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Anche il lavoro pubblico può andare in cassa integrazione

La cassa integrazione permette di dare sostegno economico ai dipendenti adibiti ad attività sospese o ridotte a causa di una crisi temporanea, come il lockdown. Per applicarla ai dipendenti pubblici, si può estendere l’istituto della “disponibilità”.

Tre effetti del lockdown sul lavoro pubblico

Da tempo è aperto il dibattito sull’estensione della cassa integrazione anche al lavoro pubblico. La questione è sorta in particolare a causa delle misure organizzative emergenziali adottate a marzo 2020, che hanno riguardato la pubblica amministrazione.

Molti guardano a quanto accaduto con l’ottica limitata allo smart working, che ha portato Pietro Ichino e Sabino Cassese ad affermare che “nella maggior parte dei casi si è trattato di una sorta di ferie prolungate”.

In realtà, le cose non stanno esattamente così. Fermo rimanendo che la Pa – colpevolmente inerte (per scelte, tuttavia, degli organi di governo) nell’attuare le disposizioni sul lavoro agile risalenti almeno alla legge 124/2015 (cinque anni prima della pandemia) – si è trovata a doversi riorganizzare in fretta e furia per erogare da remoto i servizi e le attività, le disposizioni durante il lockdown hanno comportato tre effetti:

1. configurare il lavoro agile come unica forma “ordinaria” di lavoro: di fatto, fino a luglio 2020, le pubbliche amministrazioni sono state obbligate a mettere in smart working tutti i dipendenti, a meno che non si dimostrasse che erano adibiti ad attività connesse all’emergenza sanitaria, da svolgere obbligatoriamente in presenza;

2. sospendere moltissimi procedimenti amministrativi; per circa quattro mesi, da marzo all’estate, una gran parte dei procedimenti amministrativi sono rimasti sospesi (salvo quelli relativi ai pagamenti ai fornitori della Pa o alle imprese in crisi e ai lavoratori in cassa integrazione). Il legislatore, nel momento in cui ha imposto il lavoro agile a tutti, era consapevole che le amministrazioni non erano tutte pronte e non tutte nello stesso modo a svolgere i servizi con la stessa qualità di prima e, per questo, ha sospeso tanti procedimenti;

3. consentire, una volta consumate le ferie, i congedi e i permessi disponibili, l’esenzione dal lavoro per quei dipendenti per i quali non era possibile né disporre il lavoro agile, né adibire ad attività da svolgere necessariamente in presenza.

Prima di proseguire è bene chiarire che, da luglio in poi, le cose sono cambiate: il lavoro agile è previsto come una tra le possibili forme ordinarie di lavoro e solo a condizione che non pregiudichi l’efficienza dei servizi. Non a caso, non sono più previsti sospensioni dei termini dei procedimenti. Pertanto, laddove un ufficio causi ritardi o disfunzioni perché i suoi dipendenti sono in smart working, si dovrebbero evidenziare responsabilità gravi per i vertici su cui ricade la decisione di organizzare in lavoro agile attività con esso non compatibili.

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E a maggior ragione, in questi casi, bisogna chiedersi perché non attivare un sistema simile alla cassa integrazione anche nel lavoro pubblico.

Se infatti anche a regime il ricorso allo smart working non consentisse l’utilizzazione piena del personale disponibile, si dovrebbe ammettere che la parte non utilizzata del personale venga sospesa dal lavoro con attivazione di una forma di sostegno del reddito, che non potrebbe non comportare una riduzione rispetto al cento per cento dello stipendio ordinario.

A cosa serve la cassa integrazione

Sul problema della compatibilità della cassa integrazione col lavoro pubblico, occorre sgomberare il campo da un equivoco molto diffuso: pensare, cioè, che la cassa integrazione riguardi imprese prossime al fallimento. Il Dlgs 148/2015 ha proprio la funzione di escludere che l’istituto abbia il fine di sostenere imprese decotte. La cassa integrazione, al contrario, ha sostanzialmente lo scopo (nelle sue varie, forse troppe, modulazioni) di sostenere imprese in conseguenza di riduzioni di attività connesse a eventi esterni (la pandemia è uno tra quelli) o riorganizzazioni, in vista di una ripresa.

