In tutta Europa si fa molta retorica sui regimi di protezione del lavoro, ma la questione della loro organizzazione è poco discussa. La necessità di incentivare il disoccupato a cercare una nuova attività, la possibilità di rinegoziare le retribuzioni ex post, i vincoli di liquidità sull’impresa, modificano il tasso contributivo di equilibrio e il livello ottimale di protezione dell’impiego, ma non la validità del principio generale secondo cui l’impresa deve internalizzare i costi sociali della disoccupazione. Così, il costo complessivo del licenziamento per l’azienda dovrebbe sostituire il controllo giudiziale o amministrativo.
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Il processo di integrazione sociale europeo, varato a Lisbona, registra grandi progressi, soprattutto nella capacità di misurare e analizzare i fenomeni della povertà e della disuguaglianza. Timidi miglioramenti si sono avuti anche nei tassi di povertà e nei livelli di disuguaglianza. Rimane tuttavia molto lavoro da fare: ancora troppi cittadini europei vivono in condizioni di disagio. E nuovi fenomeni, come la povertà dei bambini e degli occupati, meritano di essere affrontati rapidamente e con efficacia.
La discussione sul Patto di Stabilità non può prescindere dalla considerazione che gli attuali e futuri cambiamenti demografici rendono oggi ancor più necessario che in passato il consolidamento delle finanza pubblica. E dunque i vincoli vanno rafforzati e non allentati. Rispetto al potenziale di crescita odierno infatti il limite del 3 per cento appare fin troppo generoso. Le proposte della Commissione invece rischiano di minare la disciplina fiscale. Anche il concetto di “circostanze eccezionali” legate alla bassa crescita andrebbe rivisto alla luce delle attuali condizioni.
La regola aurea, invocata da molti ministri del Governo, va associata a condizioni decisamente più stringenti sulla dinamica del debito di quelle previste dal Patto di Stabilità. Richiede infatti che il rapporto debito-Pil non cresca nel periodo di riferimento, anzi decresca in modo più pronunciato per i paesi più indebitati. Forse, allora, è proprio quello di cui ha bisogno la finanza pubblica italiana: una regola sul debito che ne vincoli ogni ulteriore crescita, ne forzi una rapida diminuzione e ci metta al riparo dalla ritorsione dei mercati.
Evitare politiche pro-cicliche in fasi di alta crescita, migliorare la definizione degli obiettivi di bilancio a medio termine, rendere più “operativo” il criterio del debito, attuare riforme strutturali e migliorare la governance sono le questioni da affrontare per la revisione del Patto di Stabilità e crescita. La difficoltà sta nel coniugare due aspetti: mantenere intatto un sistema di sorveglianza multilaterale basata su “regole” e aumentare la razionalità economica delle regole stesse attraverso un maggiore esercizio della discrezionalità.
Per valutare le proposte di revisione del Patto di Stabilità e Crescita, è necessario comprender la ratio storica del Patto stesso: essenzialmente, esso fu concepito come uno strumento per eliminare le mele marce, cioè paesi con politiche economiche fuori controllo. I vincoli imposti sono certo arbitrari, e le regole hanno costi. Ma anche un innegabile vantaggio: offrono a cittadini, sindacati e aziende uno scenario stabile e prevedibile. Le proposte attualmente in discussione hanno una loro motivazione, ma in pratica aumenteranno l incertezza del quadro di politica economica e il contenzioso fra paesi. E allentare una regola ogni volta che qualcuno si lamenta aprirà la strada a nuove richieste di allentamento alla prossima difficoltà.
E’ illusorio pensare che le coperture della riforma fiscale possano derivare da sforamenti del Patto di stabilità. Se così accadesse, l’Italia si troverebbe a pagare un alto costo politico, oltre che economico. Difficile anche un allentamento condiviso dei vincoli nella direzione voluta dal nostro Governo. E per il sostegno alla competitività delle imprese, più che maggiore spesa pubblica in ricerca e infrastrutture, servirebbero misure per migliorare il contesto competitivo. Come una seria legge fallimentare o l’apertura del mercato bancario.
Prevale la convinzione che la delocalizzazione impoverisca le economie nazionali con perdita di posti di lavoro. Dunque, si adottano misure per contrastarla. Al contrario, può essere un processo virtuoso di rafforzamento della competitività anche in settori manifatturieri maturi come quelli in cui è specializzata lItalia. I fondi strutturali dovrebbero essere utilizzati per integrare le attività ad alto valore aggiunto con quelle che vengono trasferite. E da noi va favorita la creazione di consorzi che forniscano servizi a chi vuole internazionalizzarsi.
Salvo sorprese, il prossimo anno inizieranno i negoziati formali per lingresso della Turchia nella Ue. Non mancano le obiezioni. Quelle economiche insistono sul fatto che si tratta di un paese povero, prevalentemente agricolo e con una forte dinamica demografica. Questi problemi potrebbero però essere già superati quando ladesione sarà effettiva. Mentre i vantaggi sarebbero notevoli e non solo per Ankara. La Turchia può divenire una fondamentale via di approvvigionamenti energetici. E il potenziale di scambi e dinvestimento non è ancora sfruttato a pieno.
Dopo l’ingresso ufficiale nella Ue, i tre grandi paesi dellEuropa centrale hanno iniziato a seguire politiche fiscali meno rigorose, anche per l’imminenza di elezioni nazionali. Il rischio è di una deriva populista che porti a una spirale deficit pubblico-inflazione-deprezzamento del cambio-servizio del debito sempre più alto. Impraticabile un’adesione rapida all’euro, saranno i mercati internazionali dei capitali a impedire l’adozione di politiche scellerate. Ricordando però che il mercato provoca aggiustamenti bruschi e spesso traumatici.