Lavoce.info

Categoria: Fisco Pagina 55 di 82

Prove di federalismo municipale

Più ombre che luci nella riforma della fiscalità comunale. Nascono dubbi sul fatto che possa garantire la certezza di risorse alla base di ogni seria prospettiva di responsabilizzazione degli enti territoriali. Nella seconda fase, l’Imup si profila come una super-patrimoniale sulle seconde case.

Imup, imposta dal futuro incerto

La seconda fase della riforma della fiscalità comunale scatterà dal 2014. A partire da quell’’anno, i comuni che decideranno di farlo potranno istituire una nuova imposta, denominata Imposta municipale propria (d’’ora in poi Imup), regolata dalla normativa statale ma con il riconoscimento ai comuni di margini di autonomia. Se istituita, l’’Imup cancellerà le imposte statali immobiliari devolute nella prima fase (con l’’eccezione della cedolare secca sulle locazioni) e l’’Ici.

DUE COMPONENTI PER UN’IMPOSTA

Dell’’Imup, il decreto fissa alcuni elementi fondamentali ma su altri rimanda la decisione al futuro. Sarà un’’imposta “doppia”, con due differenti componenti: la prima basata sul possesso dell’’immobile, come l’’Ici attuale, la seconda sul suo trasferimento, come oggi l’’imposta di registro e quella ipo-catastale. E sarà un’imposta patrimoniale, visto che la base imponibile resta il valore catastale, gravante prevalentemente sulle seconde case (a disposizione e locate) e sugli immobili non residenziali, con netta conferma dell’’esenzione totale dell’’abitazione principale per la “componente possesso”. Le aliquote base saranno fissate dallo Stato, ma si riconosce ai comuni la possibilità di manovrarle in aumento o in diminuzione entro limiti prefissati, addirittura fino al 3 per mille sulla “componente possesso”. Sulla stessa componente è poi previsto un regime fortemente agevolativo, addirittura metà dell’’imposta ordinaria, nel caso di immobili locati e in quello di immobili utilizzati nell’’esercizio dell’’attività di impresa, arti e professioni ovvero posseduti da enti non commerciali.
La nuova Imup sarà in realtà un tributo composito, basato su presupposti differenti (il possesso, il trasferimento di immobili), una collezione di tributi oggi esistenti che, sotto una etichetta unica, manterranno in gran parte i loro caratteri distintivi. Insomma, una forzatura dettata dall’’obiettivo di attribuire tutta la tassazione immobiliare ai comuni (con margini differenziati di manovrabilità) e di “semplificare” a tutti i costi, senza però cambiare nulla in sostanza, senza cogliere l’’occasione per mettere mano a una riforma concreta della tassazione immobiliare.

UNA SUPER-PATRIMONIALE SULLE SECONDE CASE

Valutare l’’Imup è esercizio arduo in quanto il decreto manca di fissare un elemento fondamentale del nuovo tributo: l’’aliquota base della sua componente principale, quella collegata al possesso dell’’immobile. Qualche considerazione di larga massima è comunque possibile.
Sotto il vincolo della “neutralità finanziaria”, data la riconferma della piena esenzione della prima abitazione, data la necessità di recuperare la perdita di gettito derivante dalla cedolare secca al 20 per cento rispetto all’’Irpef attuale e dati infine i regimi fortemente agevolativi previsti nella nuova imposta, il risultato non può che essere un pesante spostamento del prelievo fiscale a danno, in particolare, delle seconde case.
Le prime simulazioni indicano che per garantire parità di gettito, l’’aliquota base dovrebbe essere fissata nell’’intervallo tra l’’11 e il 14 per mille, ossia circa il doppio dell’’aliquota Ici attuale. Il risultato sarebbe pertanto una super-patrimoniale sulle seconde case. Questa prospettiva avrebbe qualche vantaggio in termini redistributivi, ma penalizzerebbe fortemente l’’investimento immobiliare diverso da quello finalizzato all’’acquisizione della prima abitazione. La possibilità di fissare l’’aliquota base a un livello un po’’ più basso dipende criticamente dall’’effettivo recupero di evasione nella tassazione sugli immobili che dovrebbe derivare dagli incentivi all’’emersione generati dall’’abbattimento dell’’aliquota previsto con la cedolare secca e dal maggiore coinvolgimento dei comuni nell’’attività di accertamento. Ma su entrambi i fronti, i margini di incertezza sono forti.
Anche per la seconda fase rimangono i problemi evidenziati sul piano perequativo, in quanto la nuova Imup concorre al finanziamento del fondo di perequazione. Un punto di ambiguità che permane nel testo del decreto è poi quello che riguarda il carattere facoltativo del passaggio dalla prima alla seconda fase. La Relazione sul federalismo fiscale del 30 giugno affidava l’’istituzione dell’’Imup “a una verifica di consenso popolare su iniziativa dei singoli comuni”. Si tratta di una previsione alquanto singolare poiché nel caso in cui solo alcuni comuni decidano di passare alla nuova imposta, si avrebbero seri problemi di funzionalità per il sistema perequativo municipale. E ciò perché il meccanismo perequativo dipende dalla determinazione della capacità fiscale, la quale deve necessariamente riferirsi a tributi di applicazione generale in tutti i comuni. Il testo del decreto sembra allontanare questo scenario, ma non risolve tutte le ambiguità.
Da ultimo, la riforma va valutata sul piano dell’’obiettivo della semplificazione della tassazione immobiliare rispetto al quadro attuale. Il combinato dei differenti trattamenti differenziali previsti per le diverse tipologie di proprietari e di immobili porta a un sistema di tassazione di redditi e patrimoni immobiliari (vedi tabella 1) che sembra francamente coraggioso definire più semplice e più neutrale rispetto a quello attuale.

