Lavoce.info

Autore: Luigi Guiso Pagina 5 di 9

guiso È professore di Economia all’Einaudi Institute for Economics and Finance, Roma, dopo essere stato professore allo European University Institute, Firenze. È fellow del CEPR e è stato direttore del Finance Program. Gli interessi correnti di studio e di ricerca vertono sui campi dell’economia finanziaria, delle scelte finanziarie delle famiglie, della macroeconomia, dei legami tra economia e istituzioni. Temi recenti di ricerca includono l’effetto della cultura sull’economia e le origini del capitale sociale. Redattore de lavoce.info fin dall’inizio.

Le fondazioni bancarie: una risposta a mucchetti

Lettera al Corriere della Sera

Caro direttore,

Massimo Mucchetti nel suo articolo di sabato 23 ottobre ci arruola al “partito di Geronzi”. La ragione? Un nostro intervento su lavoce.info sarebbe ripreso dal Foglio a sostegno di tesi dell’attuale Presidente di Generali. In questo intervento, coerentemente con quanto pensiamo e scriviamo liberamente da tanto tempo, sosteniamo che: 1) le fondazioni bancarie farebbero bene a diversificare il loro portafoglio per meglio svolgere le loro funzioni sociali; 2) avendo vertici di nomina politica, non dovrebbero nominare a loro volta i consiglieri delle banche, evitando ancor di più di sceglierli tra le proprie fila. Quanto alla nostra vicinanza a Geronzi, invitiamo a leggere su questo sito cosa abbiamo scritto sul curriculum dell’ex banchiere. Non ci risulta che Mucchetti abbia mai dato queste informazioni ai suoi lettori.

Come affondare l’unica banca multinazionale italiana

E’ stato un gesto di irresponsabilità, in cui hanno giocato un ruolo decisivo le fondazioni bancarie, quello che ha portato all’impeachment di Alessandro Profumo senza un sostituto e senza un preciso capo d’accusa. Un nuovo amministratore delegato dovrà essere trovato entro poche settimane, da un consiglio tutt’altro che coeso al suo interno. Bene che si faccia sin d’ora chiarezza sui criteri e le procedure che verranno seguite nel selezionare i candidati. Sarà fondamentale anche rivedere la governance di Unicredit che si è rivelata fragilissima. La lezioni da trarre è che le fondazioni devono uscire dalle banche. Gioverebbe alle banche, alla collettività. E anche a loro.

PERCHÉ IL GOVERNO DEVE RISPONDERE AL MERCATO

C’è molto nervosismo nei mercati che si interrogano sul futuro delle finanze pubbliche dopo la crisi finanziaria e mentre si sviluppa la crisi greca. Gli investitori cercano risposte a due domande: come evolveranno i disavanzi nei paesi con le finanze pubbliche più compromesse nel breve e nel medio periodo? C’è in questi paesi la capacità di mantenere i conti sotto controllo e di sfuggire alle pressioni che la lentezza della ripresa può porre sulle finanze pubbliche? Si cercano rassicurazioni al riguardo. L’Italia esce dalla crisi con un elevato fardello di debito ma un disavanzo controllato, frutto della scelta di non reagire alla crisi accettandone un maggior impatto.  Questo oggi dà un po’ di respiro, ma rimangono i dubbi derivanti dalla mole del debito. Il modo migliore di fugarli è di prendere impegni per rassicurare che le azioni del governo avranno come imperativo stabilizzare i disavanzi e il debito. Oggi la maggior incognita che grava sui conti pubblici dell’Italia riguarda l’impatto del  federalismo fiscale sulle finanze pubbliche. Questo sta disseminando incertezza tra gli investitori e rischia di indebolire l’appetibilità dei titoli del del debito pubblico italiano tra gli investitori. Per evitare questa possibilità il governo ha due alternative: dimostrare (e non semplicemente sostenere) molto rapidamente che l’impatto sui conti pubblici del federalismo è nullo o minimo se non addirittura positivo (come sostenuto a suo tempo dal Ministro Tremonti), sia nel breve che nel medio periodo; oppure, se non è in grado di farlo,  annunciare che quella riforma è rimandata al futuro, a dopo che l’Italia avrà riportato il suo debito sotto il 100 per cento, e adottare rapidamente un piano di rientro vero. Non quello del tutto irrisorio previsto dalla Nota di Aggiornamento del Programma di Stabilità dell’Italia 2010-12.

