Ancora una volta, la legge di bilancio 2020 scongiura l’aumento delle aliquote Iva. Ma l’imposta così com’è crea troppe disparità. Serve una riforma che ne semplifichi e razionalizzi la struttura. Potrebbe consentire un significativo recupero di gettito.
Tutti i problemi dell’Iva
Con l’avvicinarsi della manovra di bilancio per il 2020 si è sviluppato, come accade ormai da oltre un quinquennio, un intenso dibattito sul possibile aumento delle aliquote Iva. Sul piano formale riguardava l’attivazione o meno della cosiddetta “clausola di salvaguardia”, su quello sostanziale la possibilità di avere a disposizione qualche miliardo di maggior gettito.
Si è discusso, in particolare, delle possibili variazioni di una o più delle tre aliquote principali di cui si compone la struttura Iva italiana: dal 10 al 12 per cento ad esempio, oppure dal 22 al 23 per cento o più. Alla fine, ogni ipotesi di revisione è stata accantonata, contestualmente alla copertura alternativa della clausola di salvaguardia attraverso il mix deficit, maggiori entrate, minori spese.
Ma i problemi dell’Iva italiana sono tali da suggerire comunque un vero intervento di riforma, che ripartisca tutti i beni e servizi in due sole aliquote, semplifichi drasticamente la struttura per gruppi di beni affini, razionalizzi le varie aliquote evitando inspiegabili disparità e consenta un significativo recupero di gettito.
La struttura Iva italiana oggi è dispersa in tre aliquote principali sui consumi (4, 10 e 22 per cento) più un’astrusa aliquota del 5 per cento che, dal luglio 2017, si applica a basilico, rosmarino e salvia freschi, nonché a origano a rametti o sgranato, destinati all’alimentazione, oltre che alle piante allo stato vegetativo di basilico, rosmarino e salvia (ma non a quelle di origano).
Ma le erbe aromatiche non sono le sole “vittime” della differenziazione: per esempio, i prodotti alimentari si distribuiscono su tutte le aliquote, con una logica che col passare degli anni sembra aver perso le sue ragioni. Per semplificare e sintetizzare, si può dire che alcuni prodotti freschi o surgelati “civetta” (pane, pasta e ortofrutta su tutti) hanno un’aliquota Iva del 4 per cento, mentre tutte le preparazioni alimentari industriali sono al 10 per cento, con l’aggiunta di uova, formaggi, pesce, carne, per citare alimenti di assoluto rilievo. Ma non mancano ulteriori paradossi, quali acqua minerale (per molti un obbligo, considerato lo stato delle tubature comunali a ridotta manutenzione) e caffè, che costano il 4 per cento di Iva in mensa, il 10 per cento se serviti in bar e ristoranti, il 22 per cento se acquistati in negozio.
Ma anche tra il 10 e il 22 per cento esistono rilevanti e inspiegabili differenziazioni: in una nazione come l’Italia, povera di risorse energetiche, soluzioni di consumo fondate sul gas sono gravate in genere al 22 per cento (anche qui con complicate distinzioni a seconda del tipo d’uso o addirittura del peso delle bombole), mentre l’energia elettrica ha un’Iva al 10 per cento. In tal modo, se si scelgono i fornelli alimentati a gas si paga il 22 per cento di imposta, mentre si paga il 10 per cento se sono alimentati a elettricità. Ancor più rilevante la differenziazione per il riscaldamento: se è a gas l’aliquota è il 22 per cento, se è a elettricità l’aliquota è al 10 per cento, ma il rendimento energetico è in genere inferiore.
La molteplicità di aliquote per beni analoghi e la complessità delle tabelle Iva (che arrivano a distinguere tra asini vivi o morti e a rendere necessarie esilaranti circolari esplicative su come trattare confezioni di basilico al 5 per cento insieme ad altri ortaggi freschi al 4 per cento), insieme alla oggettiva maggiore difficoltà dei controlli, favoriscono anche una fattispecie di evasione intermedia della sola Iva, che trae ispirazione dalla differenziazione delle aliquote “a ventaglio” per una dichiarazione selettiva in base alle diverse aliquote all’acquisto (alte) e alla vendita (basse).
I vantaggi della semplificazione
Tutto ciò rende consigliabile – e in effetti è stato più volte consigliato ai vari governi, anche su lavoce.info dall’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco – riscrivere interamente, semplificandole drasticamente, le tabelle di allocazione dei beni e servizi, ponendo ad esempio tutti i beni alimentari a una aliquota intermedia tra il 4 e il 10 per cento (potrebbe essere il 7,5 per cento) e mettendo tutti gli altri beni e servizi ad aliquota ordinaria ridotta rispetto a oggi (ad esempio, il 20 per cento).
Se ne otterrebbero vari benefici:
- a) drastica semplificazione applicativa e riduzione dei costi di adempimento e consulenza per i soggetti Iva;
- b) riduzione della specifica fattispecie di evasione per svariati miliardi;
- c) tutela redistributiva per i decimi più poveri di popolazione, a maggior consumo di alimenti che oggi sono in misura crescente sottoposti all’aliquota del 10 per cento;
- d) eliminazione di disparità di aliquota per beni simili, con a latere obiettivi ecologici di razionalizzazione e contenimento dei consumi energetici;
- e) aumento del gettito nell’ordine di 6/7 miliardi, tra recupero di evasione ed effetto della riallocazione dei beni su due sole aliquote (7,5 e 20 per cento).
L’operazione dovrebbe essere accettabile anche dal punto di vista politico, in quanto sarebbe facile comprendere che se pago qualcosa in più per pane, pasta e frutta fresca, riduco il costo di quasi tutti gli altri cibi, non vedo peggiorare sostanzialmente le finanze familiari e contribuisco a una manovra che altrimenti graverebbe sui bilanci in altre forme. Eppure, negli ultimi dieci anni, i politici non sono stati disposti a realizzare una vera riforma, preferendo “spostare” aliquote, peraltro spesso solo virtualmente.
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