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Categoria: Energia e ambiente Pagina 43 di 56

Quanto costa la lotta al riscaldamento globale*

Per vincere le resistenze verso le politiche climatiche è necessario limitarne i costi. Partendo da alcuni punti fermi. Sono più efficaci gli strumenti che attribuiscono un prezzo di mercato alle emissioni di gas a effetto serra, come le tasse o i meccanismi di scambio di permessi. Mentre regolazioni o sussidi aumentano gli oneri. Le misure si devono applicare a tutti i gas e a tutte le fonti di emissioni. E devono essere adottate da tutti i grandi paesi inquinatori. Ricordando che bisogna agire presto, entro il 2020.

LA SETTIMANA LUNGA DEI PREZZI*

Un tetto settimanale imposto ai prezzi dei carburanti può rivelarsi inutile e addirittura controproducente, come mostra l’esperienza di altre tariffe predeterminate per periodi più o meno lunghi. Infatti il meccanismo può indurre gestori e compagnie a fissare cautelativamente prezzi artificiosamente alti. Una campagna informativa e una rimodulazione delle imposte sarebbero probabilmente molto più efficaci per scoraggiare i rincari.

LE DUE FACCE DEL CARO-CARBURANTE

Nella periodica polemica sul caro-carburanti si sovrappongano continuamente due diversi aspetti della questione: il livello del prezzo dei carburanti e la sua dinamica. E si mescolano così anche le proposte di intervento. Ma da un’analisi dei dati che metta in evidenza il ruolo e il peso delle varie componenti sotto i due aspetti, si può vedere che la fiscalità pesa in maniera determinante sul prezzo, mentre la razionalizzazione della distribuzione dovrebbe contribuire a rendere più simmetrici i movimenti dei prezzi dalla materia prima al prodotto finale.

GAS: E CHI TUTELA IL CONSUMATORE?

A dieci anni dalla liberalizzazione, il governo pensa a una nuova riforma del mercato del gas. Partendo dalla scadenza dei tetti antitrust. L’idea è di rimuoverli e nel contempo coinvolgere i grandi consumatori industriali negli investimenti in nuova capacità di stoccaggio, permettendogli di partecipare subito alla spartizione della rendita legata alla differenza tra prezzi invernali e prezzi estivi. Ma chi tutela i piccoli consumatori? Il rischio di dar vita a una anti- Robin Tax.

LA RIGIDA PRIMAVERA DEL CLIMA

Ora che gli Stati Uniti hanno faticosamente approvato la riforma della sanità, è probabile che torni all’ordine del giorno la questione del clima e dell’energia, l’altro grande tema del programma elettorale di Obama. Così il negoziato internazionale potrà ripartire. Ma i tempi appaiono ancora lunghi: bisognerà aspettare il 2011 per l’agognato accordo. Intanto, le questioni sul tappeto sono diverse e molto complesse. E i paesi che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto non possono più rimandare decisioni che li traghettino nel post-2012.

DOPO COPENAGHEN FRA TATTICISMI E PROSPETTIVE DI ACCORDO

Fra il 7 e il 18 dicembre 2009 decine di migliaia di delegati, in rappresentanza di governi, organismi internazionali, centri di ricerca o organizzazioni ambientaliste, si sono incontrati a Copenaghen per la quindicesima Conferenza delle parti (Cop15), ovvero dei paesi che hanno aderito alla Unfccc, United Nations Framework Conference on Climate Change.

ACCORDO DI COPENHAGEN, UN PUNTO DI PARTENZA

I lavori preparatori alla Cop15 si erano protratti per tutto il 2009, con l’obiettivo, o quanto meno l’auspicio, di arrivare a una nuova definizione dei limiti di emissione di gas serra, oggi fissati solo fino al 2012.
In realtà, malgrado la rilevante copertura mediatica e la presenza di numerosi capi di stato e di governo, il risultato della Cop15 è stato l’accordo di Copenaghen, un documento non vincolante di cui i paesi, semplicemente, prendono nota, senza sottoscrivere impegni certi.
In particolare l’accordo prevede che:
– il cambiamento climatico rappresenta una delle sfide più importanti del nostro tempo. Viene evidenziato il principio della responsabilità comune, ma differenziata, tenuto conto delle capacità rispettive che ogni paese è in grado di mettere in gioco;
– si concorda sul fatto che sono necessari tagli consistenti delle emissioni a livello globale, come documentato dal quarto rapporto Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), allo scopo di mantenere la temperatura l’aumento di temperatura al di sotto del limite dei 2° centigradi;
– i paesi più sviluppati (Annex I del protocollo di Kyoto) si impegnano a indicare entro il 31 gennaio 2010 gli impegni che intendono assumere per la riduzione dei gas serra entro il 2020.
– tutti gli altri paesi, a eccezione di quelli più poveri, sempre per la stessa data, comunicheranno gli interventi di mitigazione, a livello nazionale, che intendono adottare;
– i paesi più sviluppati costituiranno un fondo di 30 miliardi di dollari per interventi nei primi tre anni e successivamente per ulteriori 100 miliardi per finanziamenti a favore dei paesi poveri e in via di sviluppo per interventi volti al contenimento del cambiamento climatico;
– è prevista la costituzione di un comitato per esaminare ulteriori fonti di finanziamento per questi progetti.

