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I PROBLEMI ECONOMICI DI BARACK

Il deficit degli Stati Uniti non consente di andare oltre le somme già stanziate dal piano Tarp e da quelle che la nuova amministrazione pensa di mettere in campo nel biennio 2009-2010? Intanto bisogna dire che la contabilità pubblica Usa è più prudente di quella europea. E in ogni caso non sarebbero sufficienti a rivitalizzare il sistema bancario e finanziario. Sono i problemi che il neo-presidente deve affrontare subito.

I costi economici del terrorismo

Negli ultimi anni il terrorismo internazionale ha cambiato luoghi e motivazioni. Mira a colpire l’Occidente, ma gli attacchi dei fondamentalisti avvengono principalmente nei paesi in via di sviluppo con il risultato di peggiorare le condizioni economiche proprio di queste regioni. Una maggiore cooperazione internazionale è necessaria, ma non basta. Occorre adottare misure economiche che stimolino occupazione, formazione e inserimento economico-sociale degli individui suscettibili di essere arruolati nelle attività terroristiche, come i disoccupati e i giovani non qualificati, privi di prospettive economiche.

UNA POLITICA FISCALE CONTRO LA CRISI*

La soluzione delle crisi finanziaria ed economica richiede iniziative tempestive per salvare il settore finanziario e sostenere la domanda aggregata. L’analisi svolta dal Fondo Monetario sulle precedenti crisi finanziarie insegna che una soluzione rapida dei problemi finanziari è cruciale per assicurare una forte crescita negli anni successivi. L’esperienza ci dice anche che una risposta fiscale tempestiva, forte e attenta nella scelta degli strumenti è fondamentale.

IL DECENNIO PERDUTO DEL GIAPPONE

Torna la paura della deflazione, intesa nel senso di diminuzione generalizzata dei prezzi. Utile allora guardare cosa è accaduto in Giappone, che ha sperimentato la stagnazione per dieci anni. Almeno ufficialmente, perché in realtà la crisi serpeggia ancor oggi: il Nikkei non è lontano dal minimo di gennaio 2003 e da aprile 2008 il paese è di nuovo tecnicamente in recessione. Il reddito è sceso solo nel biennio 1998-99 mentre i prezzi sono calati nel 1995, dal 1999 al 2003 e nel 2005. E la spesa in consumi delle famiglie dei lavoratori replica la discesa dei prezzi al consumo.

AIUTI IN CRISI

La crisi finanziaria globale potrebbe avere influenze negative sulle promesse di aumento degli aiuti internazionali e minare gli sforzi globali di lotta della povertà. Il governo italiano, al contrario di altri paesi europei, ha già sostanzialmente ridotto gli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo. Ma se la tendenza si consolidasse a livello mondiale, diventa importante pensare a come sfruttare al meglio le risorse disponibili. Ecco tre possibili proposte, una delle quali particolarmente provocatoria e interessante.

IMPARARE DA OBAMA

La storica vittoria elettorale di Barack Obama può insegnare qualcosa ai democratici e progressisti italiani? Anche se le situazioni dei due paesi sono estremamente diverse, vale la pena di fare alcune riflessioni sui fattori che hanno reso possibile questa grande vittoria e su quello che ci possono indicare.

DOVE NASCE LA VITTORIA

Bisogna prima di tutto sgombrare il terreno da una lettura “inevitabilista” del successo di Obama. Obama non ha vinto solo perché è una figura dotata di un carisma che non si vedeva da decenni, né solo perché gli otto anni di governo della destra hanno condotto a risultati talmente catastrofici da vincere persino il razzismo di importanti segmenti della classe operaia bianca E neanche perché Sarah Palin non è stata in grado di attrarre le donne deluse dalla sconfitta di Hillary Clinton alle primarie.
Un fattore fondamentale è la straordinaria organizzazione che ha sorretto la candidatura del senatore democratico e la mobilitazione di milioni di persone, molte delle quali non avevano mai fatto politica prima. L’intelligenza di Obama e dei suoi diretti collaboratori è consistita nell’identificare i gruppi di elettori potenziali nei settori più diversi della società americana e nel farli oggetto di un’attenzione continua e capillare.

