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L’assenteismo frenato dalla paura

La minaccia di licenziamento disincentiva le assenze dal lavoro per malattia? Sembrerebbe di sì perché nelle province dove più alta è la disoccupazione, i lavoratori si assentano dal lavoro nettamente di meno. Differenze tra Nord e Sud e tra grandi e piccole aziende. Sistema di tutele da rivedere.
ASSENZE E DISOCCUPAZIONE
In Italia i costi per le assenze dovute a malattia dei dipendenti privati sono principalmente a carico delle imprese e del sistema previdenziale, mentre i dipendenti non ne sostengono quasi nessuno.
Poiché il datore di lavoro non conosce con certezza lo stato di salute dei dipendenti che si assentano, e senza altri strumenti contrattuali, potrebbe utilizzare la minaccia di licenziamento per scoraggiarli dal non presentarsi al lavoro senza un fondato motivo. In realtà, la minaccia risulta tanto più efficace quanto maggiore è il livello di disoccupazione nell’area il cui il lavoratore è impiegato, come suggerito da una ben nota teoria economica – la teoria dei salari di efficienza.
LA MINACCIA DEL LICENZIAMENTO
In un recente lavoro, usando dati di fonte Inps sui dipendenti del settore privato nel periodo 1985-2002, abbiamo messo in relazione le assenze per malattia di ogni lavoratore con il tasso di disoccupazione a livello provinciale: effettivamente i lavoratori residenti in province con elevata disoccupazione tendono ad assentarsi in misura nettamente inferiore. Per chiarire: in una provincia con un tasso di disoccupazione di 10 punti più alto di un’altra, il tasso di assenteismo – a parità di altre caratteristiche – risulta più basso del 17 per cento.
Ne consegue che i lavoratori delle province meridionali (caratterizzate da più elevati tassi di disoccupazione) fanno meno assenze dei lavoratori delle province centro-settentrionali (con più bassi livelli di disoccupazione). Questa evidenza è abbastanza sorprendente dal momento che numerose analisi empiriche evidenziano come la propensione all’opportunismo sia più diffusa al Sud, mentre al Nord si riscontra un livello di capitale sociale più elevato.
La minaccia è resa ancora più credibile laddove esista un basso grado di protezione dal licenziamento del lavoratore. In Italia la tutela contro il licenziamento è particolarmente elevata, pur con differenze tra imprese con più di 15 dipendenti – ai quali è accordata una forte protezione– e imprese con meno di 15 dipendenti, che godono di minori tutele. Confrontando il comportamento dei lavoratori delle piccole e delle grandi imprese, abbiamo evidenziato non solo che i dipendenti delle piccole si assentano molto meno rispetto a quelli delle grandi aziende, ma che l’effetto del tasso di disoccupazione provinciale è nettamente differente tra piccole e grandi imprese. In particolare, in una provincia con un tasso di disoccupazione maggiore di 10 punti, i dipendenti delle grandi imprese fanno il 12 per cento in meno di assenze, mentre nelle piccole imprese si registra una riduzione del 27 per cento.
Tuttavia, le imprese tendono effettivamente a mettere in atto la minaccia di licenziamento? Secondo la nostra analisi la risposta è senza dubbio positiva: i lavoratori che in un certo arco temporale hanno fatto più assenze hanno anche una maggiore probabilità di perdere il lavoro nei periodi successivi.
Le stesse considerazioni valgono anche per i dipendenti pubblici? La risposta in questo caso è negativa. Usando i dati di fonte Banca d’Italia, troviamo che la relazione tra assenteismo e disoccupazione svanisce: i dipendenti pubblici in province con un più alto tasso di disoccupazione non mostrano una propensione ad assentarsi diversa da quella dei dipendenti che lavorano in province con una più bassa disoccupazione. Il risultato non è sorprendente dal momento che i dipendenti pubblici – essendo virtualmente non licenziabili – non sono affatto influenzati dal rischio di perdere il lavoro e dalle condizioni del mercato del lavoro locale.
I nostri risultati evidenziano come – di fronte a un sistema di assicurazione contro la malattia molto protettivo – il mercato reagisce con meccanismi che in parte annullano l’obiettivo di protezione. Probabilmente un sistema che imponesse qualche costo sui lavoratori che si assentano, redistribuendo i risparmi sotto forma di incrementi salariali per tutti i lavoratori, allenterebbe la minaccia di licenziamento e svincolerebbe la decisione di assentarsi dei lavoratori effettivamente malati dalle condizioni del mercato del lavoro. (1)
(1) Si veda la proposta di Pietro Ichino in A che cosa serve il sindacato, Mondadori, 2005.

