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Pubblico impiego oltre la pandemia*

Per rispondere alle carenze messe in evidenza anche dall’emergenza sanitaria, il governo si appresta ad assumere nuovo personale pubblico. Dovrebbe farlo con una visione di lungo periodo, che tenga conto degli effetti delle scelte degli ultimi anni.

L’evoluzione dell’occupazione pubblica

In diversi comparti chiave del settore pubblico le dotazioni di personale si sono rivelate numericamente e qualitativamente inadeguate a fronteggiare l’emergenza sanitaria legata al Covid-19. Con l’ausilio delle risorse finanziarie straordinarie messe a disposizione e sulla scia dei provvedimenti già delineati lo scorso anno, il governo si appresta ora a reclutare rapidamente e massicciamente nuovo personale. Una ricognizione delle politiche di gestione del pubblico impiego adottate negli ultimi anni e dei loro effetti sulla dimensione e sulla composizione della compagine può aiutare a cogliere meglio alcuni aspetti di questa fase critica e contribuire a un disegno più efficace e duraturo degli interventi.

La figura 1 mostra l’evoluzione aggregata della forza lavoro pubblica dal 1980 al 2019: a una rapida e significativa espansione negli anni Ottanta, sono seguite una prima forte contrazione nel corso degli anni Novanta e una seconda a partire dalla metà degli anni Duemila. Tra il picco del 1992 e il 2019 il calo è stato di quasi 500 mila unità (il 13 per cento), tale da determinare un ritorno su livelli prossimi a quelli dell’inizio degli anni Ottanta.

Un recente lavoro analizza le politiche adottate nell’ultimo decennio e prova a quantificarne gli effetti più in dettaglio.

Secondo i dati riportati della Ragioneria generale dello stato, tra il 2008 e il 2018 il numero di dipendenti pubblici è diminuito, a parità di enti, di quasi 300 mila unità, l’8,3 per cento. Si tratta del quinto più significativo ridimensionamento tra tutti i paesi Ocse nello stesso periodo; riduzioni più significative si sono registrate solo in Grecia, Lettonia, Lituania e Regno Unito.

Il blocco delle assunzioni

La riduzione, imposta dall’esigenza di contenere la spesa pubblica, è stata ottenuta principalmente mediante l’imposizione di limiti alle assunzioni di nuovo personale, secondo le norme sul cosiddetto “blocco (parziale) del turnover”. A partire dal 2007 (e fino al 2018) le leggi di bilancio e una serie di decreti specifici hanno previsto la possibilità di procedere all’assunzione di nuovo personale nel limite del 10-25 per cento di quello cessato.

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I vincoli non sono stati applicati in maniera omogenea tra comparti e sul territorio o perché superati da discipline specifiche (è il caso, ad esempio, della scuola) o perché combinati con restrizioni legate alle condizioni di bilancio delle singole istituzioni.

Ne è scaturito un quadro eterogeneo: nelle università, nei ministeri e negli enti locali il numero di addetti è diminuito di circa il 20 per cento, mentre i comparti più grandi – scuola e Servizio sanitario nazionale – hanno subito una riduzione relativamente meno marcata (figura 2). Tali dinamiche vanno però lette e valutate in combinazione con l’evoluzione della domanda dei servizi forniti. Nella scuola il rapporto tra gli addetti del comparto e la popolazione con meno di 15 anni, dopo una riduzione nei primi anni, è tornato a livelli prossimi a quelli del 2008. Invece tra il 2008 e il 2018 il Sistema sanitario nazionale ha perso circa 50 mila addetti contro un aumento di circa 1,8 milioni di persone della popolazione con oltre 64 anni di età.

A livello geografico, invece, è stato il Mezzogiorno a subire la contrazione più forte (7,6 per cento, contro 4,1 per il Nord e 4,5 per il Centro). La riduzione ha portato il Sud ad avere un numero di dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione residente nel complesso più vicino a quello delle regioni del Nord (circa 53 ogni mille abitanti al Sud, 49 al Nord). Permangono tuttavia significative differenze nella composizione settoriale. La più ampia riguarda proprio il personale del Servizio sanitario nazionale: il 25 per cento della forza lavoro pubblica al Nord e solamente il 17 al Sud. La differenza si riflette nelle dotazioni in rapporto alla popolazione: 51 addetti ogni mille anziani al Nord e 43 al Sud. Nel confronto non consideriamo le regioni del Centro poiché includono la maggior parte dei lavoratori delle amministrazioni centrali dello stato.