LA RETE PER OBAMA

La campagna di Obama si è basata su un sistema di fundraising online e di organizzazione di eventi mai usato prima, molto personale, la cui parola d’ordine era “It is about you!”. Studiata dal fondatore of Facebook, Chris Hughes, la campagna ha attratto più di tre milioni di partecipanti. A chi si iscriveva a my.BarackObama.com (http://my.barackobama.com) si chiedeva di contribuire in prima persona, e mettendo in comune le esperienze, alla costruzione di una comunità di attivisti.
Con questo sistema le donazioni hanno raggiunto 650 milioni di dollari, più di quanto avevano raccolto insieme i due candidati presidenziali nel 2004.
Ma la candidatura di Obama ha beneficiato anche dell’appoggio e dell’attivismo di un’organizzazione online con più di tre milioni di membri: MoveOn.org.
Creata nel 1998 per superare l’impasse dello scandalo Lewinsky, e rafforzatasi poi in particolare sulla base dell’opposizione alla risposta unilaterale di Bush agli attacchi dell’11 Settembre, MoveOn.org si è battuta per eleggere candidati progressisti e ha mobilitato quasi un milione di volontari per Obama, raccogliendo 58 milioni di dollari. 
MoveOn.org ha dato voce a chi non ne aveva, ha contribuito così a connettere milioni di persone e a far rinascere la partecipazione politica in un modo facile ed efficace allo stesso tempo. Negli ultimi mesi, i membri di MoveOn.org hanno organizzato riunioni nelle loro case: insieme ad altri volontari telefonavano negli stati chiave per assicurarsi che i sostenitori di Obama andassero effettivamente alle urne.
Un fattore che contato moltissimo è stato l’enorme differenza di entusiasmo tra chi votava per Obama e chi votava per McCain. L’entusiasmo dei sostenitori di Obama si è tradotto in più rapporti personali, più azioni, più telefonate e donazioni.

E IN ITALIA?

Certo, in Italia, il semplice trasferimento di alcune delle tecniche usate dalla campagna di Obama non potrebbe funzionare.
Un limite è dato dal fatto che la popolazione è più vecchia e quindi meno sensibile agli entusiasmi. I giovani sono una proporzione molto più bassa dell’elettorato e, in assenza di cambiamenti demografici, sono destinati a scendere ancora. Gli americani sotto la soglia dei 35 anni costituiscono il 47 per cento della popolazione, mentre sono appena il 38 per cento in Italia. Questa quota poi rimarrà sostanzialmente stabile negli Usa, ma scenderà a poco più di uno su tre nel nostro paese.
Un altro limite riguarda il minor uso di internet. Nonostante i progressi, la diffusione di internet tra le famiglie italiane ci colloca al diciottesimo posto nella Unione Europea, con un tasso di penetrazione del 43 per cento rispetto alla media europea del 54 per cento e al 73,6 per cento degli Stati Uniti.
Infine, di grande importanza è stata anche la campagna televisiva di Obama: è stata senza precedenti e in alcuni stati il neo-presidente ha speso quattro volte tanto McCain. Potrebbe avvenire qualcosa di questa portata nella situazione di quasi monopolio della televisione italiana?
Barack Obama è riuscito a vincere anche perché ha fatto della speranza, anzi dell’“audacia della speranza”, la sua parola d’ordine e si è appellato agli “angeli migliori” del paese. Anche in Italia, se non si fa strada l’idea che il paese può essere meglio di quel che è ora e senza creatività nell’identificazione di nuovi strumenti di partecipazione e mobilitazione, sarà ben difficile uscire dalla profonda crisi attuale.

UN G-20 CON TROPPE RACCOMANDAZIONI

Una rilettura a mente fredda della dichiarazione finale del G-20 fa emergere molti dubbi. Il problema principale del documento è non separare in modo sufficientemente netto ciò che i paesi devono realizzare immediatamente da quello che dovrebbero fare in seguito. E mancano dettagli importanti, quelli su cui è più probabile che si manifestino i disaccordi fra governi. Preoccupanti anche le omissioni su questioni fondamentali come i disequilibri macroeconomici. Diverse invece le banalità, in particolare sul ruolo del Fondo monetario internazionale.

