Le politiche monetarie estremamente espansive hanno provocato una guerra delle valute? Forse solo una crisi di nervi dovuta alla difficoltà di far uscire molte economie da una recessione che pare interminabile e all’assenza di una reale cooperazione internazionale capace di coordinare gli sforzi.
IL DOLLARO NELLA CRISI
Quando, nel corso del 2008, la crisi finanziaria cominciò a mostrare tutta la sua virulenza, non solo il franco svizzero e lo yen giapponese iniziarono a rivalutarsi fortemente, ma anche il dollaro americano, valuta del paese al centro delle turbolenze, esibì un’incredibile forza (vedi grafico 1). Questo contrastava con quanto osservato nelle precedenti crisi, dove i paesi al centro della bufera registravano un forte deprezzamento delle loro valute. Tuttavia, in questo caso la moneta statunitense veniva considerata, nonostante tutto, un “paradiso sicuro”. La globalità della crisi, oltre al forte aumento dell’incertezza e dell’avversione al rischio, spingeva gli operatori a investire in attività ritenute meno rischiose e più liquide, fra cui quelle in dollari.
Pochi mesi dopo, le politiche monetarie estremamente non convenzionali messe in atto dalla Fed, per evitare la nefasta esperienza della crisi del 1929, finirono per indebolire la moneta americana. Il franco svizzero e lo yen giapponese vennero spinti verso valori mai toccati prima nella storia. Tra l’inizio del 2008 e l’inizio del 2012 le due monete si rivalutarono in termini effettivi, cioè rispetto alla media ponderata di tutte le valute, di oltre il 40 per cento. Al risultato contribuì il fatto che molti investitori smontarono le posizioni di “curry trade” che li aveva portati in tempi più tranquilli a indebitarsi in valute con tassi d’interesse bassi (quali lo yen) e investire in paesi con tassi di interesse più alti (quali il dollaro australiano o il rand sudafricano), confidando che i movimenti dei cambi non avrebbero eroso i loro guadagni. (1)
La crisi dei debiti sovrani in Europa a partire dell’inizio del 2010 non fece che aggravare la situazione. Infatti, l’euro, che nei primi mesi della crisi si era mantenuto relativamente stabile, cominciò a indebolirsi sensibilmente. Spinta dall’enorme afflusso di capitali, nel settembre del 2011 la Banca centrale svizzera annunciò di aver fissato un limite di 1,20 franchi per euro, oltre il quale sarebbe intervenuta in maniera illimitata sul mercato dei cambi. Immediatamente la moneta elvetica perse oltre il 10 per cento del suo valore sulle principali valute.
UNA GUERRA DELLE VALUTE?
In questa prospettiva, la forte svalutazione dello yen osservata negli ultimi mesi assume tutt’altra connotazione. Dopo oltre un ventennio di crescita nulla e deflazione selvaggia è comprensibile che il nuovo governo di Shinzo Abe abbia voluto spingere al massimo tutti gli strumenti di politica economica, e in particolare di quella monetaria, per riavviare la ripresa. In questo quadro la forte svalutazione dello yen non rappresenta altro che un ovvio complemento di comprensibili politiche di rilancio della domanda. Diverso e molto più discutibile, sarebbe il discorso se la Banca centrale giapponese decidesse di procedere all’acquisto diretto di titoli esteri come in alcuni momenti paventato: la manovra sarebbe, infatti, un vero intervento diretto sul mercato dei cambi volto a influenzarne gli equilibri.
I violenti movimenti sul mercato dei cambi non hanno riguardato solo i paesi avanzati. Rivalutazioni molto rilevanti hanno subito il peso messicano, cileno e colombiano, nonché il novo sol peruviano e ovviamente il real brasiliano. Tutti paesi in forte crescita, ricchi di materie prime, con un grosso avanzo commerciale e tassi d’interesse relativamente elevati. Il sostenuto afflusso di capitali a breve ha indotto alcuni di loro a introdurre vincoli sui movimenti di capitale a breve, per la prima volta non vituperati dal Fondo monetario internazionale.
Siamo tuttavia ben lontani da quello che successe nella grande depressione quando nel settembre del 1931 la Gran Bretagna svalutò la sterlina, decretando di fatto la fine del gold standard, in polemica con la Francia e altri paesi europei che seguivano politiche monetarie restrittive, sterilizzando i loro afflussi di oro. Ne seguì una serie di svalutazioni competitive, che con il gergo di allora venivano definite “beggar my neighbour”, e soprattutto l’introduzione di forti tariffe e barriere commerciali di natura protezionistica.
Oggi, per fortuna, i Governi hanno sinora resistito a simili ritorsioni. Anzi, l’Europa e gli Stati Uniti stanno definendo un accordo di libero scambio, mentre le politiche monetarie cercano di stimolare e non comprimere la domanda interna. Questo, come sottolineato dall’Economist, è un fatto positivo, anche se può comportare “effetti collaterali” non secondari sul cambio. (2)
Forse ha ragione John Taylor quando sostiene che negli anni della “grande crisi” non è più vero quello che era vero negli anni della “grande moderazione” (Ottanta e Novanta), quando il coordinamento internazionale delle politiche monetarie portava scarsi benefici, rispetto a una situazione in cui ciascun paese gestiva un’“appropriata” politica in maniera autonoma. (3) Questo sia perché non è più evidente quale sia la “corretta” politica monetaria, sia perché sono più incerti e discutibili gli effetti delle politiche monetarie non convenzionali. In altri termini, dalla crisi sarebbe più facile uscire con un maggiore coordinamento internazionale.
(1) Marion Kohler, “Exchange rates during financial crises”, BIS Quarterly Review, March 2010; Marcel Fratzscher, “What Explains Global Exchange Rate Movements During The Financial Crisis?” ECB Working Papers Series, N. 1060, June 2009.
(2) The Economist, “The global economy, Phoney currency wars”, February 16th 2013.
(3) John B. Taylor, “International Monetary Coordination and the Great Deviation”, NBER Working Paper No. 18716 January 2013.
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