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QUELLE IMPRESE CHE REAGISCONO ALLA RECESSIONE

La grande recessione mondiale, che ha determinato una contrazione violenta dei flussi commerciali e della produzione, anche per l’Italia è la più seria dal dopoguerra. L’analisi dei microdati raccolti dalla Banca d’Italia rivela che la crisi ha colpito prima di tutto i comparti manifatturieri più propensi all’esportazione e i produttori di beni strumentali, creando particolari difficoltà alle imprese più piccole. Ma chi nella prima parte del decennio aveva realizzato profonde ristrutturazioni ha saputo arginare meglio gli effetti negativi della crisi.

I LIMITI DELLA VALUTAZIONE IMPOSTA PER LEGGE

Elemento cardine del decreto Brunetta è la valutazione dell’operato della pubblica amministrazione e dei suoi dipendenti. Ma le esperienze avviate a livello locale sono la testimonianza che i pur esigui processi virtuosi di valutazione emergono nel nostro paese nell’agire concreto delle organizzazioni e non come adempimento a un obbligo di legge. Integrare il sapere decentrato delle amministrazioni territoriali con la visione strategica del centro è un passaggio cruciale ai fini della programmazione delle politiche di investimento di uno Stato federale democratico.

SE LA SCUOLA VA AVANTI CON I SOLDI DEI GENITORI

Il contributo volontario versato dai genitori è da anni prassi comune nelle scuole. Serve a finanziare l’ampliamento dell’offerta formativa che ciascun istituto decide autonomamente. Ma è anche una voce di bilancio certa e prevedibile nei tempi di incasso. Tanto che il ministero consente ora di ricorrervi per colmare la carenza dei finanziamenti statali per le spese ordinarie necessarie all’erogazione del servizio scolastico base. Equivale all’imposizione di una nuova tassa, regressiva perché di ammontare fisso indipendentemente dal reddito.

L’ISTRUZIONE FA LA DIFFERENZA

Il tetto al numero di alunni stranieri per classe annunciato dal ministro Gelmini risponde anche al timore che “troppi” immigrati possano pregiudicare l’apprendimento degli italiani. Ma è una preoccupazione confermata dai dati? Utilizzando quelli delle indagini Pisa, si vede che il fattore cruciale non è la quantità, ma la qualità: nei paesi che incentivano l’ingresso di immigrati relativamente istruiti un eventuale incremento della percentuale di studenti stranieri nelle classi finisce per arricchire il contesto formativo e favorire l’apprendimento dei nativi.

IL COMMENTO DI STEFANEL, DIRIGENTE SCOLASTICO

L’articolo di Paolo Manasse ha analizzato in maniera inequivocabile la circolare del miur relativa al tetto del 30% degli alunni stranieri per classe. Oltre ai problemi evidenziati da Manasse ce n’è altri più interni allo specifico scolastico, che nascono dall’essere questa iniziativa ministeriale un ulteriore meccanismo di complicazione della scuola.
L’Italia non è in grado di gestire i flussi dell’immigrazione e questo si trasferisce nell’ambito locale, perché neppure i comuni sono in grado di gestire i flussi dei minori e di smistarli nelle varie scuole sostenendo quelle più in difficoltà. Lo straniero accettato o respinto dalla scuola è uno straniero solo davanti al sistema scolastico italiano e la scuola e il dirigente che accolgono o respingono sono soli con i propri spazi, le proprie difficoltà, i propri bilanci.
Lo Stato non sta pagando alle scuole quello che loro spetta per la gestione ordinaria (supplenze, ore eccedenti, funzionamento amministrativo, esami, ecc.) e questo credito delle scuole viene chiamato in gergo “residuo attivo”, ma poiché ci sono residui attivi che risalgono al 2002 non si intravedono possibili arrivi di nuove risorse. Quello che scrive Manasse in chiusura di articolo è totalmente sensato: invece di pensare a meccanismi complicati e farraginosi per gestire gli stranieri è meglio intervenire a supporto delle scuole in maggiori difficoltà. Ma se il provvedimento deve essere a costo zero come potrà avvenire questo intervento?
La norma del 30% non fa altro che registrare quanto già avviene nelle scuole, in quanto sia le classi di soli alunni stranieri, sia quelle con pochi italiani sono dettate più che da scelte da necessità o da situazioni contingenti. Il 30% è un numero che in alcuni casi è inutile, in altri inapplicabile: 

