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Autore: Pietro Manzini

manzini Professore ordinario nel Diparimento di Scienze giuridiche dell'Università di Bologna, insegna Diritto internazionale e globalizzazione e Competition Law and Economics. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Diritto dell’Unione europea ed è stato Visiting scholar nell'università di California a Berkeley. È stato referendario presso la Corte di giustizia dell'Unione europea e ha svolto attività di assitenza legale, come avvocato e come esperto nazionale distaccato, per la Commissione europea.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Commento: Vi è il rischio di accesso alle professioni senza laurea.
Risposta: No! Nella mia proposta ho subito chiarito che il profilo abilitativo della laurea va lasciato così com’è: non è lì il problema.

Commento: Non sarebbe meglio stabilire che la laurea sia un requisito necessario per l’accesso ai concorsi pubblici, ma lasciare che la valutazione sia incentrata interamente sulla prova concorsuale?
Risposta: Vedrei questa soluzione come un second best, almeno si eviterebbe la scandalosa prassi attuale, in base alla quale i laureati provenienti dalle università selettive, che quindi spesso hanno punteggi di laurea non alti, sono superati dai candidati provenienti dalle università non selettive, che regalano i 110 e lode.
Tuttavia si rifletta che: a) incentrare tutta la valutazione sulla prova concorsuale implica un aumento dei costi amministrativi (la prova deve essere, infatti, articolata, ben congeniata e ben calibrata), b) la prova unica aumenta il rischio di risultati casuali: con una valutazione ‘one shot’, la fortuna/sfortuna diventano elementi condizionanti; c) nonostante l’accuratezza della prova concorsuale, il risultato della valutazione sarà molto più veritiero se si tiene in adeguata considerazione il curriculum di studi del candidato, curriculum fondato su una preparazione di 3 o 5 anni e basato sul risultato di 15-25 diversi esami. Perché rinunciare a valutare questi dati?

Commento: Nessun ranking può valutare con precisione il valore delle Università.
Risposta: Vero solo in parte. E’ certo che tutti i parametri utilizzabili sono discutibili (e concordo sulla artificiosità della classifica stilata dall’Università di Shangai). Tuttavia, tutte le classifiche più accreditate si fondano su parametri difficilmente contestabili, quali la produzione scientifica dei docenti, il rapporto del numero docenti/studenti, le performances degli studenti nel corso di studi, ecc. L’applicazione del complesso di questi parametri consente una valutazione abbastanza veritiera del valore delle singole Università. Chiunque insegni può testimoniare, ad esempio, che il ricercatore che pubblica molto è mediamente più preparato, dedicato e capace di trasmettere il sapere di quello che pubblica poco o niente. Che avere 20 studenti a lezione consente di fornire una preparazione migliore rispetto all’ipotesi di averne 200, ecc
Ma c’è un punto che deve indurre ad accettare definitivamente lo strumento del ranking. Mentre in Italia stiamo ancora discutendo del valore delle classifiche, il resto del mondo le usa senza problemi e giudica le nostre università altrettanto bellamente. E’ quindi inutile far finta che non ci siano o che non funzionino. Nel mondo già ampiamente globalizzato dell’istruzione superiore, per gli studenti sarà indifferente studiare a Parigi, Cambridge o Madrid piuttosto che a Padova o Bologna (anche dal punto di vista economico). E la scelta verrà fatta sui ranking. 

Commento: Potrebbe esservi il caso che il capace e il meritevole, per ragioni economiche, non può iscriversi ad una lontana università di serie A, ma deve accontentarsi di quella sotto casa, di serie B.
Risposta: con l’incremento del flusso di risorse a beneficio delle università migliori, queste ultime possono realmente (e non a parole, come avviene adesso) predisporre delle borse di studio per i meritevoli. Ciò peraltro è nell’interesse delle università in questione perché studenti bravi aumentano le performances e dunque migliorano la posizione nel ranking.
A parte questo, inviterei chi paventa la prospettiva a valutare la cosa anche sotto una diversa angolatura. Continuare, per ragioni economiche, la finzione della parità di preparazione consentita dal valore legale del titolo, aiuta chi si è laureato in medicina nell’Università di serie B ad entrare, ad esempio, nell’USL, ma non aiuta affatto il paziente di quella USL il quale, data la posta in gioco, preferirebbe di gran lunga un medico laureato di un’Università di serie A. In proposito credo che sia ora di guardare alle esigenze dei servizi pubblici dal punto di vista del ‘pubblico’ e non solo dalla prospettiva individuale di chi deve trovare un lavoro, costi quel che costi (al paziente).   

