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Per chi e perché si taglia il cuneo: le imprese

E’ condivisibile la scelta di ridurre il cuneo fiscale per la parte che compete alle imprese attraverso un intervento sull’Irap. Che può essere letto non come una semplice agevolazione, ma come una norma di sistema. E la sua articolazione è funzionale agli obiettivi perseguiti. Gli elementi critici sono dettati dall’impellenza dei vincoli di gettito e riguardano l’esclusione di importanti settori dell’economia, oltre alla complessità dei meccanismi opzionali previsti, che rendono il disegno e i suoi effetti meno trasparenti.

Tra razionalizzazioni e occasioni mancate

I contribuenti con oltre 35mila euro di imponibile pagheranno più imposte. Ma chi beneficerà dell’intervento sull’Irpef? Saranno coloro che hanno redditi tra 10 e 35mila euro, più i lavoratori dipendenti degli autonomi e chi ha figli rispetto a chi non ne ha. Ma l’effetto redistributivo non è intenso, perché la manovra poggia solo sulla progressività dell’imposta. Importanti gli aspetti di razionalizzazione, con il ritorno al sistema di detrazioni. Forse si poteva fare di più nel disegno degli istituti di sostegno alle famiglie e verso l’universalità dei beneficiari.

La pressione fiscale a carico degli “onesti”

L’evasione e la pressione fiscale (il rapporto delle entrate pubbliche sul Pil) sono da sempre ingredienti fondamentali della politica economica. Le discussioni inerenti la legge Finanziaria, tanto per citare l’attualità, non fanno altro che ribadire il concetto. D’altronde, l’importanza attribuita dal legislatore a questi indicatori è ben meritata e si vuole qui porre l’accento su certe loro interrelazioni che potrebbero aiutare a chiarire alcuni dei temi di politica fiscale sul tappeto.

La pressione fiscale a carico degli “onesti”

Il primo tratto comune che viene in mente è che le attività non dichiarate al fisco incidono su entrambi i fattori della pressione fiscale, poiché riducono sia il gettito sia il Pil (o, quantomeno, riducono l’affidabilità della stima del Pil).
Merita qui di essere ricordato che l’Istat corregge il Pil aumentandolo dell’evasione fiscale che, con varie tecniche, riesce a quantificare. (1) Cioè, il Pil ufficiale (che è anche una somma di redditi) contiene anche i redditi non dichiarati. Viceversa, i conti pubblici non sono corretti per l’evasione, per cui la pressione fiscale comunemente riportata e commentata (chiamiamola “consueta”), potrebbe non essere quella “vera”.
Quest’ultima è molto probabilmente superiore a quella solitamente discussa poiché, evidentemente, le tasse sono pagate solamente dai redditi emersi. L’Istat pubblica i dati del Pil dichiarato e non, può essere interessante perciò chiedersi qual è la pressione fiscale a carico dei contribuenti onesti. L’operazione è assai semplice: il gettito va diviso per il solo Pil regolare. La tabella 1 dà conto dei risultati, affiancando tre tipi di pressione fiscale.

La pressione consueta deriva dalla divisione del gettito incassato dalla pubblica amministrazione per il Pil complessivo. Per spiegare gli altri due indici, va detto che l’Istat pubblica due diverse stime dell’evasione: una minima, l’altra massima. Quest’ultima comprende, oltre all’evasione minima, anche una somma che potrebbe non essere collegata a redditi irregolari. (2) Orbene, il denominatore delle misure “media” e “massima” è, rispettivamente, il Pil complessivo al netto della versione minima e massima della stima dell’evasione. Chiaramente, a parità di Pil totale, il Pil regolare più basso è quello connesso all’evasione massima e, altrettanto ovviamente, esso genera l’aliquota massima poiché il gettito è uguale per tutti gli indici. In altre parole, nell’evento banale e limite in cui non esistesse evasione, allora sia il rapporto massimo che quello medio collasserebbero al valore consueto.
Si può anche osservare che variazioni di gettito per motivi del tipo “aumento/diminuzione del senso civico” (nel secondo caso si può pensare all’effetto di condoni reiterati), dovrebbero impattare meno sul quoziente massimo che su quello consueto: a parità di mutamenti negli incassi fiscali, il denominatore “tutto dentro” di quest’ultimo resta relativamente più stabile. Va poi considerato che i valori di cui alle colonne (b) e (c) sono una sovrastima dell’aliquota “vera” poiché è più facile nascondere il reddito che il consumo. Cioè, parte delle imposte indirette è pagata dai redditi irregolari. In questo caso l’indicatore consueto, tenendo conto anche dei redditi evasi, è meno impreciso degli altri due.
Ancor più singolare è l’impatto sulla pressione fiscale dei redditi provenienti dalle attività illegali. Da un lato, vengono (almeno in parte) spesi nel circuito legale, in ciò incrementando le entrate pubbliche mentre, dall’altro, non entrano nel Pil totale stimato dall’Istat. In entrambi i casi, l’effetto è una sovrastima della pressione fiscale: una parte degli incassi della pubblica amministrazione deriva da redditi non conteggiati nel Pil ufficiale. Comunque, tutto considerato, è probabile che la percentuale “vera” sia situata all’interno dei due valori estremi riportati nella tabella 1 la quale, anche perciò, appare generosa di utili indicazioni.
Entrando nel merito delle cifre, sembra che il 1997 sia stato, fiscalmente parlando, un annus horribilis : tutti i valori segnano un massimo. D’altronde, quello, era l’anno dell’eurotassa.
Forse ancora più intenso è l’impatto, anche emozionale, dell’aliquota che storicamente grava sui redditi dichiarati al fisco: non di rado si è superato il 50 per cento anche nella versione più conservativa di cui alla colonna (c). Infine, l’osservazione dei valori del decennio suggerisce che la pressione fiscale, specie nelle due versioni non consuete, è maggiore negli anni più recenti che nei primi anni Novanta.