ALLA RICERCA DI NUOVE REGOLE. E DI NUOVE CLASSI DIRIGENTI

Il G20 dovrà indicare la nuova architettura delle regole di supervisione del mondo finanziario. Tra le proposte, collegi di supervisori per i grandi gruppi internazionali, codici di condotta per tutti gli investitori istituzionali, armonizzazione delle regole sul capitale delle banche. Ma non basta definire norme condivise, serve qualcuno in grado di applicarle. Un ruolo che potrebbe svolgere il Fondo monetario internazionale, se si procedesse a una revisione dei suoi meccanismi di governo. Necessario anche un profondo rinnovamento delle classi dirigenti.

I GIOVANI E LA LEZIONE AMERICANA*

Le elezioni americane hanno premiato la forza e il coraggio del cambiamento, due qualità che scarseggiano nel nostro Paese. Le spinte maggiori verso il cambiamento arrivano dalle nuove generazioni. Non per nulla Walter Benjamin definì la gioventù, per la sua naturale tensione innovatrice, come il “centro in cui nasce il nuovo”. Il giovane non ha interessi costituiti che lo vincolano a seguire una direzione piuttosto che un’altra e può dunque più facilmente orientare la propria sensibilità verso i nuovi problemi della comunità. Quando, in particolare, nasce l’esigenza di cambiare, il maggior sostegno proviene generalmente proprio dalle nuove generazioni.
Non può quindi meravigliare il fatto che due giovani americani su tre abbiano votato per Obama, come risulta dai dati degli exit pool riportati con ampia evidenza sui giornali d’oltreoceano. La preferenza nei suoi confronti diventa ancor più forte al diminuire dell’età, fino a superare il 70% tra chi ha votato per la prima volta. Una bella spinta quella data dalle nuove generazioni per il successo del candidato democratico nato negli anni sessanta, anche perché negli States i giovani hanno un peso consistente. Gli americani sotto la soglia dei 35 anni costituiscono il 47% della popolazione, mentre sono appena il 38% in Italia. Secondo le previsioni dell’U.S. Census Bureau da qui al 2020 tale quota rimarrà sostanzialmente stabile negli USA, mentre scenderà a poco più di uno su tre nel nostro Paese (immigrati compresi). Il peso degli under 35 sul totale dell’elettorato è di oltre il 30% negli States mentre arriva a malapena al 25% in Italia ed è destinato ulteriormente a scendere al 21,5% (www.demo.istat.it).
Questi dati non significano certo che "we can’t change", suggeriscono però che da noi il cambiamento è destinato ad avere vita più dura, data la minor consistenza demografica delle forze che per propria natura sono più aperte al nuovo. La forza (nei numeri) più ridotta richiederebbe allora d’essere compensata da un maggior coraggio. Meno difesa delle posizioni raggiunte da parte delle vecchie generazioni, meno cooptazione, più disponibilità a confrontarsi e ad essere messi in discussione. Ma richiede più coraggio anche da parte delle nuove generazioni nel guadagnare il proprio spazio. Obama è arrivato dal nulla e ha scalato i vertici della politica americana metro dopo metro, senza timori reverenziali verso nessuno. I Clinton e i Bush, le caste che hanno gestito il potere dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, alla fine hanno dovuto farsi da parte.
La vittoria di Obama insegna che nulla è impossibile in America. In Italia, invece, tutto è più difficile. Certo, aiuterebbe togliere del tutto gli assurdi limiti anagrafici di accesso al Parlamento. Abbassare l’età del voto a 16 anni, quantomeno per le amministrative, sarebbe poi un segnale importante, che consentirebbe di contenere l’ulteriore perdita di peso delle nuove generazioni nei prossimi anni. L’effervescenza di questo ultimo mese nei Licei e nelle Università smentisce, del resto, chi considerava i giovani italiani apatici, poco interessati alla politica e al loro futuro. Aiutiamoli a contare di più, diamo qualche speranza in più al cambiamento anche da questa parte dell’Oceano.

