La regolarizzazione degli immigrati irregolari è oggi necessaria per ragioni di salute e di ordine pubblico. E va attuata rapidamente per riprendere il controllo del territorio. La bozza di decreto legge governativo è insufficiente su entrambi i fronti.
La regolarizzazione secondo il governo
Circola da diversi giorni una bozza di decreto legge concordata tra i ministeri competenti (Agricoltura, Interni e Lavoro) con cui dovrebbero essere regolarizzati lavoratori stranieri in condizioni di soggiorno illegale, a condizione che i datori di lavoro nei settori dell’agricoltura, dell’allevamento, della pesca e dell’acquacoltura chiedano di assumerli alle loro dipendenze. È un provvedimento richiesto a gran voce dalle organizzazioni datoriali, che vorrebbero assumere operai agricoli che abbiano avuto qualche esperienza nel campo.
L’idea di procedere a una regolarizzazione è senz’altro positiva, con benefici evidenti per quei settori dell’economia, oggi a corto di manodopera a causa della chiusura delle frontiere a molti lavoratori stagionali, delle misure di contenimento della mobilità adottate per far fronte all’epidemia di Covid-19 e dei congedi per malattia e per la cura di persone malate. Il provvedimento, però, non è in grado di affrontare i problemi di salute e di ordine pubblico che dovrebbero essere alla base di una norma di regolarizzazione durante l’emergenza coronavirus, perché riguarda una frazione molto limitata degli immigrati oggi presenti in Italia e non necessariamente quelli più a rischio di essere contagiati e di contagiare altre persone. In più, le procedure sono troppo macchinose per essere messe in pratica nelle attuali condizioni di emergenza.
Quanti lavoratori coinvolti?
L’Istat rende disponibili stime unicamente del totale del sommerso lavorativo oggi presente in Italia, senza distinguere fra lavoratori italiani e immigrati.
La tabella 1, redatta per il 2017, ultimo anno in cui sono disponibili i tassi di irregolarità Istat, mostra che l’agricoltura, nonostante sia uno dei settori in cui è più diffuso il sommerso da lavoro, costituisce solo il 6 per cento del totale degli occupati irregolari stimati, che sono più di 3 milioni. Ad esempio, la sola ristorazione occupa tre volte il numero di irregolari stimati in agricoltura.
Più difficile avvicinarsi a una stima precisa per il lavoro domestico. Il settore Istat “Attività di famiglie e convivenze come datori di lavoro per personale domestico, produzione di beni e servizi indifferenziati per uso proprio da parte di famiglie e convivenze” ha un sommerso dal lavoro circa quattro volte più grande dell’agricoltura e si stima comunemente che gli iscritti alla gestione Inps colf e badanti siano circa la metà di quelli operanti nel nostro paese. Quindi, anche secondo questa stima un po’ grossolana, i lavoratori in nero nel settore dei servizi alle persone sarebbero circa 900 mila.
Esistono stime del numero di immigrati irregolari in Italia. L’Ispi fa riferimento a una platea di circa 650mila persone: la metà sarebbero occupate necessariamente in nero, essendo illegali in Italia. Questo significa che gli immigrati irregolari rappresentano circa il 10 per cento del totale in Italia, più o meno in linea con la loro quota sulla popolazione complessiva. Anche assumendo che in agricoltura la percentuale sia tre volte quella media, gli immigrati irregolari che beneficerebbero del provvedimento del governo sarebbero circa 65 mila, quindi non più di un decimo degli stranieri irregolari in Italia.
Il problema sanitario
Rimarrebbero fuori gli immigrati irregolari che sono più a rischio di rimanere contagiati e di contagiare le persone fragili, come le colf e badanti e molti fra coloro che risiedono in grandi centri urbani anziché in zone rurali.
