Non è facile dare una valutazione precisa dell’operazione che il governo ha condotto su Autostrade per l’Italia perché fin ora le informazioni non sono chiarissime. Di certo è discutibile il metodo usato. Né è sicuro che sia un buon risultato per il paese.
Il punto di partenza e l’operazione
Non è facile dare una valutazione precisa dell’operazione che il governo ha condotto su Autostrade per l’Italia (Aspi) perché le informazioni non sono chiarissime e cambiano rapidamente, anche a seguito delle comprensibili lamentele di alcuni fondi internazionali. Ma – con tutte le cautele del caso – proviamo a fare il punto.
Oggi Aspi è controllata da Atlantia con l’88 per cento. Il rimanente è nelle mani di due investitori istituzionali, uno cinese (Silk Road) e uno prevalentemente europeo (Appia, legato ad Allianz e Edf). Non è quotata in borsa, ma è previsto che la quotazione avvenga entro pochi mesi, attraverso la cessione di azioni ora di Atlantia o un aumento di capitale.
Atlantia è a sua volta controllata da Sintonia (Gruppo Benetton) con il 30 per cento, ma vi sono coinvolti altri investitori istituzionali (il fondo sovrano di Singapore, banche quali Lazard e Hsbc, la Fondazione Cassa di risparmio di Torino) e molti piccoli azionisti (il 45,6 per cento). Da Aspi proviene circa il 35 per cento dei ricavi di Atlantia, che per la maggior parte derivano da asset quali alcuni aeroporti in Italia e Francia e una ventina di autostrade in diversi continenti.
Quanto alla famiglia Benetton, detiene il 30 per cento di Atlantia, che a sua volta ha l’88 per cento di Aspi: dunque, è come se stessimo parlando della proprietà del 27 per cento di Aspi. Per ogni euro di utile di Aspi, 27 centesimi vanno ai Benetton, 33 a investitori istituzionali (direttamente o tramite Atlantia), 40 a piccoli azionisti.
A quanto si legge, Cassa depositi e prestiti entrerà in Aspi con circa il 33 per cento. Non sappiamo ancora se questo avverrà con un aumento di capitale dedicato o se avverrà dopo che Aspi sia entrata in borsa (nel qual caso, probabilmente la Cassa resterebbe sotto il 30 per cento, per non essere obbligata a un’offerta pubblica di acquisto su tutte le altre azioni come previsto dalla legge), ma ci si attende un impegno di Cdp tra i 3 e i 4 miliardi. Il valore odierno di Aspi è stimato tra 9 e 12 miliardi, mentre quello di tre anni fa – precedente il crollo del ponte Morandi – pare si collocasse attorno ai 14,8 miliardi; se la differenza sia sufficiente a compensare la liability legata al crollo del ponte Morandi non è facile a dirsi. Atlantia venderà inoltre parte del suo residuo pacchetto di azioni ad alcuni fondi infrastrutturali “graditi alla Cassa”, che potrebbero avere il 22 per cento della nuova Aspi.
La nuova società autostrade
Concluse queste operazioni, l’azionariato di Aspi dovrebbe dividersi tra la Cassa depositi e prestiti (attorno al 30 per cento), Atlantia (con il 35-40 per cento), gli investitori istituzionali già oggi presenti in Aspi e nuovi investitori istituzionali, che dovrebbero avere il 22 per cento. A questo punto, Atlantia distribuirà le azioni di Aspi ai propri azionisti. In particolare, poiché Sintonia ha il 30 per cento di Atlantia, almeno l’11 per cento di Aspi sarà conferito ai Benetton.
Grazie al decreto “Milleproroghe” di fine 2019, oggi Aspi ha un valore di indennizzo in caso di revoca (poco meno di 8 miliardi) inferiore ai suoi debiti (quasi 10), così che ha maturato problemi finanziari enormi. Fino alla sistemazione di queste partite, il suo rating la classifica come “junk”, un’impresa non finanziabile. La sola ricapitalizzazione che avviene tramite l’ingresso della Cassa dovrebbe consentire di superare questo momento – non è chiaro se vi si accompagnerà anche l’assegnazione di un valore di indennizzo, in caso di revoca della concessione, più alto dell’attuale: parrebbe poco coerente con l’intero impianto, ma vedremo. Con l’ingresso della Cassa, non sembrerebbe necessario.
Un metodo a dir poco discutibile
Del passato abbiamo già parlato e non vale la pena di ripetere troppi dettagli. La concessione fu ceduta nel 1999 per ridurre il debito pubblico (il Tesoro incassò 13 mila miliardi di lire) e poi è stata prolungata con condizioni economiche sicuramente generosissime. Per quali ragioni alcuni tuttora ritengano che questa vendita fu uno scandalo, mentre la cessione a titolo praticamente gratuito di altre concessioni autostradali passa invece sotto silenzio, è un mistero tutto italiano. I controlli sono stati pochi, se non nulli. Gli investimenti promessi tanti, quelli effettuati pare siano molti meno. Con la particolarità che finora gli aggiornamenti tariffari erano quasi automatici e non erano basati sugli investimenti effettivi.
Tutto sbagliato, o quasi, insomma. Ma riparare a un torto con un altro torto non mi è sembrata una grande idea. Perché non si è mai visto in Occidente uno stato sovrano che impone un cambio di proprietà a un’azienda privata. Si vuole revocare la concessione? Se ci sono gli estremi, giusto farlo. Se no, perché minacciare l’impresa per imporre un cambio di proprietà? Il metodo Putin non mi è mai piaciuto. In Italia le proposte “che non potrai rifiutare” lasciamole ad altri soggetti.
Piuttosto, dopo il crollo del ponte Morandi mi sarei aspettato due cose.
La prima è un accertamento delle responsabilità. Invece, a 24 mesi dal disastro, ancora non si sa se la colpa sia della progettazione, del costruttore, del collaudatore, di chi doveva effettuare la manutenzione, di chi doveva controllare sulla gestione, oppure se è stata forza maggiore. Per carità, lasciamo pure lavorare la giustizia, che da due anni non ha trovato alcuna risposta; ma in quanti paesi questo sarebbe normale? È un problema della giustizia italiana? Sicuramente, ma in Italia si fanno commissioni parlamentari su qualunque cosa, mentre qui ci si è ben guardati dal provarci, nonostante fosse il principale casus belli politico degli ultimi anni. Come mai? Forse perché il tribunale del popolo aveva già condannato Aspi (meglio: i Benetton) come unica responsabile. E questa verità – mai accertata – non doveva essere turbata.
Inoltre, poiché si dice (probabilmente a ragione) che Aspi non ha fatto tutti gli investimenti e le manutenzioni che avrebbe dovuto, mi sarei aspettato che il governo facesse partire un audit dei comportamenti del concessionario pubblico, per verificarne le scelte e documentarne le eventuali mancanze. Se queste mancanze fossero emerse, sarebbe stato più facile arrivare alla revoca della concessione che il presidente del Consiglio diceva di volere. Ma l’analisi non è mai stata fatta. Si continua a dire che “non hanno fatto gli investimenti”, ma il governo, pur avendo accesso a tutti i dati, non ha mai documentato nulla. Oltre tutto, si sa che in Italia una gran parte degli investimenti in infrastrutture non si riesce a fare per ragioni burocratiche, ma qui pare sia tutta colpa di Aspi.
