Dal punto di vista teorico, la tassa sul patrimonio ha indiscutibili vantaggi. E infatti in Italia esiste già l’Imu. Una nuova imposta dovrebbe quindi tassare ricchezze diverse dal patrimonio immobiliare. Ma sorgono gravi difficoltà di accertamento.
Dove c’è ancora la tassa sulla ricchezza
Fino a pochi anni fa, erano una dozzina le nazioni europee che imponevano una tassa annuale sulla ricchezza. Oggi una forma di imposta simile è in vigore solo in tre paesi. In Germania, la Corte costituzionale federale l’ha dichiarata incostituzionale nel 1995, mentre in Francia è stata sostituita da un’imposta sui beni immobili nel 2018. Austria, Danimarca Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Svezia hanno tutte rinunciato a imporre una simile tassazione per la complessità a misurare annualmente la ricchezza, le difficoltà a riscuotere la tassa, la sistematica elusione dei possessori di grandi patrimoni e la diffusa evasione attraverso la fuga dei capitali dei più piccoli.
Oggi solamente la Spagna, la Norvegia e la Svizzera impongono una imposta sul patrimonio, ma solo quest’ultima raccoglie un livello significativo di risorse, pari all’1,1 per cento del Pil.
La tassa patrimoniale svizzera ha una lunga storia, poiché precede quella sul reddito e gode di una relativa popolarità. Ha una base imponibile molto ampia e una natura cantonale, su cui le municipalità possono applicare un moltiplicatore. Data la competizione presente nel sistema fiscale svizzero fra i diversi cantoni, l’aliquota oscilla fra lo 0,1 per cento del Nidwalden e l’1,1 per cento di quello di Ginevra. Anche il livello di esenzione, che è piuttosto basso, varia fra i 50 mila e 250 mila franchi svizzeri.
Da un punto di vista teorico, la tassa sul patrimonio ha indiscutibili vantaggi sia perché la ricchezza è distribuita in una maniera molto più iniqua del reddito, sia perché ha minori effetti distorsivi sulla crescita. Non a caso illustri economisti – quali Nicholas Kaldor (1956), Maurice Allais (1977) e Thomas Piketty (2014) – hanno proposto di introdurre un’imposta sulla ricchezza. Più di recente la prevedevano i programmi elettorali di due candidati democratici alla presidenza degli Usa, Bernard Sanders ed Elizabeth Warren.
Le difficoltà di accertamento
In Italia un’imposta generale patrimoniale è stata spesso invocata, ma mai davvero applicata. Sono state invece varate specifiche tipologie di patrimoniale (quali la tristemente famosa imposta straordinaria sui depositi bancari del 1992) perlopiù incentrate su proprietà immobiliari. Oggi l’imposta patrimoniale per eccellenza risulta essere l’Imu, applicabile, per l’appunto, a beni e diritti immobiliari.
Dunque, il ricorso a forme aggiuntive di prelievo patrimoniale dovrebbe riferirsi a manifestazioni di ricchezza diverse dal patrimonio immobiliare, nell’intesa che questo richiede la formazione di un’anagrafe dei patrimoni com’è oggi la Conservatoria dei beni immobili. Gli oggetti principali dovrebbero essere (i) le ricchezze finanziarie nelle sue molteplici espressioni e (ii) i beni mobili di particolare valore (imbarcazioni, gioielli, beni d’antiquariato). Le prime sono accertabili con relativa facilità. Il grosso di questa ricchezza è infatti nelle mani di intermediari finanziari che sono già sottoposti a obblighi di comunicazione con le autorità tributarie. Possono giovare specifici affinamenti, ma l’informazione è disponibile.
Le partecipazioni in società – attive o di mero godimento – sono invece del tutto sconosciute. Occorrerebbe, dunque, introdurre l’obbligo di segnalarle all’anagrafe patrimoniale. Ma qui la difficoltà sarebbe duplice perché, da un lato, occorrerebbe fare obbligo ai soggetti fiscalmente residenti in Italia di dichiarare l’esistenza delle partecipazioni in società italiane ed estere: le prime accertabili via registro delle imprese, le seconde con evidenti problemi di accertabilità (ancorché esista già un obbligo di dichiarazione, il quadro RW, per i valori più consistenti). Dall’altro lato, occorrerebbe attribuire alle partecipazioni un valore oggettivo, attività davvero spigolosa. Per le italiane ci si potrebbe riferire al patrimonio netto contabile, pur consapevoli della sua inadeguatezza. Per le estere, specie se domiciliate in paradisi fiscali, l’individuazione del valore pare, invece, davvero ben più complicata. Occorrerebbe, poi, accompagnare l’obbligo dichiarativo con quello sussidiario di estenderne la portata a fiducianti e trustee stabilendo, per esempio, che tutti gli affidamenti fiduciari o di attribuzione a trust si intendono comprensivi di una clausola, introdotta per legge, che obbliga questi ultimi a dichiarare al fisco italiano i valori (aggiornati) delle partecipazioni avute in gestione. Prescindendo dalle problematiche di compatibilità e prevalenza delle norme italiane su quelle dei paesi in cui la fiduciaria opera, si può dire che questa via funziona per i fiducianti che gestiscono trust con beneficiari identificati. Ma non funziona affatto per i trust costituiti a favore di un terzo non ancora individuato. Facile predire, quindi, che questa tipologia di trust vedrebbe incrementi stratosferici.
Apparentemente meno complessa potrebbe essere la tassazione dei beni mobili di particolare valore. Banale per le imbarcazioni. Con la consapevolezza, però, che il grosso, specie le barche di maggior valore, è detenuto tramite società, con la problematica appena vista. Quanto ai gioielli e agli oggetti di antiquariato non è difficile applicare la norma agli acquisti futuri e a quelli che circolano fra operatori economici. Davvero più complicato è, invece, l’accertamento di quanto già oggi posseduto. Pur ipotizzando l’utilizzo di soglie elevate, resta comunque una notevole difficoltà tanto per il contribuente quanto e soprattutto per il fisco di individuare una “oggettiva” base imponibile.
Insomma: la patrimoniale è giusta. Il problema è l’accertamento.
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