Lavoce.info

Autore: Carlo Milani Pagina 4 di 5

milani
Economista, data scientist, consulente indipendente su tematiche finanziarie e macroeconomiche. Collabora con primari istituti di ricerca economica italiani. E’ inoltre docente a contratto presso l’Università degli Studi Roma Tre e redattore del sito di informazione finanziaria del Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano, www.finriskalert.it. Svolge prevalentemente la sua attività di ricerca nel campo del banking, ambito nel quale ha pubblicato diversi studi su riviste nazionali e internazionali. E’ autore del libro “Alle radici della crisi finanziaria. Origini, effetti e risposte” (Egea Editore).

Il Web nel futuro della politica

Il web è uno strumento attraverso cui semplificare la vita delle famiglie e delle imprese riducendo i costi connessi con la burocrazia. Ma per la digitalizzazione della vita politica e sociale nel nostro paese c’è ancora molto da fare. La bassa diffusione della partecipazione politica attraverso Internet fa ipotizzare che il successo del M5S non sia da attribuire solo agli elettori che tendono a informarsi e interagire tramite web. In prospettiva, ci sono possibilità di crescita per le formazioni che utilizzeranno la rete come primario canale di relazione con l’elettorato.

L’Italia poco digitale

Il Web Index esprime il grado di sviluppo di Internet e i sui riflessi sull’economia e sulla vita politica e sociale di un campione di sessanta paesi sviluppati e in via di sviluppo: l’Italia è al ventitreesimo posto. Una classifica certamente poco lusinghiera, che peggiora se l’indicatore è messo in relazione con il Pil pro-capite. Ma buona parte della modesta crescita italiana si basa sulle esportazioni. Dunque è cruciale per le nostre aziende utilizzare un canale di vendita come il web. Tanto più se la tecnologia avanza inesorabilmente.

E l’inefficienza del credito si scarica sulle Pmi

Le piccole e medie imprese italiane, il tessuto produttivo su cui si fonda l’intera nostra economia, non devono fronteggiare solo una seconda profonda recessione dopo quella del 2009. Sono alle prese anche con una stretta creditizia. I dati Bce relativi a giugno 2012, segnalano che le Pmi italiane pagano circa quattro decimi di punto percentuale in più rispetto alla media dell’area euro per contrarre un nuovo finanziamento bancario. È tempo che l’industria bancaria italiana riveda finalmente la sua struttura organizzativa.

Il mutuo? si stima con Google

Attraverso l’attività di ricerca dei suoi utenti, Google raccoglie una enorme mole di informazioni. Per alcuni si tratta di un attentato alla privacy dei cittadini, ma questi dati costituiscono anche un’importante fonte di informazioni che può trovare le più disparate applicazioni, compreso l’ambito finanziario. Per esempio, in Italia permette di stimare l’evoluzione della domanda di mutui per l’acquisto di abitazioni. E per i prossimi mesi è previsto un ulteriore rallentamento del mercato.

Ma la banca di Francoforte sa volare

Il commento di Tommaso Monacelli sulle recenti decisioni prese della Bce è, a mio parere, troppo severo. Sicuramente le Borse sono rimaste deluse quando hanno compreso che non avrebbero ricevuto immediatamente in pasto il piano di acquisti dei titoli di stato dei paesi europei in difficoltà, come la Spagna e l’Italia.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

La risposta ai commenti dei lettori mi permette di toccare argomenti che, per motivi di sintesi, non avevo potuto sviluppare nell’articolo.
In primo luogo l’indicatore di competitività considerato, il tasso di cambio effettivo reale aggiustato per il costo del lavoro per unità di prodotto, oltre a essere influenzato dalle diverse quote di mercato verso i paesi che non adottano l’euro e per cui una svalutazione/rivalutazione dei rapporti di cambio determina vantaggi/svantaggi competitivi, è condizionato da altri due fondamentali fattori:

  1. il costo del lavoro. Come sottolineato da alcuni commenti, l’aggiustamento della competitività tra paesi europei potrebbe passare attraverso una variazione del costo del lavoro. Evidentemente pesanti riduzioni dei salari nei paesi in difficoltà avrebbero effetti recessivi. Andrebbero quindi favoriti incrementi salariali nei paesi dell’Europa del Nord, come sottolineato anche dal commento del prof. Aquino,  nei quali la dinamica delle retribuzioni nell’ultimo decennio è stata particolarmente contenuta. Il vantaggio di tale soluzione sarebbe anche quello di aumentare i consumi e le importazioni nelle aree più ricche. In parte questo processo sta già avvenendo in Germania, dove i salari stanno progressivamente spostandosi su livelli più elevati. La velocità di aggiustamento, però, è troppo lenta – stante anche le rigidità salariali che i neokeynesiani tendono a sottolineare (si veda al riguardo il Grafico 1 presentato da Paul Krugman in cui si osserva come i salari nominali, in un paese caratterizzato da un alto dinamismo come gli Stati Uniti, varino con una bassa probabilità) – e non può verosimilmente garantire un riequilibrio competitivo tra i paesi europei;

