In Italia la quota di spesa pubblica sul Pil non è di molto superiore alla media dell’Eurozona e dei paesi “frugali”. Ma il finanziamento del debito comprime inevitabilmente le risorse disponibili per i servizi ai cittadini, gli investimenti e la ricerca.
La spesa pubblica nei paesi dell’Eurozona
La pandemia ha fatto riscoprire il ruolo fondamentale del settore pubblico in una economia avanzata evidenziando anche alcuni “fallimenti del mercato” in settori insospettabili come disinfettanti, tute, mascherine e guanti e, in Germania, perfino la carta igienica. Nonostante ciò il modello europeo ha tenuto, mentre gli Usa, che hanno sempre rifiutato il nostro sistema di welfare, pagano al Covid-19 un tributo alto, già quasi 130 mila vittime (più del doppio dei caduti americani in Vietnam) e solo il 31 per cento di guariti tra i contagiati, contro il 77 per cento dell’Italia e il 42 per cento della Grecia (che è il fanalino di coda europeo).
La rivalutazione dell’intervento pubblico in economia non ha placato le polemiche sul peso del fisco, che pure rimane la principale fonte di finanziamento dei servizi e dei sussidi a cittadini e imprese. Ma valutare la pressione fiscale senza tener conto del livello delle corrispondenti prestazioni non ha senso. Nella tabella 1 sono sintetizzati i dati Eurostat sulla spesa pubblica riclassificata secondo le funzioni Cofog e relativi al 2018.
Prima della pandemia, il settore pubblico “assorbiva” il 47 per cento del Pil dell’Eurozona e richiedeva dunque un corrispondente livello di imposizione per mantenere il bilancio in pareggio, anche se il ricorso al deficit ha abbassato la pressione fiscale effettiva nella maggior parte dei paesi europei. Al di là delle differenze istituzionali e metodologiche, la spesa pubblica era lievemente superiore in Italia (48,4 per cento del Pil), contro una quota di circa il 48 per cento tra i cosiddetti paesi frugali (Svezia, Danimarca, Olanda e Austria). In Francia la quota era del 56 per cento. Solo in Germania il rapporto era significativamente inferiore (44,6 per cento). Probabilmente la pandemia farà aumentare, almeno temporaneamente, l’incidenza della spesa sul Pil, portando la media dell’Eurozona poco al di sotto del 60 per cento, sia per il crollo della produzione (-10 per cento), sia per gli interventi straordinari a favore di famiglie e imprese (+10 per cento). Tuttavia, è probabile che, a politiche invariate, le differenze relative tra i paesi evidenziate dai dati pre-crisi non cambieranno troppo, come suggeriscono i dati medi dell’ultimo decennio sintetizzati nel grafico 1, che pure risentono degli effetti di shock macroeconomici estremi come la grande recessione e la crisi dei debiti sovrani.
Il costo del debito e quello della burocrazia
Gran parte dello svantaggio dell’Italia deriva dal costo del debito pubblico. Al netto di questa componente, l’incidenza della spesa pubblica sarebbe del 44,5 per cento, ossia lievemente inferiore alla media dell’Eurozona e non molto superiore a quella della Germania (rispettivamente al 45 e al 43,6 per cento, escludendo il costo del debito). Come mostra il grafico 1, si tratta di un handicap sostanzialmente invariato nel corso degli ultimi dieci anni. Finché il nostro debito sarà così elevato, avremo sostanzialmente tre alternative: (i) pagare più tasse del resto d’Europa per un importo tra il 2 e il 3 per cento di Pil, a parità di livello dei servizi pubblici, pensioni e investimenti; (ii) rinunciare a un corrispondente ammontare di prestazioni a parità di tasse; (iii) rendere il nostro settore pubblico molto più produttivo dei nostri partner europei, anche se tale strategia, oltre a essere ardua, richiede tempi lunghi.