Commento: La proposta è di stampo dirigista e complicata da attuare.
Risposta: La proposta non è dirigista: la PA è libera, per ciascun concorso e a seconda delle sue esigenze, di assegnare il peso relativo del ranking, e il peso relativo della posizione delle università nel ranking. E non è nemmeno complicata: già oggi, in taluni casi, la PA compie con facilità una operazione analoga, consistente nell’assegnare diversi punteggi concorsuali a seconda del diverso punteggio di laurea. Inoltre le particolari esigenze del posto bandito possono trovare spazio adeguato nella prova concorsuale, che non si propone di abolire. Per riprendere l’esempio fatto dal Prof. Figà Talamanca, se per la posizione lavorativa posta a bando è preferibile un matematico esperto di analisi numerica, anziché geometria algebrica, perché non proporre un problema di analisi numerica nella prova concorsuale? L’ammissione al concorso anche di laureati in ingegneria o in informatica mi trova completamente d’accordo, ma non è in contrasto con l’attribuzione di uno specifico peso dell’Università di provenienza.

IL TABU’ DEL VALORE LEGALE DELLA LAUREA

Un provvedimento sarebbe cruciale per l’università italiana: l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Vi ruotano attorno aspetti finanziari, reclutamento dei meritevoli ed efficienza complessiva del sistema. Eppure, né il decreto governativo né la proposta dell’opposizione lo affrontano. Anche perché, si dice, non esiste nessuna norma che lo preveda per le lauree e quindi non vi è niente da abrogare. Non è proprio così, ma non c’è alcun serio problema tecnico né alcun costo per la sua eliminazione. Solo un formidabile ostacolo, di natura politica.

DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI AIUTI DI STATO

Gli aiuti al settore finanziario applicano e non derogano le regole del Trattato. Il Consiglio europeo ha sottolineato l’eccezionalità della situazione e ha previsto alcune esplicite e dettagliate condizioni. L’accesso agli aiuti deve essere non discriminatorio, ma aperto a tutte le istituzioni finanziarie costituite nel territorio, a prescindere dalla loro nazionalità. L’aiuto deve essere temporaneo e strettamente funzionale alla durata della crisi e proporzionato anche dal punto di vista quantitativo. Insomma, in questo campo le regole ci sono. E sono buone.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

La democrazia in Europa

La tesi del dissenso disinformato dell’Irlanda sul trattato di Lisbona ha attirato diversi commenti, molti di adesione, ma anche molti di critica. Ringraziando tutti i lettori, cercherò di fornire qualche risposta ai critici

Valutate nel loro complesso le osservazioni critiche mi pare possano essere raggruppate in due filoni.

A) Non tiene il presupposto centrale della tesi sostenuta, vale a dire l’impossibilità di porre la questione della ratifica del trattato d Lisbona ad un referendum, per l’inevitabile complessità e lunghezza della materia oggetto del trattato. Anzi, gli irlandesi sono una frazione infinitesimale di europei che si sono pronunciati contro l’Europa, per il solo fatto che sono gli unici che sono stati messi nella posizione di esprimersi. Se referenda fossero stati indetti in tutti i 27 paesi, probabilmente il no sarebbe espresso dalla maggioranza dei cittadini.
B)  Le politiche europee, molte delle quali non piacciono (allargamenti improvvidi, dumping sociale, euro, politiche commerciali eccessivamente liberiste, ecc), sono decise da ‘tecnici’, ovvero ‘oligarchie’ più o meno illuminate, e i cittadini non hanno (o hanno scarsissimo) diritto di parola. Dunque ben vengano i referenda e i conseguenti esiti negativi. 