(*) L’articolo è presente anche su www.neodemos.it

YES, THEY CAN

L’emozionante esito della campagna elettorale in America, le parole e lo stile del vincitore e forse ancor più quelle del perdente mi ha riportato alla mente una domanda che tante altre volte mi sono posto: cosa c’e di diverso in America? Cosa ha l’America che noi non abbiamo? Non ho una risposta a un quesito così vasto, ma alcune piccole esperienze che mi sono sovvenute possono forse aiutare a trovarne una.
Alcuni anni fa ero in visita a san Francisco. Di rientro da Sausalito, attraversavo in auto il Golden Gate per andare all’aeroporto e prendere un volo per Chicago. All’uscita del ponte le strade si dividono in varie direzioni; solo una conduce all’aeroporto. Avevo con me tutte le istruzioni ma, nella confusione del viaggio, le avevo smarrite dentro l’auto. Ero preoccupato perché sbagliare strada avrebbe significato forse perdere il volo. Al momento di pagare il pedaggio chiedo al casallente dove dirigermi per andare all’eroporto. Si gira, prende uno stampato da uno scaffale e me lo passa. Conteneva una mappa che illustrava esattamente come arrivare da quel punto all’eroporto. Mi è sorta spontanea la domanda: come fa ad avere lo stampato? La risposta è semplice: altri viaggiatori, nel passato, si sono trovati nella stessa condizione e si sono rivolti al casellante, il casellante ha riferito al suo principale e questo ha provveduto. Mi resi conto che una cosa simile forse non sarebbe accaduta in Italia: quando il problema emerge non c’e reazione. Quasi sicuramete il giorno dopo, l’anno dopo, cinque anni dopo, il problema è ancora lì a riproporsi stancamente senza che il casellante di turno, o chi per lui muova un passo.
La scorsa settimana ero a New York per tenere dei seminari (discussione di una ricerca con un piccolo gruppo di colleghi del ramo). Uno di questi a New York University, nel Dipartimento di Economia e di Science Politiche, al 19 della 4th steet, nel centro di Manhattan. Fa sempre un gran piacere entrare in un’università che vibra di idee e pulsa di vitalità. Nel pomeriggio, dopo il seminario, passa a prendermi mia moglie. Mi fa notare che lì nel Dipartimento di Economia c’è un centro di Neuroeconomics – una nuova branca a cavallo tra le neuroscienze e le discipline comportamentali, economia, psicologia, scienze sociali – che negli ultimi anni ha iniziato a studiare i processi di formazione delle decisioni utilizzando le tecniche messe a disposizione dalle neuroscienze.  E’ la traduzione immediata, la risposta organizzattiva e istituzionale a una nuova esigenza di conoscenza. Mia moglie, mi chiede, non è stupendo? Non è affascinante questa disponibilità e immediatezza a reagire a uno stimolo positivo?
Ieri ho ricevuto un bando appena uscito della Alfred P. Sloan Foundation – una fondazione intitolata ad Alfred Sloan Jr., il CEO che in 23 anni di comando tra il 1923 e il 1946 fece prosperare la General Motors. La fondazione ha lo scopo di dare supporto finanziario per la produzione di ricerca originale nei campi delle scienze, delle tecnologie, dell’economia, nel “…convincimento profondo che una migliore e ragionata comprensione delle forze che muovono la natura e la societa’, quando applicate con inventiva e saggezza, possono migliorare il mondo per tutti”. Il bando mette a disposione degli studiosi 2.7 milioni di dollari per analizzare le cause e le conseguenze della crisi finanziaria e delle sue ripercussioni economiche e per esplorare riforme regolamentari e istituzionali che possano migliorare il funzionamento dei mercati. Nel convincimento che sviluppare la conoscenza economica possa aiutare individui e istituzioni a prendere decisioni più sagge. Sono rimasto sbalordito: siamo nel mezzo della crisi, nel pieno del problema ed ecco una reazione, un investimento per risolverlo che emerge prontamente dalla società. Una collega mi ha chiesto: perché non facciamo cosi anche in Italia, in Europa? Ho rifletutto un attimo per cercare di capire chi, in Italia, in Europa possa essere cosi reattivo. Chi possa pensare al bene comune dell’Europa con prontezza. Non mi è venuto in mente nessuno.
Provo dispiacere nel vedere che c’e una parte del mondo– quella dove vivo e mi piace vivere – che non trova risposte ai problemi, piccoli e grandi, che si presentano, quando le trova sono tardive, lente, affannate e spesso dirette non a risolvere quel problema al meglio ma a qualche cosa d’altro. Provo amarezza nel constatare che No, we cannot.
Provo però una grande contentezza nel vedere che c’è un’altra parte del mondo dove quando un problema emerge trova una risposta, produce una reazione mirata alla soluzione di quel problema. Mi consola vedere che Yes, they can.

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