DUE ANNI DI GOVERNO: ECONOMIA E FINANZA

Come ha agito il governo durante la crisi? È importante stabilire i fatti. La caduta del reddito nazionale dal picco precedente alla crisi al successivo punto di minimo è stata del 6,5 per cento in Italia; nella media dei paesi dell’area dell’euro è stata di oltre un punto più contenuta. In Germania il calo è simile all’Italia mentre in Francia è poco più della metà. I dati della produzione industriale raccontano una storia simile: dal picco al minimo la produzione crolla di un quarto in Italia e Germania e del 20 per cento in Francia e nella media dei paesi dell’euro. L’impatto della crisi è stato quindi altrettanto severo in Italia quanto in Germania e più severo che nella media dell’area dell’euro e in Francia – nonostante l’assenza da noi di fallimenti bancari, verificatisi invece Oltralpe. La scelta del governo è stata di alzare il bavero, aspettare e sperare che la bufera passasse, adottando provvedimenti minimi per fronteggiare l’impatto sul mercato del lavoro (ad esempio con l’estensione della cassa integrazione in deroga: vedi la relativa scheda) e stemperare il rischio di panico sulle banche, con interventi più di natura simbolica che di effettiva sostanza (i cosiddetti Tremonti bond). L’intento annunciato era di evitare impatti sulla finanza pubblica, oltre quelli inevitabili sul rapporto debito/Pil dovuti al calo del Pil e quelli sul disavanzo dovuti agli ammortizzatori sociali. Infatti, in Italia le misure di stimolo fiscale durante la crisi sono nulle, diversamente da Francia e Germania che hanno varato pacchetti dell’ordine di un punto di Pil. Si è quindi scelto di accettare un maggior impatto della crisi per evitare un aggravamento dei conti pubblici in un paese già fortemente indebitato. Alcuni benefici di questa politica si apprezzano oggi guardando alla esperienza della Grecia.
Ma, oltre ad aver evitato di adottare politiche fiscali anticicliche di qualche significato, il governo ha omesso qualunque politica economica. Se il primo atteggiamento aveva una sua ragion d’essere sul piano economico, il secondo è difficile da giustificare. Estendendo lo sguardo all’indietro, al decennio antecedente la crisi, fatto 100 il Pil del 2000, l’Italia perde 6 punti di Pil rispetto alla media degli altri paesi dell’euro e anche rispetto alla Francia; il divario nella produzione industriale è ancora più marcato e supera i 10 punti con la Germania. È come se la sola l’Italia negli otto anni prima di Lehman Brothers, fosse stata colpita da una crisi economica della stessa entità di quella gravissima sperimentata nell’ultimo anno e mezzo. In queste circostanze l’aspettativa legittima era che il governo, già dal suo insediamento avvenuto prima dello scoppio della crisi, varasse un piano di riforme per facilitare la ristrutturazione delle imprese, alleggerirle del peso della burocrazia, incoraggiarne la creazione, migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, dotandolo di istituti propri per facilitare la riallocazione dei lavoratori e quindi la stessa ristrutturazione delle imprese. Misure spesso dal costo nullo per l’erario, ma con effetti rilevanti sui tassi di crescita di medio periodo. Niente di ciò è avvenuto. Ora sembra che le riforme siano ritornate all’ordine del giorno. Ma non è chiaro come quelle di cui si parla – federalismo fiscale, intercettazioni, semipresidenzialismo – possano aggredire il problema economico dell’Italia: evitare che ogni otto anni essa paghi, per l’inerzia della sua classe dirigente, l’equivalente di una grave crisi economica planetaria.

