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Autore: Alberto Martini

Ha conseguito il Ph.D. in Economics all'University of Wisconsin-Madison nel 1988. Ha lavorato a Mathematica Policy Research, occupandosi di esperimenti nel campo delle politiche sociali, e allo Urban Institute, dove si è occupato di valutazione di riforme di welfare e di modelli di microsimulazione. Dal 1998 è Professore associato di Statistica Economica presso l'Università del Piemonte Orientale ed è Direttore di Progetto Valutazione. Nel 2001-2002 è stato presidente dell'Associazione Italiana di Valutazione. È stato consulente della Banca Mondiale, della Commissione Europea (DG Regio) e dell’Invalsi. Si occupa di temi relativi alla valutazione degli effetti delle politiche pubbliche, in particolare di istruzione e di politiche attive del lavoro, e dal punto di vista metodologico dell’utilizzo della randomizzazione, di cui è stato uno dei primi sostenitori in Italia.

Se la valutazione si fa con i fichi secchi

Governo e fondazioni bancarie hanno costituito un “Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile”. L’accordo prevede la valutazione puntuale di andamento, risultati ed effetti delle attività intraprese. Una buona notizia. Peccato che per i valutatori non sia previsto alcun compenso.

Fondazioni bancarie troppo spesso “infallibili” sulle questioni sociali

Il dibattito che non c’è stato

A Tiziano Vecchiato [Nella lotta alla povertà un ruolo per le fondazioni bancarie] va riconosciuto il merito di avere attirato l’attenzione sulle fondazioni di origine bancaria al di fuori di questioni di nomine e di partecipazioni azionarie nelle banche. Sull’(in)opportunità di nomine e partecipazioni si è discusso ampiamente e ritornarvi toglierebbe solo spazio al tentativo di avviare un dibattito su una diversa questione: sulla base di cosa, attivando quali meccanismi e giudicando quali esiti, le fondazioni decidono di spendere le risorse loro affidate.
Il problema sociale sollevato da Vecchiato riguarda la possibilità di “attivare” gli adulti abili al lavoro e beneficiari di un futuro reddito minimo; ci troviamo in accordo con il fatto che questo sia un elemento essenziale nel disegno di una misura universale di contrasto alla povertà. Siamo meno d’accordo con l’altra tesi avanzata da Vecchiato, ossia che le fondazioni di origine bancaria siano adatte e pronte per un ruolo di leadership nell’innovazione sociale.
La questione di cosa le fondazioni fanno non è stata finora oggetto di grandi dibattiti pubblici, ma la situazione potrebbe cambiare rapidamente. Potrebbero trovarsi presto a svolgere anche ruoli molto delicati – una sorta di Wolf Foundation – per provare soluzioni nuove ad alcuni dei più difficili da risolvere problemi sociali. Ad esempio, il recupero educativo dei minori inseriti nel circuito penale (per i quali la legge di stabilità 2016 prevede iniziative finanziate da un fondo alimentato dalle fondazioni). Oppure l’attivazione al lavoro degli adulti beneficiari di reddito minimo, un’idea abbracciata con entusiasmo da Vecchiato quando afferma che “(…) dove altri non sono riusciti, possono farcela le fondazioni di origine bancaria, perché in questi anni si sono misurate con l’innovazione, mettendo in relazione gli investimenti con i risultati, impegnandosi a valutare gli esiti e l’impatto sociale”.
Pur avendo stima per molto del lavoro svolto dalle fondazioni bancarie negli anni, temiamo che questo tipo di investitura in bianco, in un paese sempre alla ricerca di un qualche deus-ex-machina, possa trasformarsi in un boomerang. Soprattutto se si tiene presente che spesso si trascura un’importante considerazione sull’idoneità delle erogazioni delle fondazioni a incidere sui problemi sociali: un tipo particolare di avversione al rischio, che nel caso delle Fob si manifesta come ritrosia ad ammettere di aver finanziato progetti che si sono rivelati un insuccesso. Nei bilanci sociali o di missione delle fondazioni è difficile, se non impossibile, trovare riferimenti a “programmi che non hanno funzionato”, a “soluzioni promettenti poi rivelatesi inefficaci”. Sembra quasi che le fondazioni siano infallibili.
Peraltro, una forte avversione al rischio pare esistere nelle organizzazioni filantropiche un po’ dovunque, se dobbiamo credere alla netta presa di posizione di un gruppo internazionale di esperti riuniti nel 2011 dalla Rockfeller Foundation per discutere di Risk and Philanthropy. Dalle conclusioni del rapporto apprendiamo che: “I partecipanti all’incontro hanno insistito sul fatto che, per innovare, le organizzazioni filantropiche devono imparare ad accettare l’insuccesso e riconoscere che per ottenere un cambiamento su larga scala una parte delle risorse vadano sprecate. L’occasionale insuccesso deve essere considerato un costo ammissibile dell’innovazione”.
Il problema dell’avversione ad ammettere l’insuccesso è grave: è diffuso, trasversale a ogni tentativo di innovazione, sia scientifica sia sociale, e finisce per distorcere i comportamenti degli attori coinvolti. Gli uni pubblicano solo gli studi riguardanti interventi per i quali si hanno risultati positivi; gli altri spendono le risorse sui soggetti che danno maggiori garanzie di adottare un certo comportamento, anche al prezzo di mirare l’intervento dove c’è meno bisogno.

