Da settembre 2012 la legge fallimentare italiana è stata adeguata agli standard internazionali. Complice la crisi, i numeri delle procedure aperte sono lievitati. Abi, Confindustria e alcuni giudici parlano di abusi. Ma è proprio così? I numeri raccontano un’altra storia. Un meccanismo trasparente.
RIFORME E ABUSI
Le regole sull’insolvenza delle imprese sono un cantiere sempre aperto. Dopo il 2008, in Europa l’attività di riforma delle leggi in materia è divenuta frenetica, poiché in tempi di crisi il sistema economico riesce con più difficoltà a riassorbire le risorse liberate da un’impresa che muore.
Nel 2012, l’Italia ha introdotto nella procedura di concordato preventivo, già riformata nel 2005, la possibilità per il debitore di presentare la domanda di concordato “in bianco”: in sostanza, l’impresa in crisi può mantenere la continuità aziendale mentre elabora, sotto il controllo del tribunale, un piano da sottoporre ai creditori. In un paese come il nostro, a prevalenza di imprese medie e piccole non dotate di una struttura manageriale, la collaborazione del debitore consente spesso di evitare danni ancor più gravi.
La novità, però, fa discutere. Complice l’aggravarsi della crisi, infatti, si è recentemente verificata un’esplosione di domande di concordato. Ciò ha prodotto le lamentele di alcuni giudici, dell’Abi e di Confindustria, dirette, più che contro le nuove regole, contro il loro preteso abuso. (1)
Ma è proprio così? I dati Cerved appena pubblicati, che analizzano i quasi tremila casi verificatisi fino al 31 marzo 2013, raccontano un’altra storia. (2) E poi, soprattutto, a che cosa porterebbe una modifica delle norme?
DOV’È L’ABUSO?
Innanzitutto occorre capire in che cosa consistano gli abusi lamentati, cosa tutt’altro che chiara, e quale sia la loro incidenza in rapporto alle migliaia di casi di imprese in crisi.
Certamente non è un abuso cercare di risolvere la crisi con un concordato preventivo, tanto più che questo non fa venir meno la punibilità dei reati “fallimentari”, che tali restano anche in caso di concordato, come ha dimostrato il caso del San Raffaele di Milano. (3) Né è abuso, in sé, offrire ai creditori una percentuale di soddisfazione bassa, se è comunque meglio del fallimento (nel quale i creditori ottengono in media poco o niente, e con anni di ritardo). Per di più, il concordato dà l’ultima parola proprio ai creditori, che sono liberi di bocciare la proposta, particolarmente quando l’accesso alla procedura è fatto ad arte, per recar loro danno. Anzi, la procedura italiana ha il pregio di fissare tempi brevi, che evitano gli abusi – questi sì – riscontrati all’estero ove, attraverso contrattazioni logoranti, il debitore può estorcere concessioni generose.
L’unico caso di possibile “abuso” – certo non nuovo e certo non solo italiano – è quello della “sindrome della fenice”, in cui il debitore usa il concordato per alleggerirsi dai debiti e ricominciare da zero. Ma su questo abuso il concordato “in bianco” non incide quasi per nulla, nonostante quanto sembri trasparire dalle critiche.
UN MECCANISMO TRASPARENTE
Il concordato “in bianco”, a prima vista, può parere un nonsenso. Il debitore apre una procedura di risanamento senza avere già pronto un piano a ciò diretto. Il beneficio non è però concesso senza contropartite. In cambio della “protezione” dagli attacchi dei creditori il debitore si sottopone:
a) alla vigilanza del tribunale (che ha ampia discrezionalità al riguardo e può persino nominare ausiliari che sorveglino la gestione dell’impresa);
b) a una rigorosa tempistica delle operazioni: da 60 a 120 giorni, prorogabili di massimo ulteriori 60 (negli Stati Uniti il Chapter 11 concede sei mesi, quasi sempre prorogati). In sostanza, il debitore ottiene temporanea protezione in cambio di trasparenza.
Se allo scadere del termine il debitore non propone un piano ammissibile secondo la legge, il tribunale può dichiarare il fallimento su istanza di un creditore o del pubblico ministero. Altrimenti, la procedura procede e alla fine i creditori votano se accettare o rifiutare la proposta del debitore, spingendolo verso il fallimento.
Il fatto che una parte rilevante (si dice circa la metà) dei concordati “in bianco” si concluda con il fallimento può essere considerato del tutto fisiologico: la fase iniziale della procedura – analogamente a quanto accade in ordinamenti esteri – serve anzitutto a fare chiarezza. E se fare chiarezza porta al fallimento, è meglio che ciò accada prima piuttosto che dopo anni di aggravamento del dissesto.