La cassa integrazione permette di dare sostegno economico ai dipendenti adibiti alle attività sospese o svolte in modo ridotto. Per i lavoratori coinvolti nella procedura, per le ore di sospensione, allo stipendio si sostituisce un’indennità (finanziata da contributi versati dalle aziende e dagli stessi lavoratori, ma nel caso di casse in deroga o per eventi straordinario, anche dall’erario), pari circa all’80 per cento della retribuzione lorda.

Torniamo alla pubblica amministrazione. In presenza di un evento o una disposizione normativa, come quelle stabilite nel primo lockdown, che comportino la riduzione evidente dell’attività lavorativa, tanto da sospendere persino i termini dei procedimenti, non si verte in una situazione troppo diversa da quella di un’azienda in crisi per temporanee situazioni aziendali dovute ad eventi transitori.

Non sarebbe stato, quindi, particolarmente incongruente distinguere tre categorie di dipendenti: quelli che hanno proseguito l’attività in presenza, quelli disposti in smart working, ma in attività non sospese e quelli non adibiti né alla prima, né alla seconda attività, individuando i lavoratori sulla base della loro adibizione a mansioni lavorative coinvolte o meno dalla sospensione dei procedimenti. Per la seconda e terza categoria una riflessione andava svolta. Infatti, i dipendenti in smart working che non svolgano pienamente le attività lavorative, si trovano in una situazione non dissimile dal lavoratore in cassa integrazione sospeso solo per alcune ore lavorative. I dipendenti addetti ad attività “congelate” sono sostanzialmente assimilabili a lavoratori in cassa integrazione a “zero ore”. Sarebbe stato possibile coinvolgerli in misure di contenimento della spesa pubblica.

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Si è fatta, invece, una scelta più grossolana. Sono stati mandati in smart working anche dipendenti adibiti a funzioni in realtà non espletabili con efficienza (anche a causa di scarse dotazioni telematiche e hardware). E si è persino consentito di esentare dal lavoro alcuni dipendenti (quanti? Non molti, ma nessuna fonte ha mai svelato il numero, fino a oggi), ma pagandoli a retribuzione intera; una differenza oggettivamente non troppo facilmente spiegabile, rispetto al mondo privato.

Le condizioni astratte perché anche nella Pa si attivi una sorta di cassa integrazione, allora, vi sono: l’accertamento di una contrazione dell’attività lavorativa, dovuto a una lunga sospensione di procedure e termini, potrebbe esserne lo spunto.

Utilizzare la “disponibilità”

Del resto, nel testo unico sul rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (Dlgs 165/2001) esiste una norma, l’articolo 33, che tratta un istituto piuttosto simile alla cassa integrazione: la “disponibilità”. Laddove una pubblica amministrazione, per una serie di situazioni di “crisi”, anche di carattere finanziario, rilevi che alcuni suoi dipendenti sono in esubero, dopo alcuni passaggi, li colloca in disponibilità: il che significa la sospensione del rapporto di lavoro (come in una cassa integrazione a zero ore), per una durata di 24 mesi, con un trattamento economico dell’80 per cento circa del trattamento economico fondamentale (si veda in particolare il comma 8).

Non sarebbe stato troppo difficile prevedere, allora, nella normativa anche emergenziale una lettura che estendesse l’istituto della disponibilità a situazioni di “esubero” temporanee e non durature, così da trasformarla in una disponibilità a sua volta non definitiva (destinata al licenziamento), ma temporanea, per la durata della “crisi” operativa. Oppure, in modo più chiaro, si può prevedere una modifica all’articolo 33 del Dlgs 165/2001 che introduca appunto la “disponibilità” temporanea per casi simili, allo scopo di evitare situazioni limite come l’esenzione dal lavoro a stipendio pieno o uno smart working più simile a un ammortizzatore sociale che a una misura organizzativa.

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12 commenti

  1. Savino

    Non si accorgono di essere privilegiati, senza meritarlo. Non si accorgono di essere vecchi, anzitutto come mentalità, Spazio ad una generazione nuova e iper laureata di funzionari pubblici.