Odio la cultura del sospetto. Ma è difficile capire perché il governo (meglio, i governi: Conte 1 e Conte 2) abbia agito in questo modo. Forse perché al ministero sanno benissimo che se ci sono responsabilità del concessionario, ce ne sono anche al ministero, che doveva vigilare e non ha vigilato, e in altre amministrazioni pubbliche che dovevano autorizzare e non hanno autorizzato? O il problema era una concessione del tutto sbilanciata, al cui interno Aspi si è mossa senza violazioni formali ma sfruttandone le evidenti carenze? In altre parole, quali erano gli obblighi veri di investimento? E se questi obblighi non sono stati assolti, è una violazione della concessione o gli impegni erano in realtà poco stringenti? Sarebbe facile verificarlo e inchiodare Aspi alle sue responsabilità (se ci sono): perché non farlo? In ogni caso, si è preferito far andare avanti il tribunale del popolo che ha già preparato la sua gogna, piuttosto che analizzare i fatti. Che magari confermerebbero che Aspi non ha fatto quanto doveva. Ma che forse avrebbero detto anche altre cose.
I problemi aperti
L’aspetto cruciale (positivo) è che a quanto pare Aspi accetterà le nuove tariffe stabilite dall’Autorità dei trasporti. Presentano una remunerazione del capitale minore della attuale (circa 7 per cento prima delle tasse) ma comunque “di mercato”. A quanto si legge, i pedaggi dovrebbero scendere di circa il 5 per cento nei primi anni, il che andrebbe ben oltre le richieste dall’Autorità. Non è chiaro come questo possa avvenire se non come atto unilaterale di Aspi, sicuramente non è l’Autorità che lo può imporre: esistono criteri oggettivi che l’Autorità ha indicato e non mi pare che sulla loro base si possa decretare una diminuzione una tantum non legata a un’analisi dei dati di bilancio di Aspi.
Pare che la concessione di Aspi sarà rivista anche in altri aspetti, ma ancora non si sa in che modo, né esattamente quando. La tempistica di questi passaggi è cruciale. È piuttosto ovvio che dal momento in cui entra la Cassa depositi e prestiti, lo Stato italiano non apporterà alcun ritocco al ribasso dei profitti. Quindi, questi interventi devono essere effettuati prima dell’arrivo dei nuovi azionisti. Chi acquisterà lo farà considerando il valore di Aspi che emergerà dai cambiamenti della convenzione e sconterà nel prezzo di acquisto qualunque cambiamento sia stato effettuato e qualunque eventuale rischio residuo. Questi interventi – e una serie di dettagli tecnici – decideranno il valore di Aspi, quanto dovrà sborsare la Cdp e quanto entrerà nelle tasche di Atlantia dalle cessioni. Pensare che qualcuno metta soldi in Aspi prima di questo mi pare del tutto futile. Lo stesso vale per la determinazione del danno che Aspi potrebbe essere chiamata a pagare per il ponte Morandi: rischi eccessivi renderebbero le azioni praticamente invendibili, se non ad azionisti che si sentano politicamente e giuridicamente “protetti”.
Anche la scelta dei nuovi azionisti (la clausola di gradimento a favore della Cassa depositi e prestiti) sarà una partita interessante. È facile prevedere che Cdp e i nuovi investitori a lei graditi costituiranno la maggioranza di controllo dell’impresa. Il tema è che questi investitori dovranno acquistare da Atlantia, ma dovranno avere il gradimento (si immagina, motivato) della Cassa. Ovviamente, Atlantia vorrebbe un parterre di potenziali investitori il più ampio possibile per spuntare il prezzo migliore. Si tratta di un investimento complessivo stimabile in oltre 2 miliardi e se si imponesse la clausola della italianità, che ora qualcuno reclama, il numero dei fondi plausibili diminuirebbe drasticamente. Difficile capire come equilibrare gli interessi in gioco.
Infine, Aspi dovrebbe essere quotata in borsa. Si noti che la grande maggioranza del suo capitale potrebbe essere bloccato presso la Cassa e una serie di grandi investitori istituzionali. In partenza, la quota nelle mani di piccoli azionisti (quanto “piccoli” sarà poi da verificare) si può stimare in circa il 17 per cento. Non certo un titolo molto liquido, il che porrà altre questioni su chi volesse investire.
Molte cose restano indefinite. La cosa certa è che Aspi è destinata a restare in mano pubblica, verosimilmente per alcuni decenni. Sul fatto che sia un buon risultato per il paese, il dibattito è aperto.
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