Il problema del debito non può essere risolto prescindendo dalla ricchezza privata. L’Italia dovrebbe chiedere un contributo a favore della crescita a quelle generazioni che hanno beneficiato di una tassazione del reddito troppo bassa. E dovrebbe mobilitare la ricchezza pubblica verso il credito.
LE DUE FACCE DI UNA MEDAGLIA
Il tempo a nostra disposizione sta scadendo. Bce e Governo Monti hanno risolto una pericolosa crisi di fiducia, ma la calma dei mercati potrebbe presto svanire. I nostri tassi di interesse sono così bassi anche in virtù delle politiche monetarie espansive perseguite da Fed e Bank of Japan. Il rischio è che queste politiche finiscano, visto che fuori dell’Europa la crescita economica è ripartita. Con un rialzo dei tassi, la possibilità di una nuova crisi finanziaria diverrebbe concreta, soprattutto se nel frattempo l’economia italiana non fosse tornata a crescere.
Di fronte al rischio di insolvenza la Bce non potrebbe far nulla, ed è improponibile pensare che gli altri paesi europei accettino di pagare i nostri debiti. Il nostro paese ha sufficienti risorse per farcela da solo. Al netto di debiti pubblici e privati, la ricchezza delle famiglie italiane in rapporto al Pil è tra le più alte dei paesi del G7, quasi sei volte il Pil, per un valore di 8.600 miliardi. Circa 6mila miliardi provengono dal valore delle abitazioni, 1.200 miliardi è costituito da circolante e depositi, il resto da partecipazioni azionarie e fondi di investimento. C’è poi la ricchezza dello Stato, che ammonta a 800 miliardi, dei quali 100 sono diritti di sfruttamento (frequenze, risorse naturali e altro) e partecipazioni azionarie, mentre altri 370 sono costituiti da immobili.
Debito pubblico e ricchezza sono due facce della stessa medaglia. I dati storici possono aiutarci a comprendere la questione. Il grafico qui di seguito paragona l’andamento del rapporto tra spesa pubblica totale e Pil e tra entrate fiscali totali e Pil per l’Italia e per la media dei paesi europei (Ocse).
Si distinguono due periodi. Nel periodo 1970-93 la pressione fiscale in Italia è stata di molto inferiore a quella degli altri paesi europei, mentre la spesa pubblica è esplosa, soprattutto a partire dai primi anni Ottanta. Questo ha causato una forte crescita del debito. A partire dal 1993, invece, spesa e prelievo italiani si sono allineati con quelli degli altri paesi europei, ma in presenza di uno stock di debito elevato.
Durante il periodo 1970-93, la ricchezza degli italiani è molto aumentata, più che duplicata rispetto al Pil. È difficile pensare che l’aumento della ricchezza non sia in parte dovuto alla bassa tassazione del periodo 1970-83 e all’esplosione della spesa pubblica negli anni Ottanta (cui contribuirono un sistema pensionistico molto generoso e gli elevati tassi di interesse ottenuti dai risparmiatori sul debito pubblico). Queste politiche hanno favorito un equilibrio con elevato debito pubblico ed elevata ricchezza privata.
RICCHEZZA E CRESCITA
Il legame tra ricchezza privata e debito non si esaurisce nel nesso causa-effetto. È anche vero che il problema di uno Stato sovraindebitato può difficilmente essere risolto prescindendo dalla ricchezza privata. Esistono due strade. La prima è quella di attendere passivamente il default pubblico. In questo caso, il collasso del sistema bancario e la probabile uscita dell’Italia dall’euro distruggerebbero buona parte della nostra ricchezza, riequilibrando il rapporto fra quest’ultima e il debito. La seconda strada per risolvere il problema del debito prevede invece la mobilizzazione della ricchezza a favore della crescita. Se l’Italia torna a crescere, sia lo Stato che i cittadini sarebbero molto più attrezzati a fronteggiare aumenti dei tassi di interesse.
Oggi l’eccessiva tassazione di lavoratori e imprese e la stretta creditizia fanno pensare che, a politiche correnti, produzione, occupazione e consumi non possano tornare a crescere. Per rimettere in moto la nostra economia, è urgente ridurre marcatamente le tasse su lavoro e imprese, e stimolare il credito.
La riduzione delle imposte su lavoratori e imprese potrebbe essere finanziata aumentando un po’ il peso fiscale sulla ricchezza, mantenendo l’imposizione totale costante. Oggi in Italia il 10 per cento più ricco delle famiglie detiene il 40 per cento della ricchezza netta totale. L’argomento economico standard per cui la ricchezza non va tassata è che esiste già la tassazione del reddito. Ma se ci sono generazioni che hanno beneficiato di tassazione del reddito troppo bassa rispetto al loro consumo, pare corretto chiedersi, anche da un punto di vista di giustizia distributiva, se queste stesse generazioni non possano dare un contributo alla ripartenza della nostra economia.
L’espansione del credito richiede una ricapitalizzazione delle banche. Da una parte, tale ricapitalizzazione può essere facilitata chiedendo agli istituti di credito di riconoscere le perdite sui prestiti pregressi. Dall’altra parte, lo Stato potrebbe scambiare i suoi attivi più liquidi quali le partecipazioni azionarie con partecipazioni nelle banche. Si sente parlare, molte volte a sproposito, del cruciale ruolo dello Stato nei settori “strategici”. Non si capisce quale settore sia oggi più strategico di quello del credito.
Esistono molti nodi irrisolti che una strategia per la crescita deve affrontare. Riduzione e riqualificazione della spesa pubblica, e quindi riduzione generalizzata delle tasse, investimento nell’istruzione dei nostri figli, sburocratizzazione dello Stato, miglioramento della giustizia civile, aumento della competizione nei mercati. Ma queste riforme, per quanto importanti, richiedono tempo, e purtroppo il tempo a nostra disposizione sta scadendo.
Per far ripartire l’economia nel breve, occorre tornare a investire la nostra ricchezza. Redistribuendo la tassazione dal lavoro alla ricchezza privata, e mobilizzando la ricchezza pubblica a favore del credito. Un tale contributo della parte più ricca della nazione darebbe il segnale di un paese che crede nella sua capacità di creare nuova ricchezza attraverso il lavoro, anziché di un paese che si trincera dietro la passiva e illusoria difesa della ricchezza esistente, minacciata dai rischi che incombono sul nostro futuro.
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