    • Marcello

      Vorrei sapere di cosa parliamo. I dipendenti pubblici in Italiai sono 3,2 mln. Se toglie occupati nella sanità, nell’education, nelle FFAA, nella sicurezza, nei pompieri e altro che ha a che fare con assistenza, previdenza e sicurezza, di veri dipendenti che si occupano di amministrazione in tutte le articolazioni istituzionali (Comuni, Regioni, Stato e Ministeri) il numero è di poche centinaia di migliaia. La tanto osannata Svezia, ora un po’ meno dopo il disastro nella gestione del covid, ha 143 dipendenti pubblici ogni 1000 lavoratori, l’Italia 48, Ieri sono andato alle Poste società con rating A, hanno ancora le stampanti e computer olivetti, quelli della commessa del dot. Passera ad di Olivetti, parliamo dei primi anni 90. Fatevi un giro nei municipi e vedete che pc e stampanti hanno. Andate in un ministero e guardate la dotazione tecnica, ma anche le università vanno bene. Ero un adolescente e i Decreti Stammati bloccavano le assunzioni nelle PPAA. Oggi l’età media dei dipendenti è 57 anni. Gli stipendi sono tra i più bassi d’EU. Con buona pace di coloro che dicevano che il prolungamento dll’età pensionabile avrebbe fatto crescere la buona occupazione giovanile. Storie e racconti senza alcun fondamento. Cominciamo a far pagare le tasse a tutti, magari meno, ma a tutti e poi parliamo di riforme. Ora il tema è l’equità, ma la prima equità è quella fiscale cominciamo dalle cose semplici incrociamo quattro banche dati poi ne parliamo.

      • Henri Schmit

        Sono d’accordo. Solo pochi funzionari sono strapagati. I difetti peggiori non sono loro ma 1. Le procedure (legislatore, ministeri) e 2. Le attrezzature, non solo i PC Olivetti delle Poste, ma soprattutto i sistemi informatici, probabilmente acquistati e installati nello stesso modo, cioè tramite appalti malfatti, non abbastanza esigenti, utilizzati per accontentare qualcuno. Basta confrontare i siti della PA italiana con quelli tedeschi o francesi per rendersi conto di quanto il paese è arretrato. Recentemente Sabino Cassese (sempre lui) ha detto una cosa secondo me molto pertinente: l’upgrade digitale della PA dovrebbe andare pari passu con una semplificazione delle procedure vigenti; i sistemi digitali sono logica applicata e bisogna quindi approfittare di questo passaggio per razionalizzare le procedure amministrative (nel senso più lato immaginabile) modificando dove serve la legislazione. Chi è capace di pensare questa trasformazione? Non deve essere un informatico, ma piuttosto un buon generalista conoscitore delle procedure esistenti, dei loro difetti e delle best practice in altri paesi.

        • Savino

          Le migliori pratiche, al di là del digitale, sono quelle con più trasparenza e meno mascherate da appesantimento burocratico. La pandemia ci insegna che le soluzioni troppo amministrative sono nocive agli utenti e destinatari, soprattutto quando il burocratese è solo di facciata e non è coerente con le realizzazioni concrete. L’iter non va solamente predicato nei confronti della povera gente, ma va praticato ed applicato in maniera ligia da parte del funzionario, senza prendere scorciatoie e strade tangenti (non a caso) con abuso di potere e di posizione.

  2. Mauro

    Mettiamoci sul piatto che lo smartworking é stato possibile solo e soltanto perché i dipententi hanno messo a disposizione i propri pc, la propria corrente etc… vedete le amministrazioni che di fatto avevano ottemperato alla norma…fece una tesi di laurea nel 2007 sul telelavoro nella PA…senza questa disponibilità sarebbero stati tutti in ^cassa integrazione^ se fosse stato per dirigenti e politici di turno e di qualsiasi colore..con lo stipendio pagato all 80 per cento ..ma la conseguenza sarebbe stata il blocco totale…così non si rende giustizia a chi lavora e non si sottolinea che chi non fa niente in smartworking non fa niente neanche quando é in presenza…discorso lungo e complesso

  3. paolo bosi

    Mi farebbe piacere sapere quali sono le basi empiriche delle affermazioni di Ichino e Cassese.

