Dopo diverse false partenze, l’idrogeno torna protagonista della strategia energetica europea. Potrà davvero essere utile nella decarbonizzazione di alcuni settori industriali? Dipende da molti fattori, a partire dal buon utilizzo dei fondi europei.
Promesse non mantenute
L’8 luglio la Commissione europea ha annunciato la nuova strategia dell’idrogeno. Si tratta di un piano ambizioso che ha l’obiettivo di facilitare la transizione energetica e assicurare un piano di rilancio industriale post Covid-19. Non è la prima volta che se ne parla. Nel 2002, il libro The Hydrogen Economy di Jeremy Rifkin formulava la visione nuova e ambiziosa di una società nella quale l’idrogeno era identificato come motore di una nuova rivoluzione sociale e industriale, pari a quella del carbone. Niente di nuovo, in realtà: se ne era discusso negli anni Settanta e nell’800 l’elemento era stato addirittura utilizzato per alimentare i primi motori a combustione.
Tuttavia, quasi tutte quelle aspettative non si sono realizzate. Il consumo di idrogeno è cresciuto (è raddoppiato negli ultimi venticinque anni), ma solo per applicazioni industriali e quasi interamente prodotto da fonti fossili. Oggi, la produzione di H2 genera due volte e mezzo la CO2 prodotta dall’Italia. Come può essere la via di uscita dalla crisi climatica?
La confusione deriva dalla natura stessa dell’idrogeno. È un vettore energetico. Può essere generato a partire da combustibili fossili come gas naturale e carbone. Oppure dall’elettrolisi dell’acqua, usando qualsiasi fonte di energia, come l’elettricità da rinnovabili o il calore dal nucleare. Nel primo caso, l’H2 non aiuta necessariamente il clima: si parla di grey hydrogen o di blue hydrogen nel momento in cui le emissioni di CO2 vengono catturate e stoccate. Nel secondo, abbiamo il vero a proprio green hydrogen, con emissioni di CO2 e di altri inquinanti praticamente nulle. Per quanto riguarda gli usi, l’idrogeno è estremamente flessibile: può essere usato per il trasporto, il riscaldamento, la generazione elettrica e in industrie energivore come l’acciaio.
Dove può essere utile l’idrogeno
Alcuni di questi settori, come il trasporto e l’industria pesante sono difficili da decarbonizzare. L’idrogeno potrebbe essere una soluzione efficace, anche perché può aiutare a stabilizzare un sistema elettrico con molte rinnovabili.
Varie questioni rimangono però da risolvere. Innanzitutto, i costi: come si vede dalla figura 1, oggi i costi più bassi rimangono quelli dell’idrogeno grigio, da gas o carbone. Per essere competitivo quello blue, con lo stoccaggio dell’anidride carbonica che permette di ridurre le emissioni di più della metà, richiede un prezzo della CO2 tre volte superiore a quello attuale nel mercato europeo delle emissioni. Infine, l’idrogeno verde generato dall’elettrolisi dell’acqua con fonti rinnovabili è decisamente più costoso ed è conveniente solo in applicazioni di nicchia. Il progresso tecnico è però un motore potente, come si è visto per il caso del fotovoltaico: il costo dell’elettrolisi continua a calare e alcuni studi prevedono il break even dell’idrogeno verde già tra dieci anni. E tuttavia la realtà è che, oltre ai bassi costi di investimento, l’elettrolisi ha bisogno di bassi prezzi dell’elettricità e di alti fattori di utilizzo.
La seconda questione è quella infrastrutturale. L’idrogeno è difficile da stoccare e trasportare. È però possibile trasformarlo in combustibili derivati, che utilizzano infrastrutture energetiche già esistenti. Ma per il momento la trasformazione è costosa.
Figura 1 – Range di costi di produzione dell’idrogeno per diverse fonti e previsioni al 2030 (punti rossi)
Fonte: IEA, The Future of Hydrogen, 2019
Così l’idrogeno diventa “verde”
Perché crederci questa volta? La ragione principale è il supporto di Bruxelles, su spinta tedesca. La Commissione vuole la totale decarbonizzazione a metà secolo, ed è conscia che c’è bisogno di tutti i mezzi possibili per farlo. Le rinnovabili da sole non basteranno. L’idrogeno potrebbe aiutarne lo sviluppo, moderandone l’intermittenza. Ma il tris vento-sole-H2 richiederà uno sviluppo enorme della generazione verde, con fattori di utilizzo molto più alti di quelli attuali. L’Europa, visto lo spazio limitato, probabilmente non sarà autosufficiente: importare da altri paesi, per esempio quelli di Nord Africa e Medio Oriente, potrebbe essere una soluzione vantaggiosa anche per l’Italia, ma al costo di una continua dipendenza energetica. Da un punto di vista politico, l’idrogeno ha diversi vantaggi: migliora l’inquinamento locale (che ogni anno in Italia uccide il doppio del Covid) e porta sviluppo economico e innovazione. È poi trasversale, coinvolge molti settori tecnologici e manufatturieri e piace anche al fossile.
Proprio per questo sono in diversi a temere che la strategia dell’idrogeno aumenti il lock-in delle fonti fossili, soprattutto del gas naturale. Nuove stime evidenziano come le emissioni di metano associate all’estrazione dei combustibili fossili siano drasticamente aumentate, seppure non in Europa. Questo getta un’ombra sull’idrogeno blu, rispetto al quale la strategia europea e quella tedesca, che l’ha anticipata, lasciano la porta aperta. Allo stesso tempo, l’idrogeno blu potrebbe riempire un vuoto, con benefici per l’industria chimica e quelle pesanti, come l’ex Ilva. I finanziamenti del Just Transition Fund (40 miliardi di euro) possono aiutare, tuttavia la cattura della CO2 ha precedenti difficili e l’idrogeno per l’acciaio rimane lontano.
È dunque chiaro che il futuro dell’idrogeno resta molto incerto, nonostante la volontà politica europea. Se questa sarà la volta buona dipenderà da tanti fattori, in particolare dal buon uso di risorse pubbliche, dall’esito di progetti pilota e dalla velocità di decarbonizzazione dell’economia europea.
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