     Grafico 1

Fonte: Paul Krugman su dati Current Population Survey

  1. la produttività. Un recupero di produttività nei paesi in ritardo di competitività avrebbe notevoli vantaggi. Produrre più beni e servizi, a parità di costi, aiuterebbe la crescita economica, soprattutto nel lungo termine. Il problema è che per raggiungere questo obiettivo vi è la necessità di effettuare notevoli investimenti, su un profilo temporale di diversi anni, sia materiali sia immateriali.
    a. Per quanto riguarda gli investimenti materiali, i paesi dell’Europa del Sud, tenuto conto della situazione dei rispettivi conti pubblici, non possono che fare affidamento sui paesi con la “salute migliore”. A mio avviso, però, l’obiettivo non dovrebbe essere semplicemente quello di inondare di soldi pubblici le economie in difficoltà, così come avvenuto in passato nel caso italiano con la Cassa del Mezzogiorno. Andrebbero, invece, individuati quei “colli di bottiglia” infrastrutturali che bloccano lo sviluppo (un esempio, per il caso italiano, potrebbe essere la Salerno-Reggio Calabria) e su quelli bisognerebbe agire, evitando di disperdere risorse che oggigiorno sono particolarmente scarse. Come ben sottolineato da Alesina e Giavazzi (1), ricoprire di asfalto e di rotaie i nostri territori non aiuterebbe di certo a sostenere la crescita nel lungo termine.
    Investimenti nella ricerca e nello sviluppo, e in particolare nella Green Economy, avrebbero invece maggiori effetti positivi. L’Unione Europea, infatti, dipende fortemente dagli approvvigionamenti energetici effettuati all’estero, quindi trovare fonti di energia alternative e migliorare l’efficienza dei consumi correnti dovrebbe essere un obiettivo che accomuni gran parte del continente europeo.
    b. Ancor più importanti sono gli investimenti immateriali. Migliorare il funzionamento delle macchine burocratiche, della giustizia, semplificare le norme e gli iter parlamentari attraverso cui queste vengono prodotte, sia a livello nazionale che europeo, produrrebbe dei benefici notevoli in termini di produttività. Si pensi solo al tempo che potrebbe risparmiare un imprenditore italiano in una controversia legale, che oggi necessita mediamente di ben 1.300 giorni per concludersi, se l’efficienza della giustizia civile nel nostro paese si adeguasse a quella delle migliori esperienze europee (in Lussemburgo, ad esempio, i tempi medi della giustizia sono poco superiori ai 300 giorni).

I singoli Stati europei attualmente in crisi, non sono però attrezzati, sia sul piano economico sia, soprattutto, politico, per ottenere risultati importanti e duraturi in termini di produttività. Solo un’Unione politica, in cui i paesi dell’Europa del Nord esportino, senza ostacoli legali a miopi nazionalismi, le loro capacità nel gestire e amministrare la cosa pubblica, potrebbe raggiungere nel medio-lungo termine questo obiettivo.  
Alcuni però potrebbero obiettare, usando le parole di Keynes, che nel lungo termine saremo tutti morti posto che la speculazione nel frattempo avrà spazzato via Stati europei, banche e l’euro stesso. In realtà se ci fosse la volontà politica di andare effettivamente verso l’Unione tra gli Stati europei la speculazione potrebbe essere facilmente sconfitta. Nel brevissimo termine, infatti, alla Bce potrebbe essere dato il mandato di salvare l’euro costi quel che costi, anche in termini di inflazione, acquistando sul mercato secondario, senza limiti di importo, i titoli di Stato di paesi aderenti all’Area euro oggetto della speculazione finanziaria. Già questo semplice mandato costituirebbe un fortissimo deterrente per gli speculatori che vedrebbero l’Area euro, nel suo complesso, come un pesce troppo grosso da poter essere mangiato.
Passata questa fase emergenziale l’emissione di Eurobond permetterebbe alla Bce di tornare a svolgere il suo ruolo di controllore attento dell’inflazione. La condivisione dei debiti pubblici tra tutti i paesi dell’Unione, così come avviene in ogni singola nazione tra aree avvantaggiate e quelle depresse, permetterebbe di rendere sostenibili i debiti pubblici accumulati in questi anni.
Per concludere con un’altra metafora marinaresca, allo stato attuale è come se stessimo facendo il viaggio di Cristoforo Colombo a ritroso: due delle caravelle sono pressoché affondate, ne rimane solo l’ultima e la speranza di poter finalmente vedere all’orizzonte gli Stati Uniti d’Europa.