Il concordato “in bianco” è inoltre realistico: fino al 2012 l’ammissione alla procedura richiedeva – in teoria – la presentazione immediata del piano di risanamento. In pratica, il debitore finiva per essere ammesso comunque sulla base di un simulacro di piano, in attesa che il piano “vero” fosse preparato (e asseverato) dopo. Classica soluzione all’italiana, formalmente rigida, flessibilissima nella sostanza e imprevedibile nell’esito. L’aleatorietà azzoppava, di fatto, l’intera procedura.
Il nuovo meccanismo ottiene tre risultati innovativi.
Primo, si sostituisce un meccanismo opaco con uno trasparente: la situazione dell’impresa emerge – in tempi brevi – e costringe tutti, debitore e creditori (incluse le banche, costrette a far apparire rapidamente le sofferenze nei loro bilanci) a guardare in faccia la realtà di una crisi dura, che morde l’economia reale e costringe a prendere provvedimenti “strutturali”. I dati Cerved mostrano che due terzi delle imprese che hanno fatto domanda di concordato in bianco sono ancora operative e non in liquidazione, e ciò testimonia che l’obiettivo di far emergere prima il dissesto dei conti dell’impresa è stato centrato.
Secondo, il debitore guadagna tempo, ma il suo patrimonio è ormai bloccato a beneficio dei creditori, che lo troveranno intatto anche in caso di fallimento. (4)
Terzo, si limita la discrezionalità del tribunale, assegnando al debitore il diritto di godere di almeno 60 giorni di tempo per elaborare il piano.
Naturalmente, abusi quali quelli paventati erano e continuano a essere possibili. Ma si combattono applicando la legge in modo rigoroso, non vagheggiando improbabili ritorni a un passato in cui l’ammissione al concordato era sovente affidata a meccanismi di negoziazione opaca o alla capacità interstiziale del consulente di grido. Non è un caso che meccanismi simili a quello della domanda “in bianco” si rinvengano nella legislazione della maggior parte degli ordinamenti stranieri, anche quelli meno teneri con il debitore in crisi.
Più utile, per limitare gli abusi, pare lo sviluppo di best practices dei professionisti coinvolti a vario titolo nel concordato, in modo da ridurre il rischio che la scorrettezza di pochi induca i giudici ad atteggiamenti sempre diffidenti, che danneggiano tutti. Fra l’altro, l’istituzione di tribunali specializzati, cui molti si sono opposti, potrebbe agevolare una gestione più efficiente delle crisi.
È LA CRISI, BELLEZZA!
In realtà, il problema è che le imprese in crisi sono moltissime: a essere cresciuti sono anche i fallimenti, non solo le domande “in bianco”. In tale situazione, ogni proposta di modifica delle regole deve valutare le controindicazioni per le migliaia di imprese in difficoltà che hanno necessità di utilizzare – in modo fisiologico – il meccanismo di tutela moderno così faticosamente approntato. Sarebbe grave se, dopo decenni passati a discutere di “fallimento del fallimento”, il concordato riformato fosse oggi vittima del suo stesso successo, testimoniato dal numero di domande di imprese che cercano di salvarsi. Fra l’altro, ancora i dati Cerved dimostrano che a presentare una domanda di concordato sono mediamente imprese più grandi e che nei due anni precedenti hanno avuto un calo di valore aggiunto nettamente minore di quelle che falliscono (-35 per cento contro -89 per cento), e dunque imprese la cui crisi è meno acuta: di questi tempi tutti dovremmo avere a cuore la loro sorte.
Un’ultima osservazione: le regole di gestione delle crisi hanno precisi limiti di efficacia. Possono limitare i danni, ma non riportare in salute il paziente. Non bisogna confondere i danni della crisi in sé con quelli provocati da una sua gestione inefficiente. Il diritto fallimentare è “chirurgia di guerra”: anche se utilizza tecniche sofisticate, difficilmente i parenti saranno contenti del risultato…
(1) L’Abi ha proposto di “intervenire sull’uso distorto dei nuovi strumenti”, che altera la concorrenza “a vantaggio dei disonesti e aumenta la criticità per le banche nell’erogare nuovo credito”. Nella sua relazione del 23 maggio 2013 il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha denunziato una riforma del concordato preventivo che, pur “partendo da un presupposto sicuramente corretto”, sarebbe divenuto sovente nella prassi “una via per scaricare i debiti sulla catena produttiva e continuare, indisturbati, l’attività”.
(2) Osservatorio Cerved su fallimenti, procedure e chiusure di imprese, maggio 2013.
(3) La Corte d’appello di Milano, con sentenza 21 febbraio 2013, ha correttamente annullato una sentenza di fallimento pronunziata dal tribunale di Milano nei confronti di un debitore che aveva ritirato la precedente domanda e poi l’aveva ripresentata avvalendosi della nuova e più favorevole normativa introdotta nel 2012.
(4) Le azioni revocatorie, che consentono di recuperare ciò è uscito dal patrimonio a danno dei creditori, decorrono infatti dalla domanda “in bianco”, e una cattiva gestione durante il periodo di osservazione espone gli organi della società a responsabilità personali.
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