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Autore: Vito Tanzi

Vito Tanzi ha ottenuto il PhD presso la Harvard University. E' stato Sottosegretario all’Economia e alla Finanza del Governo Italiano fino a inizio giugno 2003. Ha insegnato negli Stati Uniti presso la George Washington University e la American University. E’ stato direttore del Dipartimento di Finanza Pubblica del Fondo Monetario Internazionale dal 1981 al 2000. E’ stato consulente della Banca Mondiale, delle Nazioni Unite, dello Stanford Research Institute. Ha pubblicato numerosi articoli e libri. I suoi interessi vertono principalmente nel campo della Finanza pubblica, della Tassazione e della Crescita economica.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Che non si possano separare in vitro la politica e la gestione della sanità è riflessione condivisa da quasi tutti gli interventi, sebbene sia molto differente la valutazione che ne deriva: per taluni dei commentatori è una commistione comunque dannosa, per altri è tale solo laddove la politica è una cattiva politica. La necessità che mi pare significativo mettere in luce nel dibattito attuale è un
chiarimento sulle forme e sulle quote di responsabilità che spettano, appunto, alla politica e alla gestione. Pochi brevi esempi possono essere utili per illustrare il continuum tra decisione politica e decisione gestionale:
1) organizzare il servizio sanitario di una  regione attorno ad un forte baricentro pubblico vs un’organizzazione che apre al massimo grado ai privati è una scelta prettamente politica;
2) la recente decisione della Regione Veneto di rendere facoltativi alcuni vaccini deve spettare anch’essa alla politica, sebbene sulla base di evidenze fornite dal mondo scientifico;
3) la scelta sull’organizzazione logistico – territoriale di una azienda sanitaria spetta al suo management, avendo presente gli indirizzi regionali in materia;
4) la scelta sullo sviluppo del personale interno a un’azienda o sugli acquisti di fattori produttivi e tecnologie spetta al management, semmai ascoltati i suoi tecnici di settore.
La valutazione di questi quattro comportamenti cambia in base al coinvolgimento della politica nella decisione. È importante che questa distinzione sia netta, perché solo se la politica non si occupa della gestione (i punti 3 e 4) è legittimata a valutarla e ad assumere comportamenti conseguenti; quando la politica invade il campo della gestione, la valutazione diventa difficile, opaca. L’esempio è proprio quella del medico, capace ma vicino all’assessore: più capace o più vicino all’assessore? Difficile giudicarlo.
Certo rimangono aree di decisioni intermedie e condivise (il punto 2) e mai sarà possibile separare totalmente i due ambiti. Ma operare un chiarimento sul lato della gestione è materialmente possibile e opportuno.

STRATEGIA DI LISBONA E MODELLI DI WELFARE

L’Unione Europea non riuscirà a divenire l’economia più competitiva del pianeta se non riduce significativamente gli attuali livelli di tassazione, necessari per finanziarie i costosi welfare state, e il ruolo dello Stato nella regolazione dei mercati. In un mondo sempre più globalizzato e con una competizione crescente servono reti di sicurezza che proteggano i lavoratori più esposti ai rischi del cambiamento. Ma che non possono essere i sistemi di protezione sociale pensati nel secolo scorso. Ne occorrono di nuovi, più efficienti e più amici del mercato.

La cultura (economica) che fa la differenza

Nel lungo periodo il grado di alfabetizzazione economica della popolazione influenza l’andamento dell’economia del paese. Perché da esso dipende il consenso dell’elettorato a riforme strutturali. Tanto che spesso le cattive politiche sono popolari, mentre quelle buone ricevono ben scarso sostegno. E infatti il populismo si fonda sull’ignoranza di concetti economici di base. Non ne sono esenti gli stessi uomini di governo. In particolare in Francia e Italia, c’è bisogno di politici “economicamente colti”. Sull’esempio del Cile degli ultimi anni.

Un’economia con meno Stato

Se le possibilità di misure una tantum si sono ridotte e se l’elasticità del sistema fiscale è diminuita, come si può correggere il disequilibrio nei conti pubblici italiani? Questa è la domanda fondamentale per il governo di oggi e per quelli del futuro, non importa se di destra o di sinistra. Se non ci sono molti spazi per ridurre la spesa pubblica, la sola via di uscita è una manovra per aumentare la pressione fiscale. Ma forse sarebbe meglio seguire l’esempio di altri paesi e ridisegnare il ruolo del settore pubblico nell’economia. Riducendolo.

L’euro, l’inflazione e il Comitato

In una economia di mercato l’eccessivo aumento dei prezzi è impedito dalla libera concorrenza, unita a una politica monetaria adeguata. E infatti tra le competenze del Comitato euro non c’era nessun riferimento al controllo dei prezzi, né avrebbe potuto essere diversamente. Più che continuare a discutere degli effetti dell’euro sull’inflazione, dovremmo preoccuparci di eliminare gli ostacoli alla concorrenza e aiutare così l’economia italiana a diventare più efficiente e competitiva.

I rischi della Golden Rule

Investimenti in grandi opere e ricerca fuori dalla spesa pubblica e quindi dai vincoli imposti dal Patto di Stabilità: è una ricetta che non garantisce il rilancio dell’economia, come dimostra il caso-Giappone. Può diventare invece un’ottima scusa per abbandonare il rigore nei conti pubblici. Perché la “regola d’oro” funziona bene solo se la si applica come nel Regno Unito, ovvero mantenendo la sostenibilità della politica fiscale.

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