  4. Michele Lalla

    Naturalmente, anche dai pochi commenti si vedono i due partiti: quelli di “dài addosso al dipendente pubblico (DP)” e quelli che DP sono. Per i primi è facile dire questo, per odio o per sperimentata inefficienza nelle PA. Non mi stupisco di Ichino, che li definiva in modo sprezzante “fannulloni”, non rendendosi conto del grado morale in cui cadeva lui; poi, la sinistra sciocca gli regalava anche il seggio parlamentare. Mi stupisco di Cassese e dell’accanimento contro il povero (in tutti i sensi) DP, che i due pure hanno contribuito a accendere. Ricordiamo che entrambi hanno GODUTO DELLA MANGIATOIA DELLO STATO e questo è molto piú avvilente.
    L’autore si perde nei ragionamenti quando tratta la seconda categoria “quelli disposti in smart working, ma in attività non sospese”, come la terza. Questo è il colmo della logica, perché chi sta in cassa integrazione, non fa niente e percepisce l’80% dello stipendio. Chi lavora, pur con un tempo pieno lievemente ridotto, prende quanto uno che non lavora?

  5. Jeriko

    Lungi da me la polemica, ma da alcuni commenti si intravede la non-conoscenza del team: la cassa integrazione e´ 80% con *massimale* a 800 o 900 euro, stop (esperienza diretta). Sono poi d´accordo con il sig. Lalla, ci sono i due partiti pro e contro dipendenti PA. Certo aiuterebbe se i dipendenti PA riconoscessero alcuni privilegi nindiscussi (certezza dello stipendio in primis).
    Che poi siano poochi gli strapagati e´ vero, ma e´ altrettanto vero che le dinamiche salariali in Italia hanno determinato un generale appiattimento per cui la certezza dello stipendio e´ diventata di fatto un privilegio (esempio: stipendio civic e´ sui 1600 euro netti all´ingresso, richiesto diploma; i laureati entrano mediamente allo stesso stipendio, nessuno entra a 2000 euro netti nel privato).
    Tutto questo determina la contrapposizione: in Italia non conviene piu´ fare il dipendente nel privato.

  6. Gianni

    Premesso che sono d accordo a mettere in cassa integrazione i dipendenti pubblici (@
    A meno che non si fornisca loro la dotazione strumentale per lavorare da casa, linea elettrica ed internet), non mi è chiaro chi avrebbe pagato la Stessa cassa integrazione, ad es.

  7. Cosimo Benini

    Polemica strumentale. La CIG la pagano le aziende. Nel pubblico lo Stato cosa pagherebbe? Ecco allora la proposta di modificare l’istituto della messa in disponibilità. Ma questo istituto riguarda la mobilità collettiva non volontaria. Insomma la norma adatta non c’era. Mi chiedo: ma pensate davvero che tutte le funzioni centrali e gli enti locali siano costituite da uscieri e custodi? In ogni caso va detto che, a casa, si perdono straordinari ed indennità legate alla presenza. Non a caso in estate moltissimi ministeriali hanno protestato chiedendo di rientrare. Una ulteriore considerazione: non viviamo in un paese di caste, non è che gli statali si sposino solo fra statali e, magari, qualche “privilegiato” ha coperto la moglie o il marito (autonomo) con il suo stipendio. Forse il governo ha fatto una scelta anticiclica per cercare di evitare ulteriori contrazioni della domanda interna. Aggiungo: sono prontissimo alla “CIG” statale (io che ho lavorato da casa col mio pc anche di notte perdendo, secchi, 350 euro netti al mese ogni mese), ma voglio lo stipendio di un quadro del privato visto che quelle mansioni svolgo. Non è che devo essere equiparato solo “a perdere”.

    • alessandro bortolini

      Mi sfugge come lei possa aver perso €350 al mese esendo un quadro del pubblico impiego. Quanto alla sua peima osservazione, certo la Cassa integrazione sarebbe pagata dallo Stato ma questa partita di giro consentirebbe in ogni caso un risparmio del 20%

  8. Difficile solo pensare che un qualsivoglia governo (questo in particolare) getti, anche solo simbolicamente, il guanto di sfida all’esercito dei pubblici dipendenti. Sarebbe la fine di un travaso irrinunciabile di consenso per qualsiasi forza politica.

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