Una crescita senza ostacoli

Nella tabella 2 riporto i tassi di variazione del gettito e dell’evasione (nelle due versioni, massima e minima, dell’Istat). Scorrendo le colonne (b) e (c) ci si rende conto che, nonostante gli interventi e la tolleranza zero, la crescita dell’evasione ha trovato pochi intralci. Non solo. La crescita complessiva (vedi ultima riga) ci informa che, negli ultimi dieci anni, una delle “industrie” trainanti del nostro sistema economico è stata proprio l’evasione fiscale; specie quella che, secondo l’Istat, è certamente evasione. Vedasi la colonna (c). Confrontando evasione e gettito (colonne (a-b) e (a-c)), risulta che i primi anni Novanta sembrano essere stati un periodo particolarmente drammatico: l’evasione aumentava e il gettito non riusciva a tenerne il ritmo. In seguito qualcosa è migliorato, anche se il risultato consolidato nel corso del decennio permane negativo.

La correlazione tra la crescita del gettito e quella dell’evasione è positiva (molto, 65 per cento, nel caso dell’evasione massima; poco, 19 per cento, nel caso dell’evasione minima), il che a parole vuol dire che è risultato difficile implementare politiche in grado di perseguire, contestualmente, aumenti di gettito e riduzioni dell’evasione.
Evidentemente, ed è la speranza di molti, non è detto che la storia debba per forza ripetersi. Tuttavia, in base a queste informazioni, si possono tentare due considerazioni di politica fiscale.
La prima riguarda i condoni degli ultimi anni che, se fatti con l’intenzione di far emergere base imponibile in modo permanente, avrebbero dovuto produrre sia maggior gettito sia minore evasione. Nei dati aggregati qui analizzati, simili dinamiche non trovano riscontri.
La seconda interpretazione normativa è che in Italia la gestione delle entrate pubbliche appare particolarmente complicata. Dal lato emerso, devono confrontarsi con rigidi vincoli sovranazionali, con un debito abnorme, con una spesa (nel breve termine) sempre meno comprimibile e (nel lungo termine) sempre più decentrata; dal lato sommerso, sembrano subire vigorose reazioni ai tentativi di reperire incassi aggiuntivi.
Insomma, il quadro prospettato dovrebbe far intuire perché, nei dibattiti di politica fiscale, si sente spesso dire che i) la (più che trentennale) “stagione” dei condoni è ormai finita e che ii) la lotta all’evasione fiscale è un prerequisito per la riduzione della pressione fiscale.


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Le opinioni qui espresse sono personali e non necessariamente impegnano l’Isae.

(1) Per saperne di più, cfr. Maurizio Bovi (2006), “Evasione e sommerso nella Contabilità nazionale”, in Guerra M.C. e A. Zanardi, Rapporto di Finanza Pubblica. Bologna, il Mulino.
(2) Il fatto è che l’Istat non è in grado di discriminarne la parte che, con maggiore certezza, proviene da attività sommerse.

Le entrate a sorpresa

Ben 34 miliardi di differenza nel gettito per il 2006 tra le previsioni del Dpef del luglio 2005 e quello di quest’anno. Spiegabili per la metà con la revisione contabile operata dall’Istat e per 11 miliardi con interventi discrezionali. Il resto è una sottostima. Ma i dati relativi al primo semestre 2006 segnalano una crescita ancora maggiore, che il governo valuta in 5 miliardi. Davvero strutturali? Saperlo sarebbe importante. Alcuni suggerimenti per rendere più trasparenti le informazioni sulle entrate, in linea con quanto avviene in altri paesi.

Il decreto in via di cambiamento

Un cambiamento radicale, cominciato però con un passo falso. Infatti la riforma della fiscalità degli immobili entrata in vigore il 4 luglio col decreto legge 223/06 sta per essere corretta dal Governo: alcune proposte su come dovrebbe essere rettificata la normativa fiscale appena entrata in vigore.

Kant, il Dpef e i Fiscal Councils

La politica fiscale deve coniugare flessibilità di breve periodo e disciplina di lungo periodo. Dovrebbe perciò essere controllata da un Fiscal Council indipendente che fornisca stime veritiere delle variabili macroeconomiche su cui si fondano le previsioni delle entrate e delle spese e monitori il raggiungimento degli obiettivi di risanamento. Anche il Dpef raccomanda trasparenza e monitoraggio dei conti pubblici. Perché allora non adottare una legge di responsabilità fiscale, come hanno fatto altri paesi?

Le entrate secondo il Dpef

Un Dpef di legislatura per quanto riguarda le entrate tributarie. Il documento non indica quanta della correzione del disavanzo prevista sia imputabile al prelievo, né entra nel dettaglio dei singoli provvedimenti finalizzati ad aumentare il gettito. Conferma come prioritaria la linea di intervento a favore del recupero della base imponibile impostata con il decreto legge 223. Dà, invece, alcune indicazioni qualitative sulla riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro e sul nuovo disegno delle deduzioni dall’Irpef per lavoro e oneri familiari.

Decreto 223, un primo passo

Il decreto 223 è parte integrante della strategia del Governo per perseguire equità, sviluppo e risanamento. I provvedimenti di contrasto a evasione, elusione ed erosione fiscale sono numerosi e variegati, con ricadute sulle imposte dirette, indirette e sull’Irap. Potenziato l’utilizzo di strumenti informatici, a fini di accertamento, ma anche di razionalizzazione e semplificazione. Apprezzabile che si tocchino molti punti deboli del sistema con interventi mirati, e non con impegni generici. Qualche aspetto da modificare in sede di conversione del decreto.

Perché l’Iva funziona male

Nel loro intervento del 16 giugno Giampaolo Arachi e Alberto Zanardi, con il contributo di Carlo Fiorio che ha sviluppato interessanti considerazioni sugli effetti distributivi, hanno riproposto tal quali le argomentazioni pubblicate su Il Sole-24Ore del 9 giugno 2005. (1)
Un anno fa la manovra sulle aliquote Iva doveva servire a finanziare un alleggerimento dell’Irap, oggi un alleggerimento del cuneo fiscale. Lungi da me intenti polemici, vorrei precisare i motivi che rendono infondata la tesi che attribuisce la scarsa produttività dell’Iva alla struttura delle aliquote applicate in Italia.

Lo studio europeo

Lo studio della Commissione europea cui gli autori fanno riferimento espone i dati relativi all’anno 2000. (2) Incidentalmente osservo che il 2000 rappresenta il massimo storico assoluto nel rendimento dell’Iva italiana dal 1973 in poi: l’Iva di competenza essendo risultata pari al 6,5 per cento del Pil (serie Istat antecedente l’ultima revisione); nel 2005 siamo calati al 5,9 per cento (sempre vecchia serie, vedi il grafico in fondo).
Lo studio è stato condotto su dati delle contabilità nazionali dei singoli Stati membri (Sm) e non già su dati di fonte fiscale come avrebbe dovuto essere. Pertanto, per quanto concerne le proxy delle basi finali imponibili si sono utilizzati dati statistici, mentre per l’aliquota implicita si è fatto il rapporto tra un dato fiscale (l’Iva di competenza per i criteri di Maastricht) e ciò che si ritiene sia la base finale imponibile Iva. Non mi sembra sia questo un procedimento corretto da un punto di vista logico perché inevitabilmente si scambiano tra loro cause ed effetti. È cosa nota, infatti, che tutt’ora permangano seri problemi di confrontabilità dei dati statistici. degli Stati membri. Ergo, i consumi finali della famiglie dei singoli Stati possono non essere tra di loro omogenei, a prescindere dall’ampiezza dei consumi finali esenti.