  • la gran parte dei paesi e delle città italiane non ha un problema del genere in quanto o ha pochi stranieri residenti oppure ha strutture ricettive con numeri che permettono una distribuzione equa degli stranieri delle classi;
  • alcuni quartieri in alcune città italiane invece sono abitati quasi solo da stranieri e le scuole di riferimento ne accolgono moltissimi: quando non si rispetta il tetto dove vanno i bambini in più? Sto parlando qui di bambini soprattutto dai 3 agli 8-9 anni, quelli che  non usano i mezzi pubblici, che vengono accompagnati dai genitori, che hanno paura, che sono troppo piccoli per percorrere lunghi spazi cittadini da soli, che vivono in luoghi dove non è previsto il servizio di scuolabus.
  • se una scuola ha pochi italiani chiude del tutto visto che non potrà applicare il 30%?

Quelli che ho riportato sono solo alcuni esempi di una norma applicabile quasi dovunque, ma che, dove non sarà applicabile, porterà alla paralisi. C’è poi il problema dei numeri: se una scuola respinge 5-6 stranieri può anche perdere una classe e quidi far perdere il posto ad alcuni suoi docenti.
Nei quartieri di Roma o Napoli o Torino (ma anche di Udine) dove vivono molti stranieri si assiste poi ad un meccanismo molto semplice: gli italiani tendono a portare i propri figli “un po’ più in là”, mentre gli stranieri portano sempre i figli a scuola vicino a casa. Gli alunni stranieri vanno nelle scuole per vicinanza abitativa, ma i loro problemi linguistici o culturali, le loro privazioni e la soglia della povertà quando questa è varcata sono questioni che compaiono a scuola e che l’ente locale non vuole conoscere. In questo momento esiste un vero baratro tra i servizi di assistenza sociale comunali e le scuole perché non stanno perseguendo la stessa missione.
I comuni dovrebbero capire che la scuola non  ha una struttura tipica di accoglienza  per gli stranieri, ma che semplicemente adatta le sue pratiche ai nuovi arrivi. Qualche volta questa procedura è facile da attuare, qualche altra no e quando lo straniero invece di arricchire l’ambiente lo impoverisce, lo disturba, lo contamina anche in forma teppistica salta tutto il meccanismo dell’accettazione e dell’integrazione. Se non  si gestiscono i flussi cittadini nei confronti della scuola ci si troverà sempre di più davanti alla fuga degli italiani dalle scuole dove gli stranieri sono governati male.

LA COOPERAZIONE ITALIANA NON PASSA L’ESAME

Il Comitato di aiuto dello Ocse ha indicato al governo sedici raccomandazioni per rilanciare la cooperazione italiana. Sono fondamentalmente le stesse di sei anni fa, perché nel frattempo niente si è mosso per modernizzare il sistema e rendere più efficaci gli aiuti italiani. Inadeguata la normativa e scarsi gli stanziamenti di risorse. Però, il meccanismo del Dac non prevede sanzioni in caso di inadempienza e non indica priorità fra le misure da adottare. Meglio farebbe a concentrarsi sulle questioni tecniche, abbandonando le ambizioni politiche.

L’IRPEF DI BERLUSCONI PREMIA I REDDITI PIU’ ALTI

La proposta del presidente del Consiglio di portare a due le aliquote dell’Irpef è stata subito abbandonata per la situazione dei conti pubblici, che non consente oggi una riforma tale da ridurre il gettito dell’imposta di un punto e mezzo di Pil. Ma se l’ipotesi non fosse stata riposta nel cassetto chi se ne sarebbe avvantaggiato? Soprattutto i contribuenti a reddito medio-alto. Perché già ora metà dei contribuenti ricade nell’aliquota del 23 per cento. E perché il primo scaglione sarebbe troppo ampio per salvaguardare l’effetto redistributivo del nostro sistema tributario.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio i lettori che hanno commentato il mio articolo. Il tema è molto delicato: lo spettro di classi ghetto, gli echi di Rosarno, l’insoddisfazione verso la scuola pubblica, la fuga dei ricchi verso le scuole private: ce n’è a sufficienza per alimentare commenti molto accesi Riassumo sinteticamente. Bisogna distinguere tra obiettivi e strumenti. Evitare classi ghetto e ripartire gli studenti con difficoltà linguistiche tra le scuole (oltre che, ovviamente, tra le classi) è un obiettivo al contempo “equo” (perché garantisce lo stesso trattamento ai cittadini-studenti) ed “efficiente” (al fine di favorire l’integrazione e l’apprendimento degli stessi). L’imposizione di quote è invece uno dei possibili strumenti per realizzare l’obiettivo: una politica scolastica seria deve indicane i costi e le modalità di applicazione. In particolare, a) con quale criterio si vuole discriminare tra chi ha diritto ad iscriversi alla scuola più vicina e chi no? b) Quanto costa trasferire studenti tra le scuole e chi sostiene tali spese? Senza dettagli a riguardo, è molto difficile valutare se lo strumento delle quote sia il più idoneo, o non vi siano mezzi sostitutivi o complementari (più insegnanti di sostegno o fondi per le scuole con più stranieri) preferibili.
Sono d’accordo con i lettori Marco Dore e Adriano Stabile (parte 2) che sottolineano come si debba partire dal garantire omogeneità nella composizione delle classi all’interno di ciascuna scuola, e come la quota stranieri vada nella direzione giusta, contribuendo anche a ridurre le disparità tra istituti. Circa la proposta di avere classi differenziate all’interno delle scuole, per intelligenti e meno intelligenti (lettore Dore, parte 3), ricordo che stiamo parlando della scuola dell’obbligo, e che Albert Einstein da piccolo era notoriamente un somaro…
Alcuni lettori rilevano altre difficoltà d’applicazione della “quota per stranieri”. Il provvedimento, chiede il lettore Iansolo, deve essere applicato solo alle classi di nuova formazione (le “prime” elementari, medie)? O richiederà invece di smembrare e ricostituire classi esistenti (e legami affettivi tra i ragazzi)? E cosa accadrebbe se eventuali bocciature comportassero la violazione delle quote? Come osserva il lettore Franco M, se il problema è quello della lingua, esso va affrontato valutando le capacità degli alunni (bambini “stranieri” potrebbero avere maggiore padronanza della lingua di bambini italiani, si pensi ad esempio al caso di bambini adottati). Ma quanto costeranno le task-force richieste per tali valutazioni? Altri lettori sottolineano il problema della ripartizione dei costi: saranno gli immigrati a pagare (lettore Roberto Simone)? I piccoli comuni, che con difficoltà riescono a pagare uno scuolabus (lettore Mauro Vecchietti)? Le scuole, dove già gli insegnanti non hanno la formazione per aiutare gli studenti che non capiscono la nostra lingua (lettore Mario)? Concordo con queste perplessità.
Altri lettori invece sembrano più ottimisti di me. Antonio Cianci, ad esempio, confida in una specie di “mano invisibile del mercato scolastico”: i genitori , votando con piedi, renderebbero omogenea la qualità dell’offerta scolastica tra gli istituti. Temo ciò non accada, e dunque penso che le quote possano, insieme ad altri strumenti, essere utili. Come ho detto, ritengo giusta l’esigenza di distribuire tra le classi i ragazzi con difficoltà linguistiche (lettore Rinaldi). Infine, non è vero quanto sostiene il lettore Bruno Stucchi: il mio esempio numerico non richiede l’uso di Excel, ma di sole carta e penna!

MURARO: INVECE DI UNA RISPOSTA AI COMMENTI

E’ durata lo spazio di un mattino la favola bella della riforma tributaria, subito scambiata, in forza delle dichiarazioni del Presidente Berlusconi,  per una riduzione del carico fiscale. Il Ministro Tremonti è dovuto precipitosamente intervenire per  rinviare a data da destinarsi ogni ipotesi di sgravi, scatenando una mezza rivolta all’interno del suo partito. 
A questo punto, ringrazio degli stimolanti commenti ricevuti , ma conviene rinviare ogni approfondimento a quando verranno formulate dal Governo proposte serie. Solo un’osservazione. Meglio se non ci fossero state confusioni fin dall’inizio, resta tuttavia il fatto che gli  equivoci risultano ora eliminati. Ci si può quindi  dedicare a  elaborare analisi e proposte  nel contesto corretto, quello che configura  una nuova struttura del  sistema tributario a parità di pressione complessiva. E tra le varie analisi  e proposte, ci possono ben essere quelle che riguardano le riduzioni del prelievo  quando si riterrà possibile conceder e che se da una parte le.
Personalmente ribadisco la mia duplice  convinzione:  che non è il caso di alimentare attese di riforme radicali; e che conviene partire dalla questione della imposizione immobiliare, intimamente legata a quella della finanza comunale, dove è urgente pensare a come rimediare al misfatto dell’abolizione dell’ICI sulla prima casa.

CHE PAGELLA, MINISTRO BONDI!

Il ministro per i beni e le attività culturali, l’onorevole Sandro Bondi, nella puntata di Porta a Porta del 11.1.2010, ha sostenuto che la riforma fiscale proposta dal governo, tesa a spostare il carico fiscale dalle imposte dirette a quelle indirette, dai redditi ai consumi, è una misura di equità sociale, perché "significa imporre maggiori tasse sulle classi sociali più elevate, più ricche, che consumano di più". Ma ministro, avrebbe replicato qualunque prof delle medie, ciò significa confondere una variazione assoluta con una relativa, è un errore da quattro in pagella! I ricchi possono ben consumare di più dei poveri, ma se si sposta il carico fiscale da un’imposta progressiva ad una proporzionale la cui aliquota media è inferiore a quella che ora pagano i ricchi, l’effetto è regressivo, non progressivo. E’ per l’appunto il caso nostro, visto che l’aliquota più elevata Irpef è al 43 per cento (dopo i 75.000 euro di imponibile) mentre l’aliquota dell’Iva è al massimo e per la maggior parte dei beni al 20 per cento. Non solo, ma se i ricchi risparmiano più dei poveri, i risparmi non sono tassati o sono tassati meno dei consumi (di nuovo il caso nostro) allora un’imposta su consumi ad aliquota uniforme è per forza regressiva. Esempio. Prendiamo un tizio A che guadagna 1000 euro al mese; verosimilmente spenderà tutto il suo reddito, e se l’aliquota media sui consumi è al 20 per cento, pagherà dunque 200 euro al mese di imposte. Prendiamone ora un altro B che ne guadagna 5000, e supponiamo che ne spenda 4000 e ne risparmi 1000. Questo pagherà dunque di imposte 800 euro al mese. Ma se i risparmi non sono tassati, l’aliquota media sul reddito del primo è del 20 per cento mentre quella del secondo è del 16 per cento; l’imposta è regressiva, l’aliquota media decresce al crescere del reddito. Certo, questo non è necessario, dipende anche da cosa consumano ricchi e poveri e da come sono tassati i diversi panieri di consumo. Per dire, se i 1000 euro di A vanno tutti in beni alimentari, mentre i 4000 di B vanno per 1500 in beni alimentari e per 2500 in beni di lusso, potremmo ottenere un’imposta progressiva tassando, per esempio, al 6 per cento i beni alimentari e al 34 per cento i beni di lusso; il gettito per lo stato sarebbe lo stesso che con un’aliquota uniforme del 20 per cento, ma il povero avrebbe un’aliquota media sul reddito del 6 per cento e il ricco del 19 per cento. Occorre però ricordare che l’Iva ha dei vincoli comunitari: vi è un’aliquota normale (in Italia il 20 per cento), una o due aliquote ridotte (in Italia 4 per cento e 10 per cento) su un paniere definito e non modificabile di beni primari, non vi sono aliquote maggiorate sui beni di lusso. Dunque, tralasciando altre considerazioni, inclusi i problemi di evasione e incentivo, un passaggio dall’Irpef all’Iva per forza ridurrebbe la progressività del sistema tributario.

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