Le donne sembrano essere meno suscettibili degli uomini al contagio da Covid-19. Ma non è vero per quelle che hanno meno di 50 anni. La spiegazione potrebbe essere nei tassi di occupazione, che per le più giovani sono vicini a quelli degli uomini.
Il contagio per fascia di età
Non sarebbe la prima volta che le donne prendono il posto degli uomini nei luoghi di lavoro. In Italia è già successo in almeno in due occasioni, quando durante la prima e la seconda guerra mondiale hanno sostituito gli uomini che erano al fronte.
La possibilità di “mandare avanti” le donne, quando l’attività economica dovrà gradualmente riprendere dopo la rimozione delle misure di distanziamento sociale imposte dall’epidemia di Covid-19, è stata ventilata ripetutamente. Le donne italiane stanno infatti dimostrando una minore suscettibilità al contagio rispetto agli uomini. Gli ultimi dati diffusi dall’Istituto superiore di sanità consentono di approfondire la questione. Fino al 6 aprile 2020 risultano in Italia oltre 124.500 casi diagnosticati di Covid-19, di cui la maggioranza (il 53,1 per cento) effettivamente di sesso maschile. Suddividendo i dati per fasce di età, si nota tuttavia che tra i 20 e i 49 anni il numero di casi è in realtà maggiore per le donne. Per esempio, nella fascia 20-29 i maschi sono solo il 43,3 per cento. È soltanto dopo i 50 anni che tra i contagiati le donne sono superate dagli uomini, per poi prevalere di nuovo nella fascia degli ultranovantenni, tra cui sono più rappresentate per motivi demografici.
Anche la letalità appare più elevata per gli uomini, in tutte le fasce di età. Va tuttavia notato che, tra i 20 e i 49 anni, i decessi da Covid-19 sono per fortuna talmente rari da non consentire un confronto affidabile tra sessi. Letalità a parte, mancano ancora dati disaggregati che documentino in quanti casi è stato necessario il ricovero o il ricorso alla terapia intensiva e che permettano quindi di valutare la relativa gravità del decorso della malattia a seconda del genere.
Nel confrontare i dati sul contagio tra sessi, risulta dunque determinante tenere conto dell’età. Virologi ed epidemiologi hanno proposto diverse spiegazioni del relativo vantaggio (in media) delle donne di fronte al contagio (vantaggio peraltro per nulla confermato in molti altri paesi). Sono state avanzate ipotesi di tipo biologico, genetico, epidemiologico, comportamentale. Per esempio, le donne potrebbero essere più protette grazie al loro diverso equilibrio ormonale, alla minore incidenza tra di loro di fumo e co-morbilità, al loro atteggiamento tendenzialmente più ligio di fronte alle norme, alla loro abitudine a un più frequente lavaggio delle mani. Nessuna di queste ipotesi è però stata modulata in base all’età, elemento che invece appare decisivo alla luce dei dati.
Occupazione e Covid-19
Il punto qui è dimostrare che esistono fattori economici e sociali in grado spiegare non solo la differenza tra sessi di fronte al virus, ma soprattutto come questa si inverta a seconda dell’età. Una chiave interpretativa è il relativo profilo occupazionale. Le fasce di età in cui le donne sono più a rischio Covid-19 rispetto agli uomini sono infatti quelle in cui il loro tasso di occupazione è più simile a quello degli uomini. Fermo restando che il tasso di occupazione maschile è maggiore di quello femminile in tutte le fasce di età, i dati Istat per il 2019 rivelano che il divario occupazionale di genere è al suo minimo tra i 25 e i 34 anni e resta relativamente contenuto fino ai 54, per crescere marcatamente tra i 55 e i 64 anni, ovvero proprio quando si riscontra per l’Italia il massimo vantaggio del sesso femminile di fronte al Covid-19.
È dunque legittimo avanzare l’ipotesi – che potrà essere adeguatamente verificata solo quando saranno disponibili dati più completi – che il fatto che le donne si ammalino meno di coronavirus nelle fasce di età relativamente avanzate possa essere dovuto anche a una minore esposizione al rischio di contagio, perché proprio a quell’età le donne lavorano meno ed è ormai chiaro che chi sta casa corre meno rischi di infettarsi rispetto a chi va al lavoro. Ne consegue che “mandare avanti” le donne potrebbe addirittura aggravare il problema invece di risolverlo, tanto più perché non abbiamo alcuna informazione sulla gravità relativa del manifestarsi della malattia.
Non ci soffermiamo qui sui motivi per cui oltre una certa età le donne lavorano meno degli uomini, rispetto alla media – motivi che peraltro sono già largamente studiati.
Resta invece da capire perché nelle fasce di età più giovani le donne si stanno dimostrando più (e non meno) suscettibili al contagio. Tra le possibili determinanti economico-sociali, un’ipotesi è che le donne che lavorano siano più rappresentate all’interno delle professioni di gran lunga più esposte, come i lavori di cura presso ospedali o case di riposo. D’altra parte, le donne tendono a essere più rappresentate anche in occupazioni che, per loro natura, dovrebbero invece risultare più protette (per esempio, attività di tipo impiegatizio facilmente convertibili a forme di lavoro agile) o perché sottoposte a blocco nelle primissime fasi dell’epidemia (per esempio, l’insegnamento). Si veda su questo punto anche l’articolo di Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio. Non si può nemmeno escludere che, di fronte a un numero imprecisato e potenzialmente molto elevato di asintomatici, i dati oggi a disposizione riflettano un effetto selezione, ovvero che gli individui su cui si stanno raccogliendo informazioni non rappresentino le caratteristiche della popolazione contagiata in molte dimensioni, compresa la distribuzione per sesso e per età.
Gli effetti del Covid-19 su donne e uomini meriteranno approfondimenti su molti altri fronti. Secondo il World Economic Forum, sul piano economico e sociale saranno più pesanti per le donne, nonostante la loro maggiore resilienza al virus. Entrambe le previsioni potrebbero essere sbagliate.
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