Pandemia e lockdown potrebbero portare alla rottura delle catene internazionali di fornitura alla produzione. Un nuovo colpo al multilateralismo, dopo quello provocato dal ritorno dei protezionismi. Ma l’Unione Europea ha una risposta pronta.
Il ritorno del protezionismo
Nubi nere si addensano sul commercio internazionale: le nuove minacce provocate dalla pandemia sanitaria si aggiungono a una situazione connotata da grande negatività, dovuta al progressivo abbandono – da parte di molti attori di peso – della dottrina post-seconda guerra mondiale del multilateralismo, per assumere comportamenti protezionistici-mercantilistici.
Lo slogan “America First” dell’attuale amministrazione Usa non è altro che l’espressione più eclatante di un atteggiamento neomercantilistico, che persegue l’obiettivo di vantaggi immediati attraverso la conclusione di accordi bilaterali da raggiungere tramite pressioni sui partner. La Cina non è da meno, tanto da essere accusata di abusare dei benefici del sistema multilaterale e di tentare di imporre nuove regole con il solo scopo della difesa dei propri interessi. E infatti nel 2017 era suonata stonata la dichiarazione del presidente cinese Xi Jinping al World Economic Forum a difesa dei mercati aperti, della globalizzazione e delle istituzioni internazionali, con la quale intendeva di fatto sostituirsi agli Usa quale paladino del multilateralismo.
La svolta ha avuto inizio nel 2006, con l’ufficializzazione dello stallo del Wto (Organizzazione mondiale del commercio), cioè dei negoziati del Doha Round lanciato nel 2001. Anni più tardi ha completato l’opera il blocco del panel deputato alla risoluzione interna delle controversie fra paesi membri, provocato dalla mancata nomina dei giudici americani, decretata dall’amministrazione Trump sulla base della convinzione dell’incapacità sanzionatoria nei confronti della grande antagonista degli Usa, la Cina appunto.
Punto di arrivo di una realtà così compromessa è stato l’annuncio delle dimissioni dell’attuale direttore del Wto, Roberto Azevedo: lascerà l’incarico a settembre 2020, con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale. La decisione di Azevedo ha l’intento dichiarato di richiamare tutti i protagonisti alle proprie responsabilità per trovare una via d’uscita allo stallo attuale. In un contesto differente, la notizia avrebbe suscitato scalpore, mentre purtroppo è caduta quasi nel vuoto.
Il lockdown seguito alla pandemia ha complicato tutto: quella che era una frenata nella globalizzazione, si teme possa trasformarsi irrevocabilmente in una rottura delle catene internazionali di fornitura alla produzione, con un loro accorciamento su base regionale, quando non addirittura nazionale.
Le conseguenze per l’Unione europea
Quali saranno le conseguenze sull’Unione europea e sulle sue relazioni commerciali esterne?
Quella europea non solo è un’economia aperta che non può fare a meno del commercio mondiale, ma ne rappresenta uno dei maggiori protagonisti, grazie all’azione della Politica commerciale comune, uno degli elementi più significativi del processo di integrazione europeo, la cui efficacia risiede nella struttura federale: un singolo negoziatore per i ventisette stati membri e 500 milioni di consumatori.
Tre le sue parole d’ordine, apertura, regole e competizione, che significano non un’aprioristica e ideologica adesione della Ue al principio del libero scambio, ma la ricerca di una ponderata apertura dei mercati, al fine di garantire un concreto beneficio all’economia europea nel rispetto di regole ritenute vitali non solo per la promozione di un commercio sostenibile, ma anche per smussare la globalizzazione nelle sue ricadute negative sulle componenti più esposte della società europea.
Il collasso del multilateralismo ha spinto anche l’Ue verso negoziati bilaterali, aumentati dal 25 per cento del passato al 40 per cento del presente. Gli obiettivi sono due. Il primo, semplice, consiste nel perseguire l’apertura dei mercati dei paesi terzi attraverso la rimozione dei dazi doganali e delle barriere non tariffarie a beneficio degli esportatori europei sia per i beni che per i servizi. Il secondo, più ambizioso, mira a ottenere l’adozione di regole concepite per rendere gli scambi sicuri e per proteggere gli operatori, ad esempio quelle che governano la proprietà intellettuale, la protezione dei consumatori e degli investimenti esteri, così come l’istituzione di un organismo per la risoluzione delle controversie ispirato al sistema del Wto.
Nelle negoziazioni si aggiunge un’agenda normativa nella fattispecie di un “capitolo sullo sviluppo sostenibile” che racchiude impegni comuni concernenti i diritti dei lavoratori e la tutela dell’ambiente, così come l’opportunità di aggiungere altri temi ai negoziati.
Lo scopo è di costruire uno strumento negoziale consolidato, applicabile ai diversi accordi per giungere a un regime uniforme quale meccanismo efficiente ed efficace per regolamentare gli scambi internazionali, soprattutto nella malaugurata evenienza che non si possa prescindere in futuro dal bilateralismo.
Una sorta di modello europeo che permetta a una Ue compatta di non fare la fine del vaso di coccio fra i tanti vasi di ferro, almeno sul piano degli scambi internazionali.
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