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Fondo salva-stati, cosa c’è e cosa no nella riforma*

Al momento della firma della riforma del Meccanismo europeo di stabilità, che sembra piombata dall’alto (ma così non è), l’arena politica si è infiammata. Utile quindi uscire dal fuoco incrociato per capire cosa prevede effettivamente e se gli allarmi sono fondati.

La riforma del cosiddetto Fondo salva-stati, discussa dal governo Conte1 con i partner europei e sulla quale il governo Conte2 è chiamato ad apporre la sua firma nel prossimo vertice europeo di dicembre, sta suscitando preoccupazioni e polemiche nel dibattito politico di questi giorni. Cerchiamo di capire quanto esse siano fondate, rispondendo ad alcune domande.

Cos’è il Fondo salva-stati?

Il suo vero nome è in realtà Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Si tratta di un’istituzione europea, nata alla luce di un accordo intergovernativo tra i paesi che hanno adottato l’euro. Il Meccanismo eroga prestiti ai paesi che si trovino in difficoltà a finanziarsi sui mercati finanziari a tassi favorevoli. Lo ha fatto in passato con programmi di assistenza a favore di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro. Ha un capitale versato da tutti i paesi dell’Eurozona e si finanzia emettendo debito sul mercato.

Con la riforma sul tappeto, sarà più difficile accedere ai prestiti erogati dal Mes?

No. Il Mes ha due strumenti a sua disposizione: prestiti e linee di credito. I primi prevedono l’effettiva erogazione di soldi in prestito ai governi in difficoltà, il secondo fornisce una garanzia di intervento, che può essere attivata dal paese beneficiario in caso di necessità. Finora solo il primo strumento (il prestito) è stato utilizzato e su questo la riforma non prevede alcuna novità.
Per quanto riguarda le linee di credito, da un lato la riforma rende più precisa e cogente la cosiddetta “condizionalità ex-ante” per accedere a un primo tipo di linea di credito (Precautionary conditioned credit line – Pccl). Dovranno essere rispettati i paletti posti dalle regole europee di finanza pubblica, tra cui: rapporto deficit/Pil sotto il 3 per cento, rapporto debito/Pil sotto il 60 per cento o in avvicinamento a questo livello, saldo strutturale al di sopra di un minimo prestabilito. D’altro canto, la riforma elimina la cosiddetta “condizionalità ex-post” su questa linea di credito: non sarà più necessario concordare un Memorandum of understanding (Mou) contenente condizioni di aggiustamento fiscale e macroeconomico per l’ottenimento dei prestiti (come avvenuto per esempio nel caso greco). Sarà sufficiente una lettera di intenti, nella quale il paese interessato dovrà indicare come intende soddisfare i criteri di ammissibilità; la coerenza di questa lettera con le regole e le procedure fiscali europee sarà valutata dalla Commissione europea. In ogni caso, se anche un paese non soddisfi alcuni paletti posti dalle regole fiscali europee, potrà comunque accedere a un secondo tipo di linea di credito (Enhanced conditions credit line – Eccl), ma in questo caso occorrerà la firma di un Memorandum of understanding.

La riforma imporrà la ristrutturazione del debito pubblico?

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No. Non si prevede alcun nesso automatico tra richiesta di assistenza finanziaria al Mes e ristrutturazione del debito pubblico. Quello che avverrà, ma è già previsto dalle regole attuali, è che vi sarà un’analisi di sostenibilità del debito del paese che fa richiesta di assistenza. In sostanza si valuta se, grazie agli aiuti europei e alle misure concordate, un paese sarà in grado di riportare il rapporto tra debito pubblico e Pil su una traiettoria discendente, tale da scongiurare una futura insolvenza. Se questa valutazione desse un esito negativo, prima di accordare il prestito si dovrebbe procedere a una ristrutturazione del debito, imponendo dunque dei costi ai detentori dei titoli: taglio del valore delle obbligazioni e/o degli interessi, allungamento delle scadenze di rimborso. La novità rispetto alla situazione attuale è un maggiore coinvolgimento del Mes nella analisi di sostenibilità, attualmente affidata alla Commissione e alla Banca centrale europea (ed eventualmente al Fondo monetario internazionale). Qui potrebbe inserirsi un aspetto critico, dovuto alla diversa governance politica del Mes, che è una istituzione intergovernativa: nel suo Board of governors siedono i ministri delle finanze dei paesi membri. La preoccupazione è che la valutazione affidata ai paesi creditori possa essere più severa di quella della Commissione, che riflette invece un punto di vista europeo. Ma c’è da domandarsi quanto in pratica ci sia differenza. Le risorse del Mes sono soldi dei paesi membri ed è già previsto che ciascuno di questi debba approvare il finanziamento perché questo avvenga, in qualche caso anche coinvolgendo i propri parlamenti.

Cosa cambia per le Clausole di azione collettiva?