L’impatto sulla struttura demografica

L’imposizione di restrizioni sul turnover del personale pubblico ha inevitabilmente inciso sulla composizione demografica della compagine. L’età media dei dipendenti pubblici è aumentata rapidamente attestandosi nel 2018 oltre i 50 anni, 7 anni in più che nel 2001.

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Come documentato dall’Ocse, lo sbilanciamento demografico, dovuto alla sotto-rappresentazione della componente più giovane, rappresenta una peculiarità del nostro paese (tavola 1). E pone vincoli al rinnovamento e all’aggiornamento delle competenze, alla digitalizzazione della pubblica amministrazione e all’efficienza produttiva in generale, vincoli che difficilmente possono essere superati solamente con l’ausilio di politiche di formazione continua del personale.

Le evidenze raccolte mettono certamente in luce l’improrogabile necessità di assumere personale più giovane in tutti i comparti della Pa, al fine di sfruttare meglio le complementarietà esistenti tra le diverse fasce d’età. Rimane invece la difficoltà di fare valutazioni circa l’efficienza dei processi produttivi nei servizi pubblici data la generale difficoltà di misurazione dell’output in questa branca dell’economia. Verso questo obiettivo vanno indubbiamente orientati gli sforzi della comunità scientifica e della Pa stessa, che deve essere in grado di produrre e condividere dati affidabili sui propri processi di produzione.

* Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire all’autrice e non investono la responsabilità dell’istituzione di appartenenza.

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Nella sanità le centrali uniche di acquisto funzionano*

  1. Alberto Isoardo

    Molto interessante è vedere la bassa % di giovani dipendenti pubblici in Italia e Spagna. Certo gli effetti nefasti del governo Monti hanno inciso in modo pesantissimo sulla sanità. Ma nel pubblico c’è anche un problema di gestione del personale e di capacità di ottenere dallo stesso la performance richiesta.
    Il Covid-19 è stato un vero 8 Settembre per i servizi pubblici: non solo non c’erano abbasta persone, ma quelle on duty si sono sentite autorizzate a non erogare i servizi per cui vengono pagate. Guardate il rilascio dei documenti dai comuni, questure etc.
    A questo proposito è innegabile la responsabilità dei relativi manager!.

  2. Savino

    Confermo empiricamente i risultati della ricerca e non comprendo i motivi dell’immobilismo generale dello Stato e delle istituzioni repubblicane giacchè trattasi di una forma d’investimento nel futuro fondamentale

  3. Paolo

    Ottimo articolo grazie, sarebbe indispensabile mettere in campo processi di assunzione limitati alle fasce d’età più giovani (o quantomeno con punteggio premiante per la giovane età). Siccome immagino che la legislazione non lo permetta (in quanto discriminatorio), occorre prevedere che i concorsi contengano una forte componente selettiva legata all’informatica avanzata.
    PS: la legenda dinamica del primo grafico è sbagliata

    • Savino

      A parità di punteggio, i concorsi prevedono l’assunzione del più anziano, tanto per capire la mentalità troglodita

  4. Emanuele Paris

    Nulla di nuovo sotto questo cielo. Da sempre il settore pubblico è stato adoperato come serbatoio di voti più che per il soddisfacimento di servizi alla società, è un evidenza che conosciuamo tutti. I tagli orizzontali sono la cosa più stupida di una pubblica amministrazione gestita in modo scellerato. Io credo si dovrebbe ripartire da una redifinizione delle competenze pubbliche. Io sono per lo stato “minimale” che non significa “minimalista”: poche competenze ma importanti: pubblica sicurezza, giustizia, istruzione, sanità. Il problema è la correlazione tra età anagrafica e scarsa efficienza: in tal senso, i soldi spesi in continui corsi di aggiornamento sono soldi buttati, o meglio regalati agli amici degli amici. Un’abbassamento dell’età ed una meritocrazia importante, determinerebbe una qualità che si scaricherebbe anche sulla mobilità tra i comparti, cosi che si possa ridurre al minimo il ricorso a “lavoratori stagionali”; viene impossibile immaginare che si possa costantemente coprire la domanda. Dove questo non sia possibile, si può far ricorso a contratti ad hoc che non significa certo sottopagare persone da rendergli poi una vita lavorativa drammaticamente instabile. Ma tutto deve passare dalla qualità del pubblico impiego. Ma vi chiedo, come si può pretendere qualità nel pubblico impiego se non la pretendiamo neppure dai nostri politicanti? ..molti servizi sono pensati in funzione dell’ignoranza dei lavoratori della pubblica amministrazione.