Una mezza riforma per la finanza comunale

Positiva l’enfasi data alla fiscalità immobiliare nella finanza comunale, ma attenzione agli abbellimenti lessicali spacciati per riforme. Soprattutto è bene non dimenticare che rimane aperto il vulnus dell’abolizione dell’Ici sulla prima casa che deresponsabilizza molti cittadini di fronte alla spesa pubblica del comune. Esistono inoltre problemi di equità legati all’Imposta municipale unica e di semplificazione relativi all’applicazione della cedolare secca.

Leva fiscale per attrarre gli investimenti

Commento dopo le modifiche apportate dal Parlamento

La prima norma che abbiamo commentato (art. 40) relativa alla fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno, non è stata modificata. Valgono le considerazioni fatte.
La seconda norma (art. 41), sul regime fiscale di attrazione europea, che consente, previo apposito interpello,  a un’’impresa di un altro stato membro dell’’Unione europea di investire in Italia adottando il regime fiscale preferito tra quelli vigenti in ambito UE, ha subito qualche modifica:

1-  l’’efficacia del provvedimento è stata limitata a tre anni;
2-  è stato specificato che l’’opzione riguarda solo i tributi statali, quindi un’‘impresa di un altro stato membro che investisse in Italia potrebbe evitare di pagare l’’Ires (pagando invece, ad esempio, la Koerperschaftsteuer tedesca, ad aliquota del 15 per cento o la corporation tax irlandese, al 12,5 per cento) ma dovrà pagare l’’Irap, in quanto imposta regionale;
3-  è stata introdotta una norma antielusiva, per evitare che usufruiscano surrettiziamente dell’’agevolazione imprese che già sono presenti  in Italia o che solo virtualmente svolgano la propria attività nel territorio dello stato.

Si tratta di modifiche  che riducono l’’appeal della misura, che risolvono il problema da noi posto relativamente alla possibile ricaduta di parte dei costi dell’’agevolazione sui tributi degli enti decentrati, ma che, al contempo, non fugano né i dubbi di costituzionalità della norma né quelli della sua compatibilità con le norme comunitarie,  e che coinvolgono, come sottolineato anche recentemente dall’’esperto di diritto tributario comunitario Adriano Di Pietro su Il sole24ore, oltre al codice di condotta, anche le norme sugli aiuti di stato.

La manovra e la competitività: commento dell’1 giugno 2010 alla versione pre-emendamenti

Subito dopo il consiglio dei ministri di mercoledì scorso che ha varato la manovra, il presidente del Consiglio aveva invitato a leggere attentamente il testo prima di esprimere un parere. Ma come si faceva dal momento che dal consiglio dei ministri non è uscito alcun testo ufficiale e per giorni non si è saputo quante e quali norme sarebbero sopravvissute alle modifiche dell’ultima ora? In quella che sembra la versione finale del decreto sono contenute due norme che usano la leva fiscale per attirare le imprese a investire nel Mezzogiorno, e, quelle estere, in tutta Italia. Meritano attenzione per la loro finalità “a favore dello sviluppo”. Cerchiamo di capire perché non ci si può aspettare molto da nessuna delle due.