Un confronto Italia-Francia

Nella tabella 2 sottostante espongo, per due Stati membri, il ragionamento che si dovrebbe fare per capire di cosa stiamo parlando. Per memoria, nella tabella 1 riporto la griglia delle aliquote legali esistenti in Francia e in Italia: le aliquote ridotte sono da noi poco meno che doppie di quelle francesi e l’aliquota normale è di poco superiore (4 decimi di punto).
Utilizzando i dati delle dichiarazioni, con riferimento al 2004 si può osservare che in Francia l’aliquota finale sulle vendite è risultata pari al 16,21 per cento mentre in Italia è stata del 18,06 per cento. In sostanza, se si considerano le operazioni imponibili spontaneamente dichiarate dai contribuenti Iva, l’aliquota finale sulle vendite è risultata in Italia superiore di circa l’11,4 per cento (1,85 punti).
Sugli acquisti con Iva detraibile, sempre spontaneamente dichiarati, l’aliquota francese è risultata pari a 16,46 per cento mentre quella italiana è stata del 19,30 per cento (2,84 punti in più, pari a uno scarto del 17,3 per cento circa). Queste sono dunque le aliquote finali medie che si sono realizzate nel sistema economico dei due Stati membri sulle vendite imponibili e sugli acquisti detraibili.
La sintesi delle due aliquote applicate ai rispettivi flussi determina un’aliquota finale del sistema, sulla base imponibile finale che rimane incisa, che è pari a 15,50 per cento in Francia e 14,80 per cento in Italia (lo scarto è di 7 decimi di punto pari a –4,5 per cento a danno dell’Italia rispetto alla Francia).
A questo punto, anche uno studente liceale capirebbe che la minor resa dell’Iva italiana (cioè il “Vat burden” di cui parla lo studio della Commissione) non dipende dalla griglia delle aliquote bensì da qualcos’altro: gli acquisti portati in detrazione.
Se, per l’Italia, il funzionario che ha redatto il rapporto, un economista dell’ufficio “Economic analysis of taxation”, non è arrivato a questa conclusione non è colpa mia. Di sicuro ha utilizzato un procedimento analitico che lo ha portato fuori strada.
L’aumento delle aliquote comunque mascherato e giustificato non farebbe che complicare la situazione, cioè il cattivo funzionamento strutturale dell’Iva, fornendo una scorciatoia illusoria più volte percorsa in passato. In sostanza, il sistema Iva italiano somiglia molto a uno scolapasta con grossi buchi: l’obiettivo dovrebbe pertanto essere quello di trasformare lo scolapasta in colabrodo (fori significativamente più piccoli).
L’unico argomento che ancora rimane a sostegno della proposta di aumento delle aliquote Iva è dunque squisitamente politico e, come tale, non assoggettabile a obiezioni di tipo logico: si tratta in definitiva della decisione di spostare potere d’acquisto da una parte della popolazione (chi si trova sotto la soglia di povertà, i pensionati al minimo, i salariati a basso reddito) verso le imprese genericamente intese.

(1) “Iva più europea per varare i tagli”, Il Sole-24Ore, 9 giugno 2005.

(2) “Vat indicators”, working paper n.2/2004.

 

Tabella 1: la struttura delle aliquote legali in Francia ed in Italia

• (1) aliquote (2) aliquota (3) aliquota implicita (4) divario in %

• ridotte normale media aliquota normale

• Francia 2,1 5,5 19,6 15,5 22,1

• Italia 4 10 20 15 25

• Media UE-15 – 19,4 15,9 18

 

Tabella 2: l’Iva sulle operazioni imponibili e sugli acquisti detraibili nel 2004

FRANCIA

volumi

imposta

aliquota

Totale operazioni imponibili

2.965.604

Totale imposta

480.806

16,21

Base finale imponibile

769.381

Imposta

119.254

15,50

Acquisti ad Iva detraibile

2.196.223

Imposta

361.552

16,46

ITALIA

volumi

imposta

aliquota

Totale operazioni imponibili

2.287.807

Totale imposta

413.188

18,06

Base finale imponibile

559.115

Imposta

84.229

14,80

Acquisti ad Iva detraibile

1.718.692

Imposta

331.641

19,30

FRANCIA / ITALIA

volumi

imposta

aliquota

Totale operazioni imponibili

129,63

Totale imposta

116,36

89,76

Base finale imponibile

135,19

Imposta

141,58

104,73

Acquisti ad Iva detraibile

127,34

Imposta

109,02

85,28

Nota bene: l’Iva sulla base finale è quella di competenza economica di fonte Istat e Insee.

Toglietemi tutto, ma non il cuneo fiscale

Il cuneo fiscale ha tre componenti. Una è relativa all’Irpef, e una sua riduzione non è all’ordine del giorno. Poi ci sono i contributi sociali, per i quali forse c’è spazio per una riduzione, ma certamente non consistente. Cosa rimane per il famoso taglio di 5 punti percentuali? I contributi previdenziali. Ma questi sono parte integrante della retribuzione del lavoratore. Se l’obiettivo è risolvere i problemi di competitività delle imprese italiane, la soluzione migliore non può essere quella di chiedere a tutti i cittadini di aiutare le aziende a pagare gli stipendi.

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