I coronabond andrebbero introdotti non perché la pandemia sia uno shock simmetrico, ma per creare una unione fiscale in Europa. Difficile però che si realizzino. E tra ricorso al Mes e nuovo debito italiano non è per niente ovvio che cosa sia preferibile.
Coronabond inadatti allo shock simmetrico
La crisi pandemica è oramai di fatto una acuta crisi economica. Un intervento della politica fiscale per sostenere i flussi di reddito di imprese e famiglie è necessario, ma è chiaro che ciò può avvenire solo con un massiccio incremento del debito pubblico.
Le modalità discusse sul tavolo europeo sono essenzialmente tre. La prima è quella dei cosiddetti coronabond. Di fatto, sono titoli di debito garantiti in solido da tutti i paesi europei ed emessi con lo scopo specifico di affrontare l’emergenza sanitaria ed economica.
Il dibattito sui coronabond è molto acceso. Un argomento spesso usato a loro favore è che la pandemia è uno shock che ha colpito i paesi europei in modo simmetrico, e come tale richiede una risposta simmetrica. La logica dell’argomento è però molto fragile. Da un lato, l’intervento necessario è di tipo assicurativo. Ma shock simmetrici, per loro natura, non sono diversificabili tra paesi, cioè con trasferimenti di risorse da uno immune a un altro colpito dallo shock: in questo caso di paesi immuni non ne esistono.
La resistenza del Nord Europa ai coronabond è quindi presto spiegata. Perché di fronte a uno shock simmetrico si dovrebbe mettere in campo uno strumento che per costruzione comporterebbe un trasferimento di risorse da alcuni paesi ad altri? È chiaro infatti che i coronabond si prezzerebbero sul mercato a un rendimento ben più basso del debito italiano e probabilmente più alto dei Bund tedeschi o dei titoli del debito olandesi. Persino un ipotetico ruolo della Banca centrale europea nell’acquisto di questi titoli sul mercato primario (di fatto una monetizzazione, finora vietata) non altererebbe il meccanismo redistributivo tra paesi insito nella struttura stessa dei coronabond.
Agli economisti appare subito chiaro, quindi, che l’esito dei coronabond non possa essere un “equilibrio”, cioè un esito mutualmente conveniente quando valutato dalla prospettiva individuale di ciascun contraente. Tecnicamente non sarebbe diverso se la prospettiva fosse quella del benessere dell’Eurozona nel suo complesso. Di fronte a uno shock simmetrico come quello pandemico uno strumento come i coronabond, che implicano per costruzione una assicurazione implicita tra stati di fronte a shock di natura asimmetrica, non è adeguato. A meno che, ovviamente, non si metta in conto il necessario trasferimento di risorse da un gruppo di paesi (il Nord) a un altro (il Sud), la cui logica si scontra con la natura ritenuta unanimemente simmetrica dello shock pandemico stesso.
Invece gli Eurobond servono
Diverso è il discorso sull’opportunità di introdurre gli Eurobond (cioè una forma generale di coronabond) come meccanismo di completamento della moneta unica. Per propria natura, la zona euro manca di una istituzione che assicuri contro l’incidenza di shock asimmetrici tra paesi (ad esempio una crisi economica che colpisce il paese A, ma non il paese B che appartiene alla stessa unione monetaria). In un sistema di cambi flessibili l’assicurazione sarebbe garantita implicitamente dagli aggiustamenti del tasso di cambio nominale (la valuta del paese colpito dalla recessione si svaluterebbe rispetto a quella del paese non colpito, aiutando la ripresa economica nello stato in difficoltà via una ripresa delle esportazioni). Ma ovviamente la zona euro non è un sistema di cambi flessibili e quindi necessita di essere completata con una forma di unione fiscale che provveda a un meccanismo assicurativo di fronte all’insorgenza di shock asimmetrici. Ma appunto asimmetrici, e non simmetrici, come nel caso della pandemia da Covid.
Se introdurre i coronabond fosse il passo decisivo per arrivare a una istituzione di lungo periodo come gli Eurobond, allora ben vengano. Ma non devono essere giustificati in base alla natura dello shock a cui si trova di fronte oggi la zona euro.
I problemi del Mes
Una seconda soluzione per fronteggiare lo stress fiscale dei paesi della zona euro sarebbe il ricorso al Mes (il Meccansimo europeo di stabilità).
La logica di fondo del Mes è a sua volta di tipo assicurativo, e quindi non dissimile da quella dei coronabond. Il suo capitale è infatti garantito dalle quote di tutti i paesi della zona euro. Un problema specifico è che, oggi, il Mes richiede condizionalità per emettere linee di credito, le quali a loro volta non possono eccedere un orizzonte di due anni. Problemi probabilmente superabili con sufficiente volontà politica. Il vantaggio del Mes è che si tratta di una istituzione già in vigore, la cui credibilità sarebbe indebolita dalla eventuale novità dei coronabond.
Il punto di fondo, in ogni caso, è che non è coerente la logica di chi sostiene che il Mes, diversamente dai coronabond, sia un istituto nato per fronteggiare shock asimmetrici (cioè di un paese individuale) e quindi inadatto a fronteggiare lo shock pandemico, che è invece di tipo comune e simmetrico. Il ricorso al Mes avrebbe le stesse implicazioni redistributive (tra paesi) dell’emissione di coronabond, perché ovviamente un paese come l’Italia potrebbe indebitarsi presso il Mes a un costo inferiore a quello praticato dal mercato (soprattutto se il prestito fosse accompagnato da condizionalità).
Il ricorso al Mes, oltretutto, non risparmierebbe all’Italia un incremento di debito pubblico. Invece che dover ripagare Btp, i futuri governi italiani dovrebbero ripagare il debito contratto con il Mes. Con la possibile complicazione della presenza di condizionalità (seppur probabilmente smorzata) che formalmente è inevitabile (a meno di profonde revisioni dell’istituto).
L’alternativa
La terza opzione sul tavolo per l’Italia, con la sospensione del patto di stabilità, sarebbe quella di ricorrere a un incremento di debito pubblico. In un contesto in cui la Bce (con il programma Pepp – Pandemic emergency purchase programme) di acquisto di titoli pressoché illimitato e di fatto indipendente dalle quote di capitale dei diversi paesi) ha assicurato un robusto ombrello protettivo alla crescita dei rendimenti, l’opzione è meno pericolosa che in passato.
In sintesi, tutto dipende dal confronto tra il beneficio netto di (i) emettere Btp sotto l’ombrello Pepp e (ii) indebitarsi via Mes a tassi ridotti, con titoli a scadenza probabilmente breve, e un fondo di garanzia comune tra stati, seppur con condizionalità. La risposta non è scontata. Anzi, dati i bassi tassi di interesse di mercato e l’assicurazione della Bce, non sembra per niente ovvio che il Mes sia una opzione migliore. In entrambi, i casi l’Italia si troverebbe con maggior debito. Un esito comunque inevitabile per il futuro prossimo.
Vale dunque la pena sostenere la strada dei coronabond. Ma per la ragione giusta (il beneficio di lungo periodo di creare una unione fiscale in Europa) e non sulla base di argomenti errati (lo shock pandemico è simmetrico). Viste però le forti ostilità politiche, non rimangono che le alternative: Mes oppure nuovo debito italiano. E non è per niente ovvio che cosa sia preferibile.
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