LA “FISCALITÀ DI VANTAGGIO” PER IL MEZZOGIORNO

La prima norma introduce la possibilità, per alcune regioni del Sud (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), di modificare le aliquote Irap “fino ad azzerarle e di disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei riguardi delle nuove iniziative produttive”.
Già oggi le Regioni possono variare l’aliquota, entro un range del +/-0,92 rispetto alla aliquota base del 3,9 per cento e concedere deduzioni, detrazioni e altre agevolazioni. (1) Con la nuova norma alle Regioni del Sud viene concesso un più ampio margine di manovra fino a consentire di azzerare completamente l’’Irap, sulle nuove iniziative produttive.
La norma anticipa, espressamente, l’’attuazione di quanto già previsto, in termini più ampi e generali, nella legge delega sul federalismo (legge 42/09 articolo 2 comma 2 lettera mm) che prevede l’’individuazione di “forme di fiscalità di sviluppo, con particolare riguardo alla creazione di nuove attività di impresa nelle aree sottosviluppate”. In entrambe le disposizioni si richiama, opportunamente, la necessità che l’’agevolazione sia “nel rispetto”, o “in conformità”, della normativa comunitaria. Fiscalità differenziate non solo fra settori di attività, ma anche sul territorio nazionale, potrebbero infatti essere ritenute incompatibili con la normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato, posta a tutela della concorrenza nel mercato comune europeo.
Non è un caso che le Regioni, quando hanno utilizzato la flessibilità loro concessa a favore di alcuni settori o territori disagiati, si sono sempre mosse nell’’ambito della regola del de minimis che consente che determinati interventi pubblici selettivi non siano ritenuti aiuti di Stato incompatibili, se il loro importo non supera determinate soglie.
Nel caso in cui si superi il de minimis, come avverrebbe con la riduzione, fino ad azzeramento, dell’’aliquota Irap, il test da passare, stando almeno a quanto emerge dalla giurisprudenza comunitaria, è che la decisione dell’’ente avvenga in piena “autonomia istituzionale, procedurale ed economica”. La Regione, quindi, non solo deve prendere in piena autonomia la decisione, ma deve anche sopportare il calo di gettito che ne deriva, come peraltro esplicitamente previsto dalla relazione tecnica che dice che “l’’esercizio della facoltà riconosciuta alle Regioni interessate è chiaramente subordinata all’’individuazione di corrispondenti compensazioni nell’’ambito dei propri bilanci”.
È difficile pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto più dopo i tagli previsti dalla manovra in discussione (e, per alcune di esse, l’’obbligo di far ricorso alla leva fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative. E anche quando si ritenesse che una concorrenza fiscale tra regioni è non solo possibile, ma anche sana e utile alla crescita produttiva, è tutto da vedere se, data la situazione di arretratezza, carenza di infrastrutture, degrado istituzionale, esposizione alla malavita organizzata in cui molte zone delle regioni interessate dalla “fiscalità di vantaggio” si trovano, sia sufficiente abolire l’’Irap per compensare i maggiori costi che un investitore sostiene aprendo un’’attività. Forse anche per questo, pudicamente, il decreto parla di “fiscalità di vantaggio”, mentre nella delega sul federalismo si parla di “fiscalità di sviluppo”.