Un aspetto tecnico rilevante della proposta di riforma è l’introduzione delle cosiddette single-limb Cac (Clausole di azione collettiva) per i titoli di debito emessi in futuro. Per procedere alla ristrutturazione del debito tramite un accordo con i creditori privati (il cosiddetto private sector involvement) occorre avere il consenso di una maggioranza qualificata dei creditori. Una volta ottenuto, l’accordo vale per tutti. Attualmente questo principio viene applicato a ogni serie di debito emesso. Ciò permette a un singolo creditore, tipicamente un fondo d’investimento che detenga una quota significativa di una emissione, di bloccare la ristrutturazione del debito (o di una sua parte). La riforma prevede un meccanismo diverso, che misuri il quorum di consensi su base aggregata, cioè sull’insieme delle emissioni: in questo modo sarà più difficile per un singolo investitore detenere una quota tale da essere in grado di bloccare la ristrutturazione. Come sempre, queste misure, se utili ex post, nel caso un paese avesse deciso di ristrutturare il proprio debito, possono essere pericolose ex ante, nel senso di poter spaventare gli eventuali futuri sottoscrittori, spingendo verso l’alto gli interessi da questi richiesti per detenere i titoli. C’è dunque la preoccupazione che l’introduzione del single limb possa creare un terremoto sui mercati finanziari. Tuttavia, l’introduzione delle attuali Cac nel 2013 aveva suscitato gli stessi timori che però sono stati disattesi; l’introduzione è avvenuta nella totale indifferenza dei mercati.

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La riforma del Mes ha qualcosa a che fare con l’Unione bancaria?

Si. Essa prevede che il Mes possa erogare prestiti al Fondo europeo destinato a gestire le crisi bancarie: il Single Resolution Fund (Srf). Questa è una novità positiva e da tempo richiesta nel dibattito europeo da paesi come il nostro. Essa consentirà al Srf di disporre di una linea di sicurezza (common backstop) in caso esaurisca le sue risorse. Il fatto che questa linea di sicurezza sia fornita dal Mes è significativo: si tratta di una prima forma, seppure limitata, di condivisione dei rischi tra i paesi della zona euro. Finora, le risorse fiscali usate nelle crisi bancarie erano solo quelle nazionali. Certo è che il completamento dell’Unione bancaria richiede anche altre riforme, a cominciare dall’introduzione di una assicurazione europea dei depositi. Su questo fronte, la recente proposta avanzata dal ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz è ancora molto deludente: non si tratta di una vera assicurazione, ma solo di un sistema di prestiti che interverrebbe in seconda battuta, una volta esaurite le risorse dei fondi di assicurazione nazionali. Ed è su questo fronte che il governo italiano dovrebbe dare battaglia.

*Massimo Bordignon è membro dello European Fiscal Board

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Essere promossi dall’Europa e dai mercati non è tutto

  1. Savino

    Ma, tolto per chi ha i soldoni, ma è così malvagia la ristrutturazione del debito e è tale l’avvio delle riforme strutturali? A me viene da dire “finalmente”.

  2. PURICELLI BRUNO

    Ringrazio gli autori per la sintesi molto chiara. Mi sia consentito rivolgere una domanda ad entrambi visto che fanno parte dell’Intellighenzia in materia economia.
    Premesso che nell’accumulare debito i cittadini hanno accumulato valore e che, se mi è permesso, se ciò non fosse accaduto l’Italia avrebbe un debito inferiore (immaginiamolo!). Ora, operando con i derivati, mi sembra di poter confidare su tale strumento per creare para liquidità circolante in Italia, aumentando la disponibilità di risorse fino, diciamo al 10% del valore del nostro patrimonio immobiliare che passerà allo Stato in via definitiva solo dopo il 30° anno nell’ipotesi che la manovra non consegua i suoi obiettivi. Sottolineo che non si aumenterebbe il debito, non si eccederebbe il limite del 3%, si prevede una fortissima riduzione delle tasse alle imprese, una creazione di alcuni milioni di posti di lavoro ecc ecc. la proposta è stata presa in considerazione dal passato governo che, non lo escludo, l’abbia sottovalutata o ci sia un falso blocco. Sostengo l’ipotesi del falso blocco in quanto:
    1- il governo passato non si è fatto problemi ad avanzare la proposta dei Minibot su un debito,
    2- I miei titoli ad hoc sarebbero emessi su un sottostante congruo;
    3- Tali titoli rappresenterebbero il valore del 10% di “casa nostra”, con relativo coinvolgimento favorevole di tutti gli italiani (l’80% equivale a tutti);
    4- Del diritto naturale alla sopravvivenza e che uno Stato è come un essere vivente. ..segue

  3. PURICELLI BRUNO

    segue la precedente
    omissis….
    4- omissis… diritto di sopravvivere che non viene meno NON FACENDO DANNO AD ALCUNO.
    L’eventuale danno si identificherebbe esclusivamente in una ridotta quota finanziaria da mettere sul mercato dei titoli italiani. Ci sarebbe meno finanza e forse più disponibilità ad investire su beni reali. Non mi sembra male.

