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Chi sono i nuovi conservatori inglesi

Le ultime elezioni politiche nel Regno Unito hanno regalato a Boris Johnson una vittoria schiacciante. I risultati consentono di tracciare un identikit del nuovo elettore conservatore: un colletto blu delle aree più povere, più giovane e con un reddito medio più basso di un tempo.

Pazienza per la Brexit, ma il voto ha almeno fatto finalmente chiarezza sulla volontà del popolo e su chi comanda in democrazia? Non proprio. Le elezioni hanno messo a nudo la debolezza istituzionale di quella che si considera la più antica democrazia del mondo. Come ha osservato il filosofo britannico Anthony Grayling sul Guardian, nelle ultime elezioni i candidati favorevoli a rimanere nella Ue hanno conquistato 16,5 milioni di voti, mentre quelli a favore della Brexit hanno ricevuto 14,8 milioni di voti. In altre parole, il sistema elettorale britannico di tipo maggioritario ha fatto sì che paradossalmente quasi due milioni di voti in meno abbiano generato una maggioranza schiacciante di seggi a favore della Brexit. Tre sono le implicazioni politiche. La prima è che il sistema elettorale della più antica democrazia del mondo non sembra poi così democratico. La seconda è che nel Regno Unito non esiste una maggioranza popolare a favore della Brexit. La terza è che la prima implicazione ha reso la seconda irrilevante. Per esempio, per ogni seggio vinto, i conservatori pro-Brexit hanno dovuto conquistare poco meno di quarantamila voti, mentre i Democratici liberali pro-Ue ne hanno dovuti conquistare quasi dieci volte di più.

La spiegazione del paradosso è che, con il sistema maggioritario britannico, i seggi parlamentari vengono assegnati ai candidati che ottengono il maggior numero di voti nel proprio distretto elettorale (anziché in proporzione al voto nazionale totale) e i distretti pro-Brexit dei piccoli centri tendono a essere meno popolosi di quelli pro-Ue delle grandi città. Un effetto trainante l’hanno avuto le regioni del nord dell’Inghilterra e delle Midlands (figura 1), regioni di antiche tradizioni minerarie e industriali, che per decenni prima delle ultime elezioni non avevano mai votato per il partito conservatore. La combinazione di sentimenti pro-Brexit e di una leadership poco credibile in campo laburista ha permesso a Johnson di ottenere un risultato senza precedenti.

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Figura 1 – Risultati elettorali Regno Unito 2019

Fonte: The Independent

L’identikit del nuovo elettore conservatore

Tuttavia, non tutti questi territori sono diventati conservatori. La maggioranza del voto per Johnson si è infatti concentrato nei piccoli centri collocati ai margini di città di più grandi dimensioni e di maggior successo (figura 1). Si tratta di un nuovo tipo di elettore conservatore: colletti blu che abitano in aree più povere dei bacini da cui il partito del primo ministro trae tradizionalmente il proprio sostegno. Prima di queste elezioni, il salario medio orario di un’area rappresentata da un parlamentare conservatore era di circa 18 euro e solo 17 seggi conservatori venivano dalla quarta parte più povera dell’Inghilterra. Nel nuovo parlamento, il salario medio orario di un seggio conservatore è sceso a circa 16 euro e ben 35 seggi provengono dalla quarta parte più povera dell’Inghilterra.

Oltre alla dimensione geografica, ce n’è anche una demografica: il partito conservatore ha ottenuto il 57 per cento e il 67 per cento dei voti tra gli elettori con rispettivamente più di sessanta e settanta anni. Ma la dimensione demografica non si sovrappone perfettamente a quella geografica. L’elettore conservatore è diventato un po’ più giovane, dal momento che l’età alla quale un suddito britannico cessa di votare con maggiore probabilità per i laburisti e comincia a sostenere con maggiore probabilità i conservatori è passata da 47 anni nel 2017 a 39 nel 2019. La divisione politica sempre più netta tra piccoli e grandi centri, unita al fatto che i conservatori debbano rispondere anche a un nuovo tipo di elettore diverso da quello con cui sono abituati a interagire, è una sfida per Johnson, figlio prediletto della migliore élite di sua maestà, quarantaduesimo primo ministro britannico (su cinquantacinque in totale) ad avere frequentato una delle due più esclusive università inglesi, quelle di Oxford e Cambridge.

Si tratta di una sfida che appare tanto più ardua quanto più si cominciano a poter misurare i primi effetti della Brexit sull’economia britannica. Come osservano Josh de Lyon e Swati Dhingra in un interessante rapporto per il Centre for Economic Performance di Londra, si può finalmente cominciare a valutare l’impatto del voto sulla Brexit con maggiore precisione rispetto alle previsioni fatte in passato, grazie alla disponibilità di nuovi dati sul periodo successivo al referendum del 2016.

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E ora Johnson fa i conti con la vera Brexit

  1. Roberto boschi

    gentile prof. Ottaviano,
    come fa ad affermare che la maggioranza dei Britannici non vuole/ha voluto l’uscita dalla UE?
    1 – Si è tenuto un referendum nel 2016: anche questo per Lei non rispecchia la maggioranza dei Britannici?
    2 – Alle ultime elezioni mi sembra che nessuno dei candidati si è espresso con dichiarazione netta e palese di non uscire e/o tornare ad effettuare un nuovo referendum.
    Forse è Lei che, come molti intellettuali della sua Categoria, che non accetta la volontà popolare democraticamente espressa?

    • Emanuele

      L’articolo dice l’opposto di quanto asserisce lei. Non sarebbe meglio leggerlo prima di gettarsi a ripetere a macchinetta frasi della propaganda?

  2. Leggendo l’articolo non colgo almeno chiaramente che nel Regno Unito non si voglia o meno l’uscita dall’Ue. Si mette in evidenza il sistema elettorale di tipo maggioritario e l’articolo invita ad una riflessione. Certo con un sistema proporzionale penso che i risultati potevano essere diversi.

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