REGIME FISCALE DI ATTRAZIONE EUROPEA

In base alla seconda norma: “Alle imprese residenti in uno Stato membro dell’Unione Europea diverso dall’Italia che intraprendono in Italia nuove attività economiche, nonché ai loro dipendenti e collaboratori, si può applicare, in alternativa alla normativa tributaria italiana, la normativa tributaria vigente in uno degli Stati membri dell’Unione Europea.”
Si tratta di una norma accattivate quanto fantascientifica: non solo perché non si capisce come possa essere concretamente applicabile, ma anche perché appare in palese contrasto con le regole comunitarie, nonché con la Costituzione italiana.
La norma è finalizzata ad attirare in Italia imprese di altri paesi europei. A queste imprese verrebbe infatti riconosciuta la possibilità di scegliere la normativa fiscale più favorevole fra le ventisette esistenti all’’interno della Unione. Non tutte sceglierebbero la stessa: il vantaggio che si può ricavare dall’’una o dall’’altra normativa dipende infatti dai dettagli delle singole normative, per quanto riguarda aliquote e basi imponibili, e dalle caratteristiche specifiche dell’’impresa: come si finanzia, quanti ammortamenti ha, quale è la sua forma societaria, quanti dipendenti e collaboratori assume e così via.
Per valutare la corretta applicazione delle imposte da parte di ciascuna di queste imprese, l’’Agenzia delle entrate dovrebbe conoscere ventisette diverse normative tributarie (redatte nelle lingue di ciascun paese), con la relativa regolamentazione secondaria, per quanto riguarda non solo la tassazione dell’’impresa, ma anche la tassazione dei dipendenti e collaboratori. La stessa conoscenza è ovviamente richiesta ai giudici che si trovino a dirimere il contenzioso tributario che dovesse sorgere.
Ma supponendo anche che questi ostacoli applicativi venissero superati, la nuova norma avrebbe importanti implicazioni in termini di violazione della concorrenza. Le imprese italiane, o quelle non europee che operano sul territorio nazionale, verrebbero esposte alla concorrenza di altre aziende che potrebbero godere di un regime fiscale sensibilmente più vantaggioso, per quanto riguarda sia la tassazione dei loro utili sia il costo del lavoro. Si tratterebbe di una violazione delle regole che l’’Unione Europea e l’’Ocse si sono date per evitare la “competizione fiscale dannosa” (dannosa in quanto mira ad attirare agenti economici di altri paesi con un trattamento preferenziale rispetto ai soggetti residenti).
Un altro profilo da considerare riguarda il fatto che i lavoratori italiani di un’’impresa multinazionale che ha scelto, ad esempio, il regime di tassazione estone, si troverebbero a pagare un’’imposta sui loro redditi da lavoro flat tax del 20 per cento, mentre quelli che lavorano per un’’impresa italiana resterebbero sottoposti all’’Irpef progressiva. Una disparità che difficilmente può essere considerata coerente con i principi costituzionali della capacità contributiva e dell’’uguaglianza davanti alla legge.
Un ulteriore problema si porrebbe poi in un contesto di federalismo fiscale: a quale quota del gettito prelevato su imprese e lavoratori secondo le regole tributarie di un altro paese europeo, e secondo quali criteri di ripartizione, avrebbero diritto le regioni e i comuni che perderebbero l’’addizionale Irpef regionale e comunale nonché l’’Irap (e forse anche l’’Ici sulle imprese) prevista dalla nostra normativa tributaria?
La relazione tecnica al provvedimento non aiuta certo a chiarire questi dubbi: la perdita di gettito è infatti quantificata, e per giunta in modo molto approssimativo, con riferimento alla sola Ires. Ma la norma citata non parla della sola imposta societaria bensì dell’’intera normativa tributaria dell’impresa nonché di quella relativa a dipendenti e collaboratori.

(1) La possibilità di variazioni in aumento è stata sospesa, a partire dal 2009, e fino all’’attuazione del federalismo fiscale, tranne che per le Regioni con disavanzi sanitari.

La complicata ricerca di un sostituto dell’Ici

Un’imposta sul patrimonio immobiliare è considerata la migliore soluzione per il finanziamento degli enti locali. E infatti è negli Stati Uniti vige la property tax. Perché allora in Italia è stata abolita l’Ici e si parla ora di introdurre una imposta sui servizi? Dal confronto tra vari tipi di tassazione si ricava che qualsiasi prelievo basato oltre che su logiche tariffarie su parametri integrativi avrebbe comunque l’effetto di trasferire il prelievo dai contribuenti più ricchi agli altri. E in particolare determinerebbe un maggior onere sulle classi medie.

La risposta ai commenti

Ringrazio i lettori dei molti commenti, la cui numerosità, peraltro, non stupisce, visto che di evasione fiscale si discute di frequente nel nostro Paese. Si dovrebbe forse riflettere sulle ragioni per cui tali discussioni scadono spesso (e non mi riferisco ai commenti dei lettori) in chiacchiere da salotto televisivo. Una di queste è la mancata conoscenza dei dati, ed è questa la motivazione che mi ha spinto a concentrarmi sui dati, piuttosto che sulle politiche. Comunque, condivido alcune delle osservazioni fatte in proposito, anche se l’’inversione dell’’onere della prova è qualcosa di giuridicamente delicato (lo dico da non giurista, ma non credo che il contesto normativo-istituzionale possa essere ignorato). Provo di seguito a condensare per filoni di argomenti alcune risposte sollecitate dai commenti. Per quel che riguarda la questione dell’’(in)efficienza della spesa pubblica, è certamente vero che (anche) nel nostro Paese l’’evasione dipende dalla percezione che i soldi pubblici siano spesi male e che questa percezione ha basi piuttosto solide.  Altra questione, sulla quale non sono in grado di soffermarmi, è quella della differenza tra l’’importanza simbolica e quella quantitativa di queste inefficienze. Tornando al punto,  non credo comunque che questo sia sufficiente a spiegare i livelli patologici dell’’evasione italiana ed è per questo che richiamo l’’attenzione sulla polverizzazione della struttura produttiva italiana. Alcuni commenti alludono ad una differenza fra l’’evasione dei piccoli e quella dei grandi. Su questo bisogna essere chiari. Di per sé l’’evasione dei piccoli è, per definizione, limitata, ma i) essa tende ad essere elevata in proporzione ai guadagni veri ii) è comunque la componente principale dell’’evasione italiana a causa della struttura produttiva del tutto peculiare del nostro Paese. Non sono così sicuro che nessun negoziante sotto casa che non emette lo scontrino sia tra coloro che hanno portato i soldi all’’estero. È invece vero che una parte del problema sta nel fatto che il nostro sistema di tassazione tassa in linea di principio nello stesso modo la grande società di capitali e la piccola srl. Sull’’accenno all’’importanza della pressione fiscale, certamente anche questa può contribuire, ma va ricordato che i) gli italiani evadevano tanto anche quando la pressione fiscale era più bassa ii) vi sono paesi (quelli del Nord Europa) dove l’’economia sommersa, per quanto ne sappiamo, è meno sviluppata che da noi, pur in presenza di una pressione fiscale superiore. Questi ragionamenti ci riportano all’’importanza dei fattori nostrani di cui sopra, cioè la qualità dei servizi pubblici, la tax morale del nostro paese e, soprattutto, la struttura produttiva.