  4. Henri Schmit

    La clausola single limb dovrebbe essere inserita da tutti gli stati partecipanti nelle nuove emissioni. Possono non farlo creando un privilegio per tali emissioni. NON è la clausola che può creare un terremoto; permette solo ai creditori di decidere con procedura collettiva vincolante. Che cosa decidono? La ristrutturazione, cioè la perdita di una parte del loro credito in caso di richiesta dello stato debitore. Quindi pagano i creditori, non i contribuenti. Non era quello che volevamo? È vero, in Italia risparmiatori invece di contribuenti, per due terzi saranno sempre elettori, ma non esattamente gli stessi. Conseguenza? Aumenta lo spread! È quella l’alternativa, su chi deve gravare l’eccesso di debito, sui contribuenti relativamente indifesi (a parte le elezioni più o meno utili) o sui creditori che prestano troppo facilmente? Quindi la single limb clause farà salire lo spread? Altra conclusione superficiale. È il debito eccessivo e l’incapacità di gestirlo/ridurlo che fa lievitare lo spread. La single limb clause evita solo che lo stato emittente possa occultare il rischio che crea (anche agli altri Stati, contribuenti, elettori e risparmiatori) girandone l’onere ai propri contribuenti. Per il resto sono d’accordo con gli autori. Conclusione: povero paese, ostaggio del discorso demagogico e ignorante di Salvini!

  5. Asterix

    Premesso che è veramente triste il panorama accademico italiano..segnalo solo le parole chiare di Cottarelli sul MES sulla Stampa di oggi dopo quelle altrettanto chiare dette da Galli in Commissione. Il MES quando presterà i soldi porrà delle condizioni che non saranno dettate dai Paesi Europei ma da un organo tecnico insindacabile (e non giudicabile da alcun tribunale europeo).
    La ristrutturazione del debito pubblico italiano (oggi in mano al 70% di soggetti italiani) comporterebbe una vera patrimoniale e darebbe via ad un circolo infernale (licenziamenti dipendenti pubblici, crollo della domanda interna, pignoramenti causa mancato pagamento mutui, crollo del sistema bancario e del sistema industriale, licenziamenti dei dipendenti privati ecc.). La soluzione greca in sintesi.
    Se gli investitori sanno che il fondo salva stati, quello che può intervenire in caso di problemi, richiederà probabilmente la ristrutturazione del nostro debito come condizione per un prestito, come pensate che si comportino? Smetterebbero di comprare titoli di stato al primo segnale di tensione: un momento di difficoltà che potrebbe essere superato, potrebbe trasformarsi in una crisi profonda, che porterebbe effettivamente alla necessità di ricorrere il Mes e alla ristrutturazione del debito. Le parole di Patuelli dell’ABI chiariscono che le banche non vogliono assumersi tale rischio.
    Il MES è una forma “cortese” di pressione per farci accettare la cessione delle imprese italiane residue.

  6. Angelo

    A pagare, siate chiari, sono i possessori dei Bot ovvero chi ha fatto prestiti allo Stato per finanziare il debito pubblico

  7. ettore Paolino

    A mio avviso,prima o poi qualche operazione straordinaria sul
    Debito Pubblico occorrera’pur farla!
    La linea seguita finora,ossia quella degli avanzi primari permanenti,a mio avviso e’inidonea a perseguire l’obiettivo perche’frena la domanda aggregata,riduce la crescita,ed impedisce di fare politiche anticicliche. Contrariamente a quello che parecchi pensano l’Italia,da almeno 28 anni,non e’piu’un paese spendaccione perche’ha avanzo primario permanente dal 1993. Da allora abbiamo accumulato 318 miliardi di avanzo primario che e’di molto superiore a quello tedesco. Tutto l’aumento del Debito dal 1992 in poi e’esclusivamente dovuto alla spesa per interessi. La Spesa Pubblica primaria e’al 45% sul Pil,inferiore alla media U.E che e’al 45,4% sul Pil. L’unica voce di spesa esuberante e’quella pensionistica,tutte le altre,specie quella per la scuola e gli investimenti,sono di parecchio sotto la media U.E. Se si comprimono ancora le spese si rischia di smantellare lo Stato Sociale,a me non pare una buona idea!

    • No, la spesa pensionistica italiana è gonfiata artificiosamente da 90 mld di voci spurie: imposte (50 mld, pari a 3 punti di Pil, che per lo Stato sono una partita di giro, checché ne dicano Cottarelli, l’OCSE, che peraltro è l’unico ente che espone la spesa pensionistica al lordo e al netto fisco, l’FMI, ecc. ecc.), TFR/TFS (15-20 mld), che può essere incassato anche decenni prima del pensionamento, e assistenza (20-25 mld). Al netto, il rapporto spesa pensionistica/Pil cala almeno al 12%. In più, nella comparazione internazionale vanno considerate altre due voci: a differenza di altri Paesi in Italia si sono utilizzati i prepensionamenti in luogo degli ammortizzatori sociali (elemento che, non a caso, accomuna la Grecia e l’Italia, che occupano il 1° e il 2° posto nella classifica del rapporto spesa pens./Pil); e, infine, nella spesa pensionistica di altri Paesi (Olanda, USA, GB, ecc.) andrebbero sommati i sussidi alle pensioni private (molto più utilizzate), che si traducono in minori introiti fiscali.

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