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Autore: Paolo De Renzio

Schermata 2014-04-30 alle 18.57.43Paolo de Renzio è Senior Research Fellow presso l’International Budget Partnership (IBP) a Washington, DC, Professore all’Università Cattolica di Rio de Janeiro (PUC-Rio) e ricercatore associato presso l’Overseas Development Institute di Londra. Ha lavorato al Ministero delle Finanze della Papua Nuova Guinea e con UNDP in Mozambico. È stato consulente della Banca Mondiale, dell'OCSE, della Commissione Europea e di varie agenzie e ONG internazionali. Ha un dottorato in Relazioni Internazionali dall'Università di Oxford, un Master in Development Studies dalla London School of Economics, dove ha anche insegnato dal 2006 al 2009, e una laurea in Economia e Commercio dall'Università Bocconi.

Il futuro della cooperazione italiana allo sviluppo Lettera agli On. D’Alema e Sentinelli

L’importanza del ruolo ricoperto dalla cooperazione allo sviluppo nei rapporti internazionali è confermata dai recenti accordi che prevedono un aumento sia della quantità che della qualità dei fondi dedicati alla lotta alla povertà a livello globale. Oltreché un ripensamento sulla loro allocazione e sul loro utilizzo. In Italia la nomina di un viceministro è senz’altro un segnale della volontà del governo di definire un nuova politica di cooperazione. Ma perché la riforma non sia tale solo sulla carta, emergono diverse priorità da affrontare.

Una priorità non riconosciuta

La Finanziaria per il 2007 prevede uno stanziamento per gli aiuti pubblici allo sviluppo di circa 1,5 miliardi di euro, equivalente allo 0,13 per cento del prodotto interno lordo. Lontano dagli obiettivi sottoscritti dal governo italiano. Ma non si tratta solo di quantità. Anche la qualità dei contributi lascia a desiderare. E nei rapporti internazionali che cercano di misurarla il nostro paese figura agli ultimi posti perché gli interventi sono in larga parte costituiti da cancellazioni del debito o da progetti di piccole dimensioni che danno scarsi risultati.

Le coalizioni e la cooperazione allo sviluppo

Le politiche di cooperazione allo sviluppo sono uno strumento importante per promuovere una globalizzazione etica. Nonostante il forte sostegno della società civile, l’Italia ha fin qui seguito un approccio che privilegia la risposta a emergenze umanitarie o politiche, piuttosto che interventi di lungo periodo. Nei programmi elettorali delle due coalizioni non ci sono impegni precisi. Anzi sembra prevalere una certa miopia. La Cdl non affronta neanche il tema. E l’Unione non cita fonti di finanziamento alternative né l’eventualità di creare un ministero.

L’Africa al G8

Raddoppiare gli aiuti all’Africa non è il modo più efficace di ridurre la povertà. Anzi se il G8 dovesse trovare un improbabile accordo su questo tema, per molti paesi africani i problemi potrebbero aumentare. E’ necessario, invece, canalizzare meglio le risorse destinate alla lotta alla povertà. Con impegni concreti dei paesi donatori per l’armonizzazione e l’efficacia degli aiuti, l’adozione di strategie specifiche per ottenerne l’assorbimento effettivo, una maggiore attenzione al rapporto fra aiuti e democratizzazione e a forme di finanziamento innovative.

L’Italia e la Cooperazione Internazionale nel 2005

L’agenda di eventi importanti in materia di cooperazione internazionale e di aiuti allo sviluppo si presenta molto ricca per il 2005. Al centro il dibatitto sulle sorti del continente africano, come ha ripetutamente dichiarato il governo di Tony Blair che vuole porre il tema della povertá e dello sviluppo dell’Africa in cima ai temi del prossimo G8. E l’Italia come si colloca all’interno dei dibattiti che si stanno alimentando a livello internazionale? Non molto bene, sia a livello intellettuale che nella pratica dei fatti.

Globalizzazione e povertà

Ridurre della metà il numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà entro il 2015: È uno dei punti dei Millennium Development Goals. Difficile raggiungerlo, soprattutto se i Paesi ricchi continueranno a “proteggere” i loro mercati, mentre i più poveri eliminano ogni barriera tariffaria. E per una “globalizzazione non selvaggia” sono necessarie anche regole su mercati finanziari e investimenti di lungo periodo.

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