Manovra economica ed evasione fiscale

Dell’evasione in Italia si sa praticamente tutto. Il problema di fondo consiste nel fatto che vi sono redditi completamente tracciabili e tracciati e altri che non lo sono. Se si ritiene che la riduzione dell’evasione sia utile, andrebbero reintrodotte integralmente le misure varate dal governo Prodi e subito abrogate dal governo Berlusconi. Con un passo ulteriore: grazie all’anagrafe dei conti bancari è possibile oggi richiedere agli intermediari finanziari la trasmissione al fisco dei saldi finali annuali di tutti i contribuenti, come avviene in altri paesi.

Sull’evasione parlano i dati

Con la preparazione della nuova manovra finanziaria torna alla ribalta la discussione sull’evasione fiscale e sui modi per contrastarla. Prima di tutto, però, sarebbe necessario capire che cosa è accaduto in questi ultimi anni. I dati ci dicono che affidare la lotta all’evasione solo a strumenti che agiscono a valle delle dichiarazioni non è sufficiente. Bisogna invece riflettere su forme di contrasto a monte, soprattutto in un sistema economico come il nostro dove agiscono sei milioni di partite Iva.

Un condono “ad aziendam”?

Nella lettera inviata al presidente del Consiglio e ai presidenti di Camera e Senato al momento della promulgazione del decreto legge “incentivi” (n. 40/2010)  il presidente Napolitano esprime, fra gli altri, “dubbi in ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza” per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del dibattito parlamentare.
Si riferisce esplicitamente anche al comma 2-bis dell’articolo 3.
Questo comma prevede due modalità di rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre dieci anni e per le quali l’amministrazione finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio. Una di queste (lettera b)) prevede che  il contribuente possa estinguere la controversia che lo riguarda, pagando un importo pari al 5 per cento del suo valore (riferito alla sola imposta oggetto di contestazione in primo grado, senza tenere conto  degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni).
Ci ricorda Napolitano che “la finalità dichiarata, in sé apprezzabile, di assicurare la durata ragionevole dei processi è contraddetta dall’assenza di qualsiasi disposizione a regime diretta alla semplificazione ed abbreviazione del contenzioso tributario”.
La norma infatti consiste unicamente in una sanatoria di situazioni in essere, a cui avranno interesse ad aderire solo coloro che hanno ragionevole timore di perdere in Cassazione (pur avendo vinto nei due gradi precedenti).
Perché è stata riproposta, dopo che era stata già fermata una volta al momento della discussione della legge finanziaria? Chi ne avvertiva l’’urgenza? A chi giova?
E’ un dato di fatto che le condizioni richieste per accedere alla sanatoria si attagliano alla perfezione – a un importante contenzioso pendente in Cassazione – che riguarda la Mondadori, dal valore stimato in circa 200 milioni di euro.
Sarà per questo che la norma è stata ribattezzata “lodo Cassazione”?

L’AFFITTO LANGUE ANCHE CON LA CEDOLARE SECCA

Riuscirà l’introduzione di una tassazione con cedolare secca del 20 per cento a ridare fiato al mercato delle case in affitto in Italia? Sarà molto difficile. Le simulazioni mostrano qualche vantaggio solo per i proprietari collocati negli scaglioni di redditi Irpef più elevati, mentre per quelli degli scaglioni più bassi il nuovo sistema potrebbe risultare addirittura svantaggioso. I guadagni sarebbero ancora più limitati se i vincoli di gettito portassero a un aumento del canone imponibile.

Pagina 55 di 82

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén