Non è vero che il sistema contributivo consenta un’incondizionata flessibilità in uscita. Infatti, l’obsolescenza dei coefficienti comporta “doni” tanto più generosi quanto minore è l’età al pensionamento. Perciò la pensione d’anzianità deve essere neutralizzata.
Le ipotesi assunte
È luogo comune che il “sistema contributivo”, al quale l’Italia sta approdando dopo un’incubazione di decenni, consenta tutta la “flessibilità in uscita” che si vuole perché chi anticipa il pensionamento lo fa “a sue spese”, cioè pagando il prezzo della pensione tagliata da un coefficiente di trasformazione e un montante contributivo più bassi. Non è così per tante ragioni, compresa quella che il sistema non deve produrre poveri la cui assistenza ricadrebbe sulla fiscalità generale. Tuttavia, la ragione più importante è un’altra.
Per spiegarla senza inutili complicazioni formali, conviene definire il tasso di sopravvivenza a un’età x come la percentuale y (ad esempio il 95 per cento) di coloro che, essendo sopravvissuti fino a compiere x anni l’anno prima, sopravvivono ulteriormente fino a compierne x+1 nell’anno della rilevazione. Di conseguenza, la differenza 100-y (il 5 per cento nell’esempio) è la percentuale di coloro che decedono fra un compleanno e l’altro. Conviene altresì assumere che la pensione non sia reversibile e che il coefficiente di trasformazione sia il reciproco della vita residua del pensionato diretto (per esempio, valga 1/10 se la vita residua è di 10 anni). Moltiplicandolo per il montante dei contributi versati, si ottiene la rata annua di pensione che garantisce la “corrispettività”, cioè la restituzione integrale dei contributi stessi da cui dipendono l’equità e la sostenibilità del sistema.
La stima della vita residua
La nota dolente è che la vita residua non è conosciuta a priori. Perciò occorre stimarla. Nel caso del signor Rossi nato nel 1960 che vuole andare in pensione a 60 anni nel 2020, la stima è basata (con una tecnica omessa per ragioni di spazio) sui tassi di sopravvivenza da 60 anni in poi rilevati nel 2016. Infatti, era questa la rilevazione più recente quando furono calcolati i coefficienti in vigore quest’anno.
Il primo tasso utile è quello con cui i nati nel 1955, ancora in vita il giorno del loro sessantesimo compleanno nel 2015, sono ulteriormente sopravvissuti fino al sessantunesimo nel 2016. Il secondo tasso è quello con cui i nati nel 1954, sopravvissuti fino a 61 anni nel 2015, sono ulteriormente sopravvissuti fino a 62 nel 2016. E così via, fino all’ultimo tasso che supponiamo sia quello con cui i nati nel 1916, sopravvissuti fino a 99 anni nel 2015, sono arrivati a compierne 100 nel 2016. In sintesi, la vita residua è derivata dai tassi di sopravvivenza sperimentati, nel 2016, dalle 40 coorti nate fra il 1916 e il 1955 che, in media, precedono di 25 anni quella cui Rossi appartiene. L’ipotesi sottostante è che i tassi siano uguali alle probabilità con cui Rossi potrà effettivamente sopravvivere da un’età alla successiva.
L’obsolescenza dei coefficienti
In realtà non è così. A causa della longevità crescente, le probabilità superano i tassi, cosicché la vita residua, e quindi la durata della pensione, è stimata in difetto. La sottovalutazione della durata si traduce nella sopravalutazione del coefficiente e quindi in una pensione superiore ai contributi che Rossi ha versato.
Meno sopravalutato è il coefficiente di Bianchi nato nel 1950 che, nel 2020, va in pensione a 70 anni. Infatti, la vita residua è meno sottovalutata perché derivata dai tassi di sopravvivenza sperimentati nel 2016 dalle trenta coorti nate fra il 1916 e il 1945 che, in media, precedono di soli 15 anni (anziché 25) quella di Bianchi.
La morale è che l’obsolescenza dei coefficienti costringe il sistema contributivo a fare “doni” tanto più generosi quanto minore è l’età al pensionamento. Per evitarli, occorre che, nella stima della vita residua, i tassi di sopravvivenza osservati per le generazioni precedenti siano sostituiti con previsioni scientificamente fondate delle probabilità con cui il pensionato potrà effettivamente sopravvivere.
Le indicazioni di policy
Nell’attesa di quel momento inverosimile, le misure allo studio per superare quota 100 devono almeno impedire età di pensionamento che esasperano l’obsolescenza dei coefficienti. Perciò dovrebbe essere “sufficientemente” alto il limite inferiore della fascia d’età pensionabile che si profila, e, soprattutto, dovrebbero essere impediti sforamenti su larga scala. A tal proposito, la pensione d’anzianità non dovrebbe restare la spina nel fianco che è stata per il sistema retributivo. Il requisito contributivo richiesto per accedervi dovrebbe essere affiancato da uno anagrafico che cresca nel tempo fino a “riassorbirla” in una pensione di vecchiaia più flessibile. Non sfugga che la pensione d’anzianità è un istituto tipicamente italiano, rivolto a carriere lavorative privilegiate perché esenti da lavoro nero e disoccupazione.
Infine, solo un cenno alla componente retributiva delle pensioni miste. Se la “nuova flessibilità” consentirà di fruirne prima, perché non compensare la maggior durata con la correzione attuariale dell’importo che non cambia il beneficio complessivo come invece farebbe, con esito incerto, il ricalcolo contributivo?
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