Per quanto riguarda il costo della pura “burocrazia” (dagli organi di governo fino agli uffici amministrativi dei vari enti, inclusi nella voce Cofog “servizi generali”) al netto del costo del debito pubblico, l’Eurostat segnala che in Italia l’amministrazione generale incide poco meno che nel resto dell’Eurozona ed è tra 7 e 8 decimi di Pil al di sotto della Germania e dei paesi “frugali”. L’ammontare complessivo delle retribuzioni nella pubblica amministrazione italiana rispetto al Pil è in linea con la media dell’Eurozona ed è superiore solo alla Germania. Questi risultati, tuttavia, potrebbero essere influenzati dal trade-off tra costo della burocrazia finanziato tramite la fiscalità generale e oneri amministrativi direttamente a carico dei cittadini. Per esempio, nella classifica di “Doing Business” della Banca Mondiale relativa alle sole imprese, la Germania è al 22mo posto per efficienza della pubblica amministrazione, la Francia al 32mo e l’Italia solo al 58mo.
La tabella 1 mostra che per ogni euro di tasse e contributi versati dai cittadini italiani, 86 centesimi tornano loro sotto forma di servizi pubblici, pensioni e sussidi. La quota è superiore agli 84,7 centesimi della Germania, ma inferiore agli 86,5 della media dell’Eurozona e ai quasi 90 di Francia e “frugali”. Se si esclude la quota necessaria a remunerare il debito pubblico, il “tasso di restituzione” italiano sfiorerebbe il 94 per cento, superando quello di tutti i paesi considerati. Nessuna impresa privata riuscirebbe a erogare le stesse prestazioni con un rapporto così elevato tra costi di produzione ed entrate. Quindi, anche al netto delle discrepanze contabili e statistiche, le prestazioni della pubblica amministrazione italiana non possono essere definite apoditticamente troppo costose. Al massimo, si può sostenere che i nostri servizi siano di scarsa qualità, anche se la crisi del Covid-ha dimostrato mediamente una buona efficienza e adattabilità della sanità pubblica (che, incidentalmente, è tra le migliori e meno costose del mondo secondo gli indicatori Oecd), dell’istruzione e della sicurezza. Vari settori privati non hanno dato prove migliori.
Il principale difetto della spesa pubblica italiana non è tanto il suo ammontare complessivo, che al netto degli oneri del debito è sostanzialmente in linea con la media dell’Eurozona, quanto una struttura funzionale fortemente sbilanciata rispetto ad altri paesi. Ad esempio, gli investimenti non superano il 2,1 per cento del Pil contro una media del 2,7 per cento nell’Eurozona e picchi del 3,7 per cento tra i “frugali”. Come si vede dal grafico 1, il divario è peggiorato dal 2009 in poi. Stato e regioni spendono solo il 6,8 per cento del Pil per la salute, contro una media del 7,1 per cento dell’Eurozona e un record dell’8,1 per cento in Francia, con un peggioramento nel tempo del nostro svantaggio. Sull’istruzione pubblica, l’Italia investe solo il 4 per cento del Pil, contro il 5,8 per cento dei “frugali”. Alla ricerca è poi destinato solo l’1,1 per cento del Pil, contro l’1,3-1,7 per cento degli altri paesi avanzati, più o meno come negli ultimi anni. Solo ai percettori di pensioni e sussidi sono riservate risorse relativamente superiori alla media dell’Eurozona e in crescita, anche a causa dell’invecchiamento della nostra popolazione e di un più elevato livello di disoccupazione.
È comprensibile che una distribuzione delle risorse pubbliche così distorta generi insoddisfazione tra molti contribuenti. Qualsiasi agenda di riforme dovrebbe dunque partire dalla ristrutturazione della spesa verso criteri più “europei”. I fondi che saranno messi a disposizione dall’Europa rappresentano forse l’ultima occasione per aumentare la quota degli investimenti e per rafforzare il sistema sanitario, quello dell’istruzione e della ricerca. Non è richiesto uno sforzo eccessivo, visto che un riequilibrio delle diverse voci verso la media europea, escludendo l’onere del debito pubblico, comporterebbe una riallocazione delle risorse per un ammontare complessivo pari a circa il 3 per cento del Pil. Lo si potrebbe fare spostando le somme dalle prestazioni sociali verso servizi e investimenti, oppure con il ricorso a un aumento della pressione fiscale di un paio di punti, lasciando invariate le prestazioni sociali.
Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.
4 Commenti