POLI CULTURALI PER IL MEZZOGIORNO

Negli anni 60 e 70 la politica di sviluppo del mezzogiorno fu ispirata dalla teoria dei poli di sviluppo di François Perroux: localizzare una fabbrica (un polo) nell’area da sviluppare in modo che da questa per imitazione ne nascessero altre fino a contagiare l’intero territorio. Il successo di quella esperienza è dibattuto, ma è indubbio che dei risultati li abbia prodotti: anche grazie ai poli oggi il problema economico del Mezzogiorno non è più uno di sottosviluppo ma di sviluppo economico relativo. Riamane però intatto un sistema di valori e di credenze – di cui la scarsa fiducia reciproca, lo scetticismo dell’individuo nei propri mezzi e l’affidamento invece ai potenti per affermarsi sono i tratti più vistosi. Essi ostacolano il dispiegarsi delle energie economiche e impediscono il buon funzionamento della società. Una politica economica ambiziosa e utile dovrebbe oggi proporsi di intaccare e capovolgere quel sistema di valori per consentire
l’affermarsi e il lento diffondersi di un altro fondato sulla fiducia dell’individuo in se stesso e negli altri, il rifiuto del "padrinaggio" e il reclamo del merito come criterio di selezione, la disponibilità a cooperare
e a bandire chi non coopera. Come? Praticando l’idea di Perroux con la creazione di poli "culturali" in cui integrità morale, dedizione agli obiettivi della organizzazione, affermazione dell’individuo, cooperazione
reciproca e premio del merito individuale siano i valori ispiratori. Inizi lo Stato a creare questi poli nelle proprie amministrazioni localizzate nel Mezzogiorno. Non servono soldi, solo un grosso sforzo di riorganizzazione e la rinuncia ai benefici politici delle clientele.

SE SPIFFERI IL REFEREE

Il finanziamento della ricerca sulla base del merito scientifico necessita di valutazioni anonime. Poiché il valutatore spesso conosce le persone che sta valutando e ci interagisce per lavoro, solo l’anonimato ne garantisce la necessaria franchezza. È così in tutto il mondo. Il professor Claudio Fiocchi denuncia che mentre valutava alcuni progetti medici per ottenere fondi del MIUR (Ministero dell’istruzione, università e ricerca), il suo nome è giunto velocemente a conoscenza dei valutati, i quali non si sono fatti scrupoli a fargli pressione per coartagli un buon giudizio. Come riportato ieri da Repubblica, il professor Fiocchi informa il MIUR e rinuncia all’incarico. Il fatto è grave. Il danno è duplice. Getta un’ombra sullo sforzo fatto dal Ministero per fare passare un messaggio tanto ovvio quanto rivoluzionario per l’accademia italiana: premiare il merito. Dà ragione a quanti, incapaci di ottenere finanziamenti avanzando un decente progetto di ricerca, hanno cercato di screditare un meccanismo che ambiva ad allocare i fondi di ricerca solo in base alla qualità della proposta, lasciando ad intendere con ironico, sospettoso scetticismo che tanto, alla fine i soldi vanno sempre agli amici degli amici. E’ grave che il nome del valutatore sia trapelato e giunto alle orecchie dei valutati; è grave e disdicevole che questi abbiano esercitato rozze pressioni sul valutatore. Ma l’aspetto più grave della vicenda è che il MIUR abbia ignorato la denuncia di questi avvenimenti fatta dal Professor Fiocchi. Ci si sarebbe aspettata tutt’altra reazione: un ringraziamento per la segnalazione, una pronta rassicurazione sulle azioni che ne sarebbero seguite… Perché questo non è stato fatto?
Il Ministro Gelmini ha con doveroso e benvenuto tempismo annunciato che su questo fatto il Ministero predisporrà un’inchiesta. Chiediamo al Ministro che l’indagine sia rapida e rivelatrice dei meccanismi che hanno dato luogo all’episodio. Ma soprattutto che risponda alla domanda avanzata sopra: perché il MIUR non ha dato seguito alla denuncia del Prof. Fiocchi? Solo un chiarimento di questo punto e l’individuazione di eventuali responsabilità potrà restituire credibilità al MIUR e convincere i ricercatori seri, oggi palesemente dubbiosi se farlo, a continuare ad offrirsi come valutatori negli anni a venire. Nell’attesa che questo avvenga noi oggi comunicheremo al Ministero la nostra temporanea indisponibilità a fare i valutatori dei progetti, pronti a renderci nuovamente disponibili appena il caso sarà chiarito.