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  1. Laura Invernizzi

    Buongiorno si può anche immaginare molto semplicemente che in tempi di crisi finalmente non ci si assenti dal lavoro per malattia “fasulla”..Vi ricordate tutti qualche anno fa i dipendenti Alitalia che in un giorno di sciopero presentarono quasi in massa il certificato medico di assenza per malattia?A quanti di noi sarà capitato negli anni scorsi di conoscere persone che sono a casa in malattia a fare tutt’altro?E poi la smetterei di dare addosso al datore di lavoro sempre e comunque e comincerei a gettare lo sguardo su tutte le forme di lavoro irregolare e nero che ancora nel 2013 non si riesce a debellare..Sogno un sindacato che inizi a tutelare i lavoratori e il loro lavoro , contribuire alla creazione di lavoro e posti di lavoro e che denunci tutte le situazioni irregolari cosiddette in nero.Purtroppo e per fortuna si raccoglie sempre ciò che si semina
    A quando il sistema di qualità che certifichi per ogni nuovo insediamento produttivo il numero di posti di lavoro creati e conservati per tot anni se l’azienda riceve agevolazioni e sussidi?
    Laura

  2. pierfranco

    interessante “… qualche costo ai lavoratori…” All’estero cosa si fa? Come si confronta l’assenteismo pubblico/privato?

  3. Gaetano Massa

    Mi stupisco che un sì rilevante curriculum possa partorire il consueto topolino
    per precisare:
    già oggi i dipendenti pubblici assenti per malattia hanno una decurtazione sullo stipendio per i primi dieci giorni, questo ha fatto si che, alcuni lavoratori, pur malati andassero comunque al lavoro(mi piacerebbe capire se questo ha portato ad un incremento della produttività dell’ufficio o dell’ospedale o dell’asilo nido ec..) se invece si vuole riaffermare la solita solfa che vanno tolti i diritti (e non i privilegi) a chi li ha, così possiamo livellare verso il basso, allora è un’altra questione, per fare ciò ,basta il vecchio caro padrone delle ferriere del secolo scorso e non i democraticissimi giuslavoristi dei nostri giorni
    saluti da un lavoratore che si rammarica di non essere ,purtroppo, sottoposto alla salutere mannaia della licenziamento e della miseria

  4. Massimiliano

    Cari Vincenzo e Daniela, articolo interessante, leggero’ sicuramente il paper.
    Mi vengono in mente due cose: 1) nelle province con maggiore disoccupazione
    il pool degli occupati potrebbe essere piu’ selezionato in base a stato
    di salute e livello di motivazione (se i datori di lavoro osservano anche parzialmente queste caratteristiche ed assumono tenendone conto). Questo potrebbe in parte spiegare la correlazione negativa tra disoccupazione e assenteismo per malattia (vera o presunta); 2) nelle imprese piccole c’e’
    anche piu’ controllo sociale e forse legami piu’ stretti: la mia assenza si nota piu’ facilmente e impone dei carichi di lavoro aggiuntivi al mio collega, con cui ho legami piu’ stretti, per cui l’assenteismo potrebbe essere minore. Mi
    sembra che un confronto tra lavoratori a tempo determinato e a tempo
    indeterminato (magari con eta’ simile) occupati nella stessa impresa, o dello stesso individuo prima e dopo diventare a tempo indeterminato (magari nella stessa impresa) possano rappresentare dei test piu’ diretti della vostra tesi: effetto negativo della probabilita’ (“paura”) di licenziamento sull’assenteismo.
    Non avete dati di questo tipo? Potete fare un “placebo” con solo i lavoratori con contratti a termine? Per questi forse l’interazione unemployment rate * firm size non dovrebbe essere significativa se la vostra tesi e’ vera, essendo entrambi sottoposti alla stessa disciplina di licenziamento (licenziamento=non rinnovo) ed essendo soggetti alla stessa paura (del non rinnovo).