La precarietà delle condizioni di vita degli stranieri illegalmente soggiornanti e l’impossibilità, per loro, di fruire di una assistenza sanitaria completa, con l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale e la scelta del medico di base, comporta, in tempi di pandemia, una minaccia grave alla loro salute e a quella di tutta la popolazione. Oggi le leggi assicurano anche allo straniero irregolare le cure urgenti gratuite e senza rischio di segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza. Quelle norme, però, richiederebbero allo straniero irregolare che accusi sintomi sospetti di recarsi direttamente al pronto soccorso, senza la possibilità di consultare il medico di base. E nessuno di noi, oggi, andrebbe in un posto pericoloso come il pronto soccorso per un po’ di tosse o per qualche linea di febbre. Il risultato è che lo straniero irregolare che contragga il coronavirus continuerebbe a circolare per parecchi giorni prima di essere ricoverato o isolato. Se poi l’isolamento deve essere effettuato in un appartamento condiviso con molti immigrati in condizioni altrettanto precarie oppure nei centri di accoglienza resi affollati dal decreto Salvini, è chiaro che il contributo di una sola persona alla diffusione del contagio potrebbe essere formidabile.
Il provvedimento appare quindi del tutto insufficiente nell’affrontare i problemi di salute pubblica che dovrebbero oggi essere alla base di una regolarizzazione.
Procedura troppo complessa
Ma forse il problema più grave della bozza di decreto è che la procedura prevista per la regolarizzazione è terribilmente complicata, alla luce del blocco attuale degli uffici stranieri delle questure, che già prima dell’insorgere dell’epidemia avevano accumulato ritardi superiori a sei mesi nella trattazione delle domande di rilascio e rinnovo dei permessi. Per di più, la bozza prevede che i permessi siano rilasciati con scadenza non posteriore al 31 dicembre di quest’anno o addirittura, in certi casi, al 30 settembre. Molti di questi permessi finirebbero così per essere rilasciati con una durata di pochissimi giorni.
Cosa è possibile fare?
Cosa dovrebbe fare allora il governo? Procedere a una regolarizzazione immediata e non appesantita da adempimenti burocratici, prevedendo il rilascio di un permesso di soggiorno sulla base della semplice richiesta dello straniero. Il permesso (meglio: la semplice ricevuta della richiesta) dovrebbe consentire da subito la ricerca e lo svolgimento di attività lavorativa, l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale, l’iscrizione anagrafica (anche in qualità di “senza fissa dimora”, se necessario) e l’accesso all’assistenza da parte dei servizi sociali del comune di residenza.
Il permesso potrebbe essere rilasciato per motivi di “protezione umanitaria”; e sarebbe opportuno che il governo cogliesse l’occasione per ripristinare questo istituto, improvvidamente soppresso dal primo dei decreti Salvini.
Oggi non si può prevedere la durata dell’emergenza, dunque la scadenza dei permessi dovrebbe essere prorogabile d’ufficio, con semplice decreto del presidente del Consiglio dei ministri, come fu fatto per i permessi rilasciati in occasione del regime di protezione temporanea istituito nel 2011, in occasione delle “primavere arabe”.
Una volta avviata l’attività lavorativa regolare, lo straniero dovrebbe poter convertire il permesso “di emergenza” in uno per lavoro, non più legato alla durata della pandemia. Allo scopo di favorire una più forte stabilizzazione dei migranti che già svolgono un’attività lavorativa si può prevedere di far seguire alla regolarizzazione immediata o di emergenza una sanatoria semplice, in cui il datore possa dichiarare il rapporto di lavoro non regolare contro il pagamento di una sanzione nell’ordine di circa 500 euro (un mese di contribuzione evasa) e si potrebbe pensare alla restituzione di tale contributo, qualora il rapporto instaurato raggiunga una certa durata minima, ad esempio un anno.
Al termine dell’emergenza, si potrebbe prevedere la possibilità di prolungamento del soggiorno per coloro che non hanno trovato un lavoro, ma che possono dimostrare di aver trovato uno sponsor, ossia una persona fisica o giuridica che si faccia carico dell’accoglienza dello straniero per un tempo determinato.
* Le opinioni espresse da Edoardo Di Porto sono esclusivamente personali e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.
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