Il dibattito che dovrebbe esserci

Detto più semplicemente, non ci si può aspettare che le fondazioni sacrifichino tanto volentieri l’abitudine a fare sempre bella figura, in cambio di una sequela di probabili insuccessi. Riteniamo sia urgente un serio dibattito su se e come organizzazioni private con una forte vocazione pubblica, e con un ormai consolidato modus operandi, possano dare risposte rapide ed efficaci ai più difficili problemi sociali del paese. Se questo dibattito si avviasse, le fondazioni potrebbero anche tentare di perdere l’abitudine di documentare solamente quanto spendono per un certo problema o quanti sono i beneficiari, e provare invece a stimare per quanti beneficiari l’erogazione ha fatto la differenza e quanto è costata. Almeno provarci.

Aiuto ai precari? No, regalo alle imprese

Il Governo ha introdotto nuovi sussidi alle imprese per stabilizzare i precari, con 235 milioni di stanziamento. Esperienze passate fanno temere che molte aziende vi facciano ricorso per assumere a tempo indeterminato lavoratori che avrebbero stabilizzato comunque. Anzi, potrebbe crearsi un effetto perverso per cui questa politica finisce per favorire il precariato, invece di combatterlo. Un semplice meccanismo consentirebbe di valutare se i soldi stanziati per la misura sono ben spesi o se si tratta di regali alle imprese. Serve solo un po’ di coraggio per applicarlo.

SONO SOLDI BEN SPESI?

Sono ben spesi i finanziamenti alle imprese per ricerca e sviluppo? I fondi per gli ammortizzatori sociali? Per la sperimentazione didattica? Il libro, di cui pubblichiamo brevi estratti dal primo e quarto capitolo (edito da Marsilio, 184 pagine, 16 euro), illustra le potenzialità della valutazione degli effetti di politiche basata sull’analisi “controfattuale”. Ne presenta gli utilizzi negli Usa, in Germania e Francia. Discute lo stato della valutazione in Italia e della sua arretratezza.

I test standardizzati presi tra due fuochi

Il ministro dell’Istruzione annuncia il ricorso a test standardizzati per misurare le competenze e i progressi degli studenti. E’ una decisione largamente condivisibile, nonostante le critiche degli insegnanti. Ma non certo per le ragioni indicate dal ministro. I test sono un modo per capire e tentare di risolvere i problemi del sistema scolastico sulla base di evidenza empirica su cosa funziona e cosa non funziona. Non possono invece svolgere altri compiti, come ad esempio migliorare la didattica. Né tanto meno la loro adozione si trasforma automaticamente in crescita dell’economia.

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