  5. Interessante. Anche se ci sono alcune parti in cui i passaggi logici sono un po’ affrettati (o almeno sembrano tali), forse perché cercate di essere molto concisi.
    In tal senso, una parte che mi sembra un po’ debole (o spiegata in maniera incompleta) è la seguente:
    “Tuttavia, le imprese tendono effettivamente a mettere in atto la minaccia di licenziamento? Secondo la nostra analisi la risposta è senza dubbio positiva: i lavoratori che in un certo arco temporale hanno fatto più assenze hanno anche una maggiore probabilità di perdere il lavoro nei periodi successivi.”
    Qui non dite che tipo di analisi avete fatto. Avete analizzato i dati “individuali” disaggregati o si tratta sempre dei dati relativi agli andamenti delle variabili aggregate nelle diverse aree del paese (come nelle correlazioni precedenti)? Cioè, avete visto che i lavoratori con più assenze sono stati licenziati più di frequente rispetto agli altri, o avete visto che le province dove si fanno più assenze sono anche quelle con licenziamenti più frequenti?
    Magari mi sbaglio, ma mi sembra che nel primo caso, il vostro passaggio dalle premesse alle conclusioni sia abbastanza corretto (anche se comunque potrebbe semplificare un po’ troppo la complessa relazione tra datore di lavoro e lavoratore.. insomma, toglierei quel “senza dubbio” dalla vostra risposta.. io qualche dubbio ce l’ho sempre); mentre nel secondo caso, direi che la correlazione tra i due fenomeni non permette di dire se ci sia un rapporto causale significativo tra le due variabili e, se ci fosse, in che direzione funzioni.
    Rimanendo in questo secondo caso, infatti, la relazione causale potrebbe essere al contrario, potrebbe essere che in una situazione in cui, per vari motivi, ci siano poche tutele e sia più facile venire licenziati (e ci siano una serie di altre condizioni), i lavoratori si “disaffezionino” più facilmente al proprio lavoro e per questo si assentino più di frequente, oppure siano più stressati e si ammalino più spesso, giusto per fare due esempi. Insomma, la maggiore capacità di tradurre la minaccia di licenziamento in comportamento reale, non agisce solo (o per forza) come incentivo per il lavoratore a limitare le proprie assenze (sicuramente non riduce la probabilità di ammalarsi…).
    Inoltre, come già emerge da questi miei esempi un po’ semplificati, potrebbe essere che maggiori assenze e maggiori licenziamenti siano sì fortemente correlati, ma che ci siano altri fattori (non necessariamente facili da misurare) che ne causano l’andamento in un senso o nell’altro.
    Sarebbe utile, pertanto, un’ulteriore chiarimento sulla metodologia di ricerca e di analisi dei dati che avete utilizzato, per capire un po’ meglio se e perché sia possibile o meno scartare alcune ipotesi esplicative alternative.
    Grazie
    Patrizio Ponti
    Collaboratore Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, UNIMI

  6. Altra cosa, la questione di “imporre qualche costo sui lavoratori che si assentano”:
    1. prima di tutto è una soluzione che limita (ovvero pregiudica) i diritti del lavoratore: lasciamo stare i comportamenti da free rider (che immagino siano la stragrande minoranza), e chiamiamo le cose con il loro nome.. se non guadagno quando sono malato, vuol dire che non ho più la malattia pagata (in parte o completamente, cambia dal punto di vista contabile ma non dal punto di vista dei diritti)
    2. il lavoro è un rapporto sociale: cosa facciamo poi, per equità decurtiamo i profitti al datore di lavoro che si ammala…!? Ho paura che non si riuscirebbe a fare..
    3. la soluzione proposta potrebbe avere una serie di effetti perversi: il più evidente è quello di recarsi al lavoro anche se malati. Non ho letto il libro di Ichino ma immagino che una controrisposta sia: il sindacato dovrebbe proprio servire a questo, a far emergere il vantaggio collettivo del seguire tutti una regola che avvantaggia tutti (risparmi e incrementi salariali per tutti). Ho paura che, per funzionare, questo presupponga una serie di ipotesi irrealistiche rispetto alla razioanalità dei soggetti, ma ci vorrebbero pagine e pagine per approfondire. In ogni caso, chi si ammala spesso (diciamo sopra la media) sarebbe comunque incentivato ad andare al lavoro anche se malato.. con conseguenze poco eque, poco liberali e poco auspicabili per lui (più svantaggi per un soggetto già più “debole” degli altri) e in più, anche essendo cinici, con il rischio di far ammalare altre persone in caso di patologie infettive.
    Grazie
    Patrizio Ponti
    Collaboratore Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, UNIMI

  7. cri

    Vi ricordo che in molti contratti già oggi i lavoratori hanno la decurtazione dello stipendio in caso di malattia ( chi del 50%per i primi3 gg di malattia, chi una decurtazione diversa in base al contratto..)Sono pochi i lavoratori di un settore che sono retribuiti al 100%dal primo giorno di malattia, quindi “qualche costo sui lavoratori che si assentano” c’è già da molto tempo, direi. Sono d’accordo sul fatto di “redistribuire i risparmi sotto forma di incrementi salariali per tutti”: la proposta si potrebbe tradurre nel cosidetto “premio presenza, per esempio.

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