NON SCHERZIAMO CON I PREFETTI

Il banchiere fa un mestiere semplice da descrivere ma complesso da attuare: riceve depositi dalla clientela e li dà a prestito alle imprese per investirli e finanziare le attività correnti. La solidità dei risparmi dei clienti dipende dalla solidità degli investimenti effettuati. Non a caso l’odierna crisi finanziaria nasce proprio da un eccesso di prestiti ad alto rischio e da errori nella erogazione del credito. Mettere i prefetti a giudicare sulla concessione dei prestiti è mettere una ipoteca sulla sicurezza dei depositi dei risparmiatori. Poteri di vigilanza e Bce.

QUANT’E’ LONTANA L’ARGENTINA?

Agli analisti del mercato interessa non tanto la dimensione del debito pubblico, quanto la capacità di un paese di rimborsarlo. Ora, il problema dell’Italia è per l’appunto la scarsa crescita. E la vera debolezza della politica del governo è proprio la mancanza di una strategia per superare la recessione e rimetterci su un sentiero di sviluppo sostenuto. Serve un percorso di riduzione della pressione fiscale e della spesa, accompagnato da un piano di investimenti pubblici. L’attuazione può essere graduale, ma le misure devono essere certe, permanenti e ben strutturate.

LA MISTERIOSA STRATEGIA DELL’ON. TREMONTI

La strategia anti crisi dell’Italia è ispirata alla massima cautela: misure dell’ordine dello 0,3 per cento del Pil contro il 7 per cento di altri grandi paesi. Si dice per tener conto del debito pubblico. Ma altrettanto rigore non è stato dimostrato in altre vicende. E’ una situazione paradossale in cui il governo non ha né una politica fiscale proporzionata alla recessione che stiamo attraversando né una di stabilizzazione strutturale del debito. Ci guadagna solo il ministro dell’Economia, che dall’ambiguità vede aumentare il suo potere.

GRAZIE CINA?

Mentre si discetta su come venire fuori dalla recessione incombente e si guarda al prossimo incontro di Washington del 15 novembre prossimo dove secondo Sarkozy dovranno essere prese decisioni forti, la China ha appena annunciato un piano di spesa pubblica per infrastrutture e spese sociali – nel solco della tradizione keynesiana delle politiche anticicliche – di 586 miliardi dollari (460 miliardi di euro), il 7% del PIL cinese, una cifra enorme. E’ la risposta cinese alla recessione che se minaccia le economie occidentali, colpisce irrimediabilmente quella cinese, causando una forte rallentamento. E’ la conseguenza della globalizzazione: il rallentamento in occidente si riverbera in oriente. Ma qui possono, grazie a finanze pubbliche meno compromesse delle nostre, compensare il calo di domanda estera con una espansione di domanda interna. Questa a sua volta attiverà non solo la produzione domestica ma anche la domanda di importazioni in Cina dal resto del mondo, contribuendo a mitigare la crisi in occidente. Chi ancora ieri biasimava la Cina come causa dei nostri malanni dovrà forse ora ringraziarla.

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