TANTE PROMESSE, MA CONDIZIONATE E INSUFFICIENTI

La prima scadenza dell’accordo di Copenaghen è stata pertanto il 31 gennaio 2010; una scadenza volontaria, a cui non sono associate sanzioni specifiche, ma che costituisce un importante banco di prova per verificare le volontà dei singoli paesi. La sensazione che si trae dalla lettura degli impegni trasmessi sino a oggi alla Unfccc è che la trattativa sia in una fase intermedia, in cui nessuno vuole promettere troppo, o troppo poco, attendendo le mosse degli altri paesi. Una sorta di melina, in cui, a obiettivi minimi di riduzione delle emissioni, si accompagnano promesse di tagli ulteriori, condizionati, però, a un accordo complessivo. L’Unione Europea ha confermato il proprio impegno a una riduzione delle emissioni del 20 per cento al 2020, e condiziona un ulteriore taglio del 10 per cento a un accordo globale; il Giappone si dice disponibile al -25 per cento; la Norvegia potrebbe accettare riduzioni del 40 per cento.
In questo quadro, un ruolo essenziale è giocato da un lato dagli Stati Uniti e dal Canada, e dall’altro dai quattro paesi Basic (Brasile, Sud Africa, India e Cina), caratterizzati da economie in forte crescita. Nel caso statunitense, al momento della Cop15 si riteneva possibile una riduzione delle emissioni al 17 per cento al 2020, ma avendo il 2005 come anno di riferimento (riportando i dati al 1990, la riduzione effettiva è pari al 4 per cento), sulla base di quanto previsto dall’American Clean Energy and Security Act ora al Senato. Un accordo complessivo potrebbe però impegnare gli Usa a riduzioni ben più consistenti: -30 per cento entro il 2025 (circa -15 per cento rispetto al 1990), – 42 per cento entro il 2030, e addirittura -83 per cento al 2050. L’impegno americano sarà vincolante solo all’approvazione della legge che, oltre a definire le riduzioni previste, porrà un tetto alle emissioni e garantirà aiuti federali per le centrali nucleari. I giochi di questa partita interna sono ancora tutti aperti.

Accordi di Copenaghen: impegni confermati e potenziali di riduzione delle emissioni di gas serra

Fonte: elaborazioni su dati UNFCCC

Quanto ai quattro paesi Basic, hanno tenuto un incontro ministeriale a New Delhi il 24 gennaio 2010, al termine del quale è stata confermata l’adesione all’accordo di Copenaghen. I singoli paesi hanno poi proceduto alla comunicazione di azioni volontarie di mitigazione:
– Brasile: riduzione del 36 per cento delle emissioni al 2020 rispetto al livello Bau (business as usual);
– Sud Africa: riduzione del 34 per cento delle emissioni al 2020 rispetto al livello Bau;
– India: riduzione del 20-25 per cento dell’intensità delle emissioni di carbonio al 2020 rispetto ai livelli del 2005;
– Cina: riduzione al 2020 del 40-45 per cento dell’intensità delle emissioni di carbonio rispetto ai livelli del 2005, con un corrispondente aumento del 15 per cento della produzione di energia senza fare ricorso a combustibili fossili e di 40 milioni di ettari della superficie a foreste e di 1,3 miliardi di metri cubi degli stock forestali.
In particolare, sia Cina che India hanno introdotto il concetto di intensità di emissioni, che lega fra di loro gas serra e Pil. In questo modo è possibile conciliare la crescita complessiva dell’economia con riduzioni, anche limitate, nelle emissioni relative di gas serra, seppure queste aumentano in valore assoluto.
Oltre ai quattro paesi Basic, hanno comunicato proprie azioni di mitigazione Armenia, Benin, Bhutan, Botswana, Congo, Corea, Costa Rica, Etiopia, Georgia, Giordania, Indonesia, Isole Marshall, Israele, fYR Macedonia, Madagascar, Maldive, Marocco, Messico, Moldavia, Mongolia, Papua Nuova Guinea, Sierra Leone, Singapore.
Le riduzioni delle emissioni, siano esse confermate (e quindi non soggette a ulteriori verifiche o trattative) oppure condizionate, sono comunque insufficienti a rispettare l’obiettivo di contenere entro i 2 gradi centigradi l’aumento previsto delle temperature. Secondo un rapporto di Climate Interactive, rispetto a uno scenario business as usual che prevede addirittura un aumento di 4,8° C al 2100, le sole riduzioni confermate potranno portare a un aumento di 3,9°C e quelle potenziali a 2,9°C (e cioè a una concentrazione atmosferica in CO2e pari a 725 ppm).
L’accordo di Copenaghen ha comunque il pregio, forse inatteso, di costringere i paesi a scoprire le carte, rivelando impegni che potranno essere rivisti, confermati o migliorati nel corso del 2010.

GLI AIUTI PROMESSI: DOVE SONO FINITI?

Il rispetto della scadenza del 31 gennaio non ha avuto unicamente una valenza formale, ma ha significato in realtà che il processo negoziale è iniziato con la Cop15 di Copenaghen, ma è destinato a continuare durante tutto il 2010, in preparazione della Cop16 prevista in Messico a fine anno.
È però riduttivo concentrare l’attenzione sugli interventi di mitigazione delle emissioni. Nel comunicato successivo all’incontro di New Delhi, i paesi Basic richiedono che siano attivate le procedure di mobilizzazione dei fondi previsti dall’accordo di Copenaghen: 10 miliardi di dollari per il 2010 – e altrettanti per 2011 e 2012, da aumentare fino a 100 miliardi entro il 2020 -, da destinare ad azioni nei confronti dei paesi in via di sviluppo, delle isole minori e dell’Africa. Si tratta di numeri impressionanti, che però, in mancanza di dettagli o specifiche, possono nascondere una realtà ben diversa. Non è chiaro, innanzi tutto, se questi importi comprendano o meno le attività di Cdm, Clean Development Mechanism, con cui i paesi sviluppati possono acquisire crediti di carbonio grazie a progetti di cattura delle emissioni in paesi in via di sviluppo. In teoria questi dovrebbero essere esclusi, poiché quanto stabilito dall’accordo di Copenaghen è aggiuntivo rispetto alla situazione attuale, ma non esistono finora specifiche indicazioni in merito.
Il problema vero consiste proprio nell’individuare e conteggiare correttamente quanto è nuovo e addizionale, e quanto è invece già presente negli attuali interventi di aiuto allo sviluppo. Molti progetti hanno già di per sé, una componente legata al cambiamento climatico, anche se sono indirizzati in modo primario verso la risoluzione di problemi dell’agricoltura, della salute, dell’educazione. Costruire sistemi irrigui o riorientare le produzioni verso specie resistenti alla siccità costituiscono di per sé forme di adattamento al cambiamento climatico. Come è però possibile costruire una contabilità di questi progetti che impedisca doppi conteggi e consenta di mantenere l’impegno di massima fissato dall’accordo di Copenaghen? Chi ne sarà responsabile? Come saranno suddivisi gli importi fra i paesi sviluppati?
I negoziati che si terranno nel corso dei prossimi mesi consentiranno di affrontare e iniziare a sciogliere questi nodi. Come si vede, la partita è ben più ampia e complessa del semplice negoziato sul contenimento delle emissioni di gas serra e del riscaldamento globale.

DALLE PERSONE ALLE COSE (CHE INQUINANO)

Le imposte ambientali sono un terreno ideale se si tratta di spostare una parte non marginale del gettito dalla tassazione sul lavoro ad altre forme di prelievo. Tanto più che molte di queste imposte si prestano a essere prelevate in sede locale, adatte dunque a un fisco più federale. L’impatto potenzialmente regressivo potrebbe essere compensato costruendole in maniera tale da sfruttarne il potenziale incentivante. Una seria riforma fiscale verde potrebbe partire da un aumento delle aliquote dell’ecotassa, il tributo per il conferimento di rifiuti in discarica.

ITALIA A CORTO DI STRATEGIE SUL CLIMA

Dopo la conferenza di Copenaghen sul clima, i ministri europei tornano a dividersi sulle strategie per combattere i cambiamenti climatici. O meglio, il disaccordo è più precisamente sugli impegni quantitativi di riduzione delle emissione dei gas ad effetto serra nel 2020. Ma è davvero rilevante discutere sui numeri? Quanto al governo italiano, non ha mai esplicitamente riconosciuto che le attività umane contribuiscono ad aumentare la temperatura del pianeta e non ha una visione strategica su come affrontare il problema.

LO STRAPPO DI FLOPENAGHEN

Più che per un fallimento, il vertice sul clima di Copenaghen verrà ricordato come un passo decisivo nella diplomazia del G2. Ma si tratta di un accordo discusso, scritto e infine condiviso da solo cinque paesi e poi sottoposto agli altri, che ne hanno preso atto. Apre perciò scenari del tutto nuovi. Quale sarà a questo punto il ruolo delle Nazioni Unite? E quanto tempo sarà necessario all’Europa per reagire con coesione?

TROPPA NEBBIA SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Un libro con un capitolo negazionista sul riscaldamento globale scatena negli Stati Uniti un acceso dibattito. E pone qualche interrogativo, in una battaglia che contrappone voce autorevole a voce autorevole, sul ruolo delle strategie di comunicazione. Quanto agli scienziati, al di là del potere di amplificazione dei media, sembra quanto mai attuale il richiamo all’onestà intellettuale e al rigore.

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