(1) Alesina A. e F. Giavazzi, La direzione è sbagliata, Corriere della Sera del 6 giugno 2012

CHI RISCHIA DI AFFONDARE NEL MARE IN TEMPESTA

Se si osserva la dinamica del tasso di cambio effettivo reale basato sui costi del lavoro per unità di prodotto, la dissoluzione dell’Eurozona appare inevitabile. Per Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, c’è stata una continua perdita di competitività dall’introduzione dell’euro. Ma a giudicare dall’andamento dei Cds, la rottura dell’unione monetaria non sarebbe un affare per nessuno. Gli investitori finirebbero per abbandonare anche la Germania. L’alternativa è una maggiore integrazione politica, con trasferimenti di risorse dalle zone floride verso quelle in difficoltà.

Il CREDITO SCOMPARSO

La stretta creditizia in Italia è confermata dai dati più recenti della Banca d’Italia. A marzo, i prestiti alle imprese non finanziarie sono rimasti fermi, in rallentamento quelli alle famiglie. Una situazione condivisa con altri paesi in difficoltà, mentre aziende e famiglie del Nord Europa non subiscono le stesse restrizioni. Il sistema bancario italiano dovrebbe prestare una maggiore attenzione all’economia reale. Per interrompere quel circolo vizioso che porta aziende solide, ma illiquide, al fallimento, con conseguente peggioramento delle sofferenze. 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Molti tra i commenti lasciati dai lettori di lavoce.info all’articolo “Le sofferenze delle banche. E quelle delle imprese” hanno un filo comune quindi preferisco rispondere cumulativamente piuttosto che singolarmente. Alcuni lettori hanno evidenziato come il comportamento delle banche sia ragionevole, o comunque giustificabile dal contesto economico. Altri hanno invece posto in evidenza come nella fase più recente alcuni banchieri abbiano di fatto trascurato il loro importante ruolo di selezione degli imprenditori, e delle imprese, degni di finanziamento.
I dati a disposizione sulle sofferenze, e quelli sull’andamento dei finanziamenti che saranno presentati in un prossimo mio articolo in via di pubblicazione su lavoce.info, evidenziano, a mio avviso, come la seconda tesi sia la più plausibile. La crescita dell’incidenza del rapporto tra sofferenze su impieghi è infatti dovuta più alla flessione del denominatore, piuttosto che a quella del numeratore. Le indagini campionarie condotte presso le imprese, soprattutto di minore dimensione, pongono inoltre in evidenza come sempre più imprese si vedano rifiutare del tutto o in parte le richieste di finanziamento. Gli ultimi dati indicano che più della metà delle PMI italiane ha subito un razionamento del credito. Ciò indica che alle tensioni sul rischio di credito le banche hanno reagito restringendo i finanziamenti. E’ questo un comportamento stupido o masochista privo di qualsiasi logica? In realtà, purtroppo, la logica c’è ed è, come spesso accade in ambito finanziario, esclusivamente di breve periodo. Per rimettere in sesto i conti economici molti istituti di credito, infatti, stanno preferendo la strada della finanza piuttosto che quella del credito. E’ paradossale che dopo essere stato posto in evidenza, da molteplici commentatori, che il nostro sistema bancario è uscito “incolume” dal crollo della finanza internazionale, dopo il default Lehman, grazie al fatto di aver “giocato” poco con i titoli finanziari, adesso invece la strategia dei banchieri nostrani sia proprio quella di speculare sui titoli di Stato italiani. La liquidità offerta dalla Bce, ad un tasso dell’1%, è servita soprattutto per acquistare titoli di Stato che offrono rendimenti ben più alti (si veda Dove va la liquidità delle banche italiane? e Quando i titoli zavorrano le banche). Quindi piuttosto che finanziare le imprese, correndo il rischio di selezionare quelle destinate inesorabilmente al fallimento, i banchieri preferiscono non correre alcun pericolo nel breve termine e investire nei titoli di Stato. Ovviamente questa strategia è miope e nel medio-lungo termine può portare a risultati disastrosi, soprattutto se a seguito del razionamento del credito imprese solide, nel senso che possiedono alte capacità imprenditoriali e produttive e forti potenziali di crescita, siano eliminate dal mercato solo perché in questa fase di crisi della liquidità non sono riuscite a trovare sufficienti fonti di finanziamento.

LE SOFFERENZE DELLE BANCHE. E QUELLE DELLE IMPRESE

I dati segnalano una continua crescita dei crediti bancari in sofferenza. Le banche rispondono, da una parte, con politiche di accantonamento meno rigorose rispetto al passato; dall’altra, con restrizioni del credito. Imprese solide, ma illiquide, vengono così portate al fallimento in un circolo vizioso che, alla fine, incrementa ancora le sofferenze bancarie. Fondamentale che i banchieri  tornino a selezionare con giudizio chi è meritevole di essere finanziato, perché ha un progetto imprenditoriale valido, e chi, invece, non ha più possibilità di competere sul mercato.

Pagina 4 di 5

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén