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Lo spread Btp-Bund in tempo di euro

Con la scomparsa del rischio di cambio per l’Italia relativamente alla Germania dopo l’entrata nell’euro, anche il rischio di default si è drasticamente ridotto e i differenziali di interesse tra i due paesi si sono quasi allineati. Ora, però, sembrano tornare ad aprirsi. Un motivo di preoccupazione? L’evidenza empirica ci dice che il recente rialzo dello spread Btp-Bund può essere spiegato interamente da fattori totalmente indipendenti dall’andamento dei fondamentali fiscali italiani. Questo fatto sottolinea il fondamentale ruolo dell’EURO per il contenimento del costo del finanziamento del debito pubblico italiano, in un ambito di aspettative di stabilizzazione dei nostri fondamentali fiscali.

Ci vuole un’Autorità europea

Le battaglie societarie sulle banche italiane dimostrano che una buona regolamentazione è fondamentale per il corretto funzionamento dei mercati e la tutela della stabilità degli intermediari. Ma è altrettanto importante avere “buone” Autorità che applichino quelle regole con efficienza e imparzialità. E in un mercato finanziario denominato in un’unica valuta, per una disciplina uniforme e libera da condizionamenti nazionali, sarebbe opportuna la centralizzazione delle competenze di vigilanza in una Autorità europea, “costruita” sull’esempio della Bce.

Le conseguenze del “no” francese

La vittoria del “no” nel referendum in Francia sulla Costituzione europea porterà secondo alcuni a una crisi valutaria nei nuovi Stati membri, alla fine dell’UME e al blocco di ogni ulteriore allargamento. Sono previsioni che non hanno fondamento. E non dimentichiamo che anche dopo il “no” francese e un probabile “no” olandese, la prosecuzione delle ratifiche secondo i programmi è doverosa ai sensi della dichiarazione n. 30 annessa al Trattato. Ma occorre capire il disagio diffuso rispetto al processo di integrazione comunitaria. Carlo Altomonte, Giancarlo Perasso, Ettore Greco e Gian Luigi Tosato discutono le implicazioni del voto negativo sulla Carta UE al referendum francese. 

E’ l’Italia che va male, non l’Europa

L’economia italiana va male. Alla conclusione non si arriva per pessimismo, ma dall’analisi comparata dei dati disponibili. In quasi tutti i paesi europei quelli sulla crescita della produttività e del Pil sono migliori dei nostri. Dunque, anche da pur necessarie e urgenti misure volte a incrementare la produttività e la competitività dell’Europa non dovremmo aspettarci effetti catartici sulle possibilità di crescita della nostra economia. Purtroppo, ci vorrà tempo, riforme e sacrifici per riportare l’economia italiana a tassi di crescita “europei”.

Lo spettro di Bolkestein s’aggira per l’Europa

Il commercio di servizi nella Ue è frenato sia dal livello delle regolazioni nazionali che dalla loro eterogeneità. Ma l’assenza di un mercato integrato dei servizi è uno dei maggiori ostacoli alla crescita. E un grave danno per i cittadini europei perché il settore dei servizi è il principale, se non l’unico, fattore di crescita economica e occupazionale nei paesi avanzati. La sempre più diffusa opposizione alla “direttiva Bolkestein” si spiega solo con la scarsa lungimiranza dei governanti nell’avviare le riforme necessarie per uscire dalla stagnazione.

L’Europa, la Cina e la contabilità della partita doppia

Le misure di salvaguardia contro le importazioni di prodotti tessili dalla Cina sono l’ultimo esempio della sfiducia verso l’apertura al commercio internazionale. Si leggono i dati della bilancia commerciale come se un suo passivo determinasse automaticamente una perdita di benessere. Invece, bisogna guardare ai vantaggi comparati. E alle ragioni di scambio, che per l’Italia sono migliorate. E se il commercio internazionale genera anche rilevanti costi di aggiustamento, non è detto che la politica protezionista sia lo strumento migliore affrontarli.

L’Italia che ignora le norme

Il dibattito sui dazi contro le importazioni di prodotti cinesi mostra che in Italia c’è scarsa conoscenza delle norme sul commercio internazionale. Per esempio, non a tutti è chiaro che la competenza legislativa sulla politica commerciale non spetta ai singoli paesi, ma alla Comunità europea. Che a sua volta deve rispettare gli accordi Wto. Anche per questo si fa fatica a capire che tutte le strategie commerciali devono confrontarsi con un sistema internazionale improntato su regole precise e condivise da gran parte degli Stati della comunità internazionale.

Una Section 201 all’europea

L’Unione europea è uno dei principali produttori ed esportatori mondiali di prodotti tessili e dell’abbigliamento. Preoccupa perciò l’aumento delle importazioni dalla Cina. Nel lungo periodo la liberalizzazione del commercio aumenterà il benessere mondiale, ma resta il problema di come governare la transizione. Negli Stati Uniti, una clausola speciale permette di sussidiare le aziende in crisi a causa dell’improvviso aumento della concorrenza internazionale. L’Europa potrebbe studiare una misura di sostegno simile, fruibile anche dalle piccole imprese.

Se flessibilità fa rima con ambiguità

L’attuale meccanismo decisionale sulle procedure di deficit eccessivo contiene un conflitto di interessi che va a vantaggio dei paesi più potenti e che è destinato ad accentuarsi con questa riforma, che contiene criteri ampi e flessibili. La disparità di trattamento, infatti, si aggrava quando la soglia di maggioranza si abbassa e i voti sono distribuiti in modo meno uniforme. Probabilmente lo scenario sarebbe diverso se nelle decisioni i paesi avessero lo stesso peso, o se la Commissione avesse più voce. I rischi di ambiguità nella nuova versione del Patto sarebbero minori.

Quanto costa la competitività

E’ un luogo comune che le risorse per il rilancio della competitività siano limitate. Perché la competitività si crea attraverso il mercato, con un insieme combinato di riforme strutturali a costo quasi zero. Vale anche per l’Italia, che deve passare a un modello di sviluppo basato sull’innovazione. Punto di partenza è promuovere la concorrenza in tutti i settori e costruire un contesto economico che agevoli cambiamento. Invece di insistere sul sostegno generalizzato alla domanda, sarebbe più utile impiegare le risorse per far fronte ai costi sociali di breve periodo.

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