano essere raggruppate in due filoni.

A) Non tiene il presupposto centrale della tesi sostenuta, vale a dire l’impossibilità di porre la questione della ratifica del trattato d Lisbona ad un referendum, per l’inevitabile complessità e lunghezza della materia oggetto del trattato. Anzi, gli irlandesi sono una frazione infinitesimale di europei che si sono pronunciati contro l’Europa, per il solo fatto che sono gli unici che sono stati messi nella posizione di esprimersi. Se referenda fossero stati indetti in tutti i 27 paesi, probabilmente il no sarebbe espresso dalla maggioranza dei cittadini.
B)  Le politiche europee, molte delle quali non piacciono (allargamenti improvvidi, dumping sociale, euro, politiche commerciali eccessivamente liberiste, ecc), sono decise da ‘tecnici’, ovvero ‘oligarchie’ più o meno illuminate, e i cittadini non hanno (o hanno scarsissimo) diritto di parola. Dunque ben vengano i referenda e i conseguenti esiti negativi. 

Proverò a dimostrare che entrambe queste osservazioni non sono molto solide.
Per quanto riguarda la posizione sub A) posso tranquillamente ammettere che se proponessimo ai cittadini un quesito referendario analogo a quello sottoposto agli irlandesi, la maggioranza degli europei risponderebbe come questi ultimi. Il quesito nella sostanza era questo: “volete voi accettare un trattato incomprensibile il cui eventuale rifiuto non cambia nulla nelle vostre vite?” Occorre un bella fede europea per rispondere sì.
Ma perché non proporre invece un quesito di questo genere: “volete voi denunciare i trattati europei, sostenendo i costi della non-Europa?” A me sembra che anche questo sia un modo del tutto legittimo e più esaustivo di interrogarci sull’Europa. In questa maniera ci domanderemo seriamente se siamo disposti ad abbonare quella casa comune che ci garantisce benessere e pace da 60 anni. Se siamo disposti ad abbandonare le regole sulla tutela dei consumatori, della concorrenza, dell’ambiente, dell’educazione, della sanità, della ricerca, del sostegno all’agricoltura, della distribuzione di fondi strutturali di cui, ad esempio, Italia e Irlanda, hanno ampiamente usufruito negli ultimi 30 anni.
Forse saremmo meno sicuri anche su questioni a cui oggi risponderemo con un no secco. Ad esempio, l’abbandono della politica commerciale comune ci farebbe riacquistare la sospirata sovranità commerciale ma, Stati Uniti e Cina, invece che con il gigante Unione europea, si troverebbero a poter trattare con 27 nanetti (alcuni dei quali praticamente invisibili dal punto di vista economico) che giocano separatamente e contraddittoriamente. Un buon risultato?
Insomma a seconda della domanda che si pone ai cittadini, e del dibattito che ne segue, credo che l’esito di un referendum possa essere molto diverso e questo conferma la tesi che esso non è uno strumento idoneo per decidere su un tema complesso e articolato come l’Europa. Su questo tema devono deliberare i Parlamenti, posto che questi sono eletti dai cittadini proprio con il compito di prendere decisioni tecnicamente complesse e politicamente delicate, e soprattutto lontano da suggestioni populiste.

Vengo alla critica sub B) secondo la quale in Europa le decisioni sono prese in maniera non democratica da euro-burocrati. Non è affatto così.
Come è (o dovrebbe essere) ampiamente noto, i grandi orientamenti politici europei sono decisi dal Consiglio di Capi di Stato e di Governo, dove siedono i responsabili politici degli Stati membri (per l’Italia, il nostro Primo Ministro). Tali orientamenti vengono tradotti in proposte dalla Commissione europea. Questo organo, peraltro nominato dai governi nazionali, è effettivamente quello in cui operano i c.d. euro-burocrati, ma il punto sta che esso non decide nulla in maniera definitiva. Affinché un atto di portata legislativa (regolamento o direttiva) sia adottato, occorre un doppio assenso alla proposta della Commissione: anzitutto è necessario il voto del Consiglio dei ministri degli Stati membri e successivamente occorre il voto positivo del Parlamento europeo. Se uno di questi due organi non è d’accordo, l’atto non entra in vigore.
I ministri che siedono nel Consiglio sono i componenti dei nostri governi e dunque sono soggetti al controllo e alla fiducia dei nostri parlamenti nazionali. Il Parlamento europeo lo eleggono direttamente i cittadini dei paesi europei in base alle singole leggi elettorali nazionali. Quest’ultimo, se il trattato di Lisbona entrerà in vigore, eleggerà il Presidente della Commissione.
In questo quadro, com’è possibile sostenere che qualcuno, a Bruxelles, magari un burocrate senza volto e senza mandato elettivo, decide per noi? Non è piuttosto vero che spetterebbe a noi essere più attenti a cosa fanno a Bruxelles i nostri governi, sostenuti dalle nostre maggioranze parlamentari? Ovvero chiedere conto ai parlamentari europei a cui abbiamo dato il voto? Ovvero tenere a mente, quando sentiamo i nostri politici dire “ce lo ordina Bruxelles”, che in realtà a Bruxelles quelle decisioni le hanno prese loro insieme ai governi degli altri Stati?
Certo, l’Europa ha bisogno di spiegarsi ai cittadini europei e questi hanno bisogno di interrogarsi sull’Europa. Il paradosso è che cittadini europei ed Europa sono la stessa cosa.

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