Proverò a dimostrare che entrambe queste osservazioni non sono molto solide.
Per quanto riguarda la posizione sub A) posso tranquillamente ammettere che se proponessimo ai cittadini un quesito referendario analogo a quello sottoposto agli irlandesi, la maggioranza degli europei risponderebbe come questi ultimi. Il quesito nella sostanza era questo: “volete voi accettare un trattato incomprensibile il cui eventuale rifiuto non cambia nulla nelle vostre vite?” Occorre un bella fede europea per rispondere sì.
Ma perché non proporre invece un quesito di questo genere: “volete voi denunciare i trattati europei, sostenendo i costi della non-Europa?” A me sembra che anche questo sia un modo del tutto legittimo e più esaustivo di interrogarci sull’Europa. In questa maniera ci domanderemo seriamente se siamo disposti ad abbonare quella casa comune che ci garantisce benessere e pace da 60 anni. Se siamo disposti ad abbandonare le regole sulla tutela dei consumatori, della concorrenza, dell’ambiente, dell’educazione, della sanità, della ricerca, del sostegno all’agricoltura, della distribuzione di fondi strutturali di cui, ad esempio, Italia e Irlanda, hanno ampiamente usufruito negli ultimi 30 anni.
Forse saremmo meno sicuri anche su questioni a cui oggi risponderemo con un no secco. Ad esempio, l’abbandono della politica commerciale comune ci farebbe riacquistare la sospirata sovranità commerciale ma, Stati Uniti e Cina, invece che con il gigante Unione europea, si troverebbero a poter trattare con 27 nanetti (alcuni dei quali praticamente invisibili dal punto di vista economico) che giocano separatamente e contraddittoriamente. Un buon risultato?
Insomma a seconda della domanda che si pone ai cittadini, e del dibattito che ne segue, credo che l’esito di un referendum possa essere molto diverso e questo conferma la tesi che esso non è uno strumento idoneo per decidere su un tema complesso e articolato come l’Europa. Su questo tema devono deliberare i Parlamenti, posto che questi sono eletti dai cittadini proprio con il compito di prendere decisioni tecnicamente complesse e politicamente delicate, e soprattutto lontano da suggestioni populiste.

Vengo alla critica sub B) secondo la quale in Europa le decisioni sono prese in maniera non democratica da euro-burocrati. Non è affatto così.
Come è (o dovrebbe essere) ampiamente noto, i grandi orientamenti politici europei sono decisi dal Consiglio di Capi di Stato e di Governo, dove siedono i responsabili politici degli Stati membri (per l’Italia, il nostro Primo Ministro). Tali orientamenti vengono tradotti in proposte dalla Commissione europea. Questo organo, peraltro nominato dai governi nazionali, è effettivamente quello in cui operano i c.d. euro-burocrati, ma il punto sta che esso non decide nulla in maniera definitiva. Affinché un atto di portata legislativa (regolamento o direttiva) sia adottato, occorre un doppio assenso alla proposta della Commissione: anzitutto è necessario il voto del Consiglio dei ministri degli Stati membri e successivamente occorre il voto positivo del Parlamento europeo. Se uno di questi due organi non è d’accordo, l’atto non entra in vigore.
I ministri che siedono nel Consiglio sono i componenti dei nostri governi e dunque sono soggetti al controllo e alla fiducia dei nostri parlamenti nazionali. Il Parlamento europeo lo eleggono direttamente i cittadini dei paesi europei in base alle singole leggi elettorali nazionali. Quest’ultimo, se il trattato di Lisbona entrerà in vigore, eleggerà il Presidente della Commissione.
In questo quadro, com’è possibile sostenere che qualcuno, a Bruxelles, magari un burocrate senza volto e senza mandato elettivo, decide per noi? Non è piuttosto vero che spetterebbe a noi essere più attenti a cosa fanno a Bruxelles i nostri governi, sostenuti dalle nostre maggioranze parlamentari? Ovvero chiedere conto ai parlamentari europei a cui abbiamo dato il voto? Ovvero tenere a mente, quando sentiamo i nostri politici dire “ce lo ordina Bruxelles”, che in realtà a Bruxelles quelle decisioni le hanno prese loro insieme ai governi degli altri Stati?
Certo, l’Europa ha bisogno di spiegarsi ai cittadini europei e questi hanno bisogno di interrogarsi sull’Europa. Il paradosso è che cittadini europei ed Europa sono la stessa cosa.

IL NO IRLANDESE, UN DISSENSO DISINFORMATO

Per loro stessa ammissione, gli irlandesi hanno votato no al Trattato di Lisbona perché non ne capivano il contenuto. Ma non esiste alcun modo di scrivere le regole della vita comune di ventisette paesi in modo immediatamente leggibile anche per i non esperti. Il problema è aver sottoposto a referendum una tale materia. Tradendo così la logica e lo spirito della moderna democrazia parlamentare. Ora una soluzione potrebbe essere l’entrata in vigore del Trattato senza l’Irlanda. Che dovrebbe uscire da tutto il sistema dell’Unione.

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