  5. Enrico

    Ritengo che l´efficienza della pubblica amministrazione non si possa fare per decreto.Una parte importante va relazionata con la qualita delle risorse impiegate, azzerderei un peso del 50% (ogni imprenditore puo confermare che le persone sono importanti quanto i processi). Purtroppo qui vengono i punti dolenti: in un Paese con sviluppo economico basso in ogni settore (non siamo tra i Paesi produttori di tecnologia) e con una dinamica salariale da secondo mondo, il settore pubblico attira per un unico motivo: posto fisso. Il solo incentivo mediante premi non serve ovviamente. Anche la famosa “meritocrazia”, funziona se lavora in entrambi i sensi, altrimenti costituisce la premessa per la medesima situazione fra 10 anni (mica possono diventare tutti dirigenti e se promuovo un 40-enne, fino alla pensione quel posto non sara piu vacante).
    Concludo che la chiave sono i processi di assunzione, ma questi funzionano in un´ottica di rersponsabilizzazione. L´Italia non e´ pronta ed una vera riforma non puo´ prescindere dalla cultura del Paese, purtroppo.
    Suggerimento agli autori di questo bell´articolo: sarebbe interessante comparare inefficienze/virtu di Paesi simili (diciamo latini/nordEuropa etc), sono convinto vi sia un riflesso culturale.

  6. Carlo

    La pandemia ha costretto una fascia molto ampia della popolazione a prendere confidenza con le tecnologie informatiche, dal lavoro da casa agli acquisti on line. Questo potrebbe essere il momento per far fare al nostro Paese, e in particolare alla Pubblica Amministrazione, il salto verso la digitalizzazione che non abbiamo voluto fare negli ultimi venti anni.
    L’obiettivo per la Pubblica Amministrazione non deve essere accrescere gli organici per continuare a lavorare con i metodi di lavoro di trenta anni fa, ma ripensare profondamente la sua organizzazione. Che il personale attualmente impegato sia anziano potrebbe anche essere un vantaggio: mano a mano che i nuovi sistemi organizzativi entreranno a regime, di personale servirà molto di meno e con competenze diverse. Molto meglio che quello attualmente presente vada progressivamente in pensione.
    Il percorso dovrebbe essere analogo a quello fatto dalle banche negli ultimi decenni. In prospettiva tutte le banche dati della PA andrebbero accorpate o comunque messe in condizione di scambiare automaticamente i dati e l’erogazione dei servizi ai cittadini andrà fatta in gran parte on line.
    Di dipendenti pubblici più giovani da mettere a leggere i moduli cartacei delle richieste dei cittadini, cui rispondere con certificati firmati e timbrati, il Paese non ne ha bisogno!

  7. Maurizio Daici

    Direi che ci si è sostanzialmente limitati a ridurre il numero dei dipendenti , senza affrontare la questione dell’organizzazione del lavoro e dei profili professionali. Penso che l’urgenza sia quella delle figure dirigenziali, che non sono “profilate” per svolgere funzioni organizzative.

  8. stefano Guffanti

    Immaginate di essere un dipendente che lavora in una azienda informatica, fate un colloquio per la Microsoft che si dichiara disposta ad assumervi e a pagarvi di più.
    Voi vorreste spostarvi ma, qualcosa ve lo impedisce.. è necessario il “permesso” del Dirigente dell’azienda in cui lavorate ora. Risultato finale: la vostra possibilità di crescita professionale verrebbe tarpata sul nascere..
    Fortunatamente nel privato questo non avviene, i dipendenti che ritengono di essere in possesso di competenze distintive possono proporsi sul mercato del lavoro e, se trovano imprese disposte a investire su di loro possono cambiare posto e migliorare la propria condizione.
    Questo è invece esattamente quello che avviene ogni giorno nel settore pubblico. Un dipendente, laureato o meno, che vince un concorso in un Comune, in una Regione, in una Azienda sanitaria o in un ente statale, non può spostarsi all’interno della pubblica amministrazione senza avere il “permesso” dell’amministrazione di appartenenza.
    Risultato: non esiste un meccanismo che porti alla selezione e alla valorizzazione dei migliori ma, al contrario, le amministrazioni pubbliche non hanno nessun incentivo a valorizzare i meritevoli perchè non rischiano di perderli. Cosa accadrebbe se l’attuale meccanismo di selezione del personale basato su concorsi per ogni livello di carriera (con i noti problemi che caratterizzano i concorsi pubblici in Italia) e su una valutazione che si basa su parametri prestabiliti e viene utilizzat

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