Italia ed Europa devono affrontare il problema del calo demografico. Gli eventuali rimedi, però, avranno effetti solo nel lungo periodo. Ecco perché è urgente programmare alcuni cambiamenti sempre più necessari. A partire da scuola, lavoro e pensioni.
La bomba demografica mondiale
Per quasi cinquant’anni il termine “bomba demografica” è stato utilizzato dagli studiosi per descrivere i rischi connessi alla crescita – esplosiva, appunto – della popolazione mondiale: povertà, carestie, disastri ambientali, guerre per l’accesso alle risorse (The population bomb, Paul Ehrlich, 1968).
Per quanto molte delle teorie di Ehrlich si siano rivelate errate, le previsioni Onu lasciano intendere che il pericolo non sia scongiurato: la popolazione mondiale dovrebbe aumentare del 18,5 per cento nei prossimi 20 anni (superando i 9 miliardi) e del 38,2 per cento nei prossimi 60 anni (oltrepassando i 10,5 miliardi). Tuttavia, i dati evidenziano un’Europa in controtendenza. Escludendo Russia e Turchia, il vecchio continente conta oggi poco meno di 750 milioni di abitanti, destinati a scendere a 730 milioni nel 2039 e 650 milioni nel 2079.
Tabella 1 – Previsioni demografiche a 20 e 60 anni (valori assoluti in migliaia)
Fonte: Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Nazioni Unite
Il calo demografico italiano
Se per l’Africa si può ancora parlare di “bomba demografica” e negli altri continenti si prevede comunque una crescita della popolazione, in Europa esiste il problema opposto, ovvero il calo demografico.
In modo particolare, l’Italia risulta il paese più esposto al declino: gli attuali 60,4 milioni di abitanti sono destinati a diventare 59,4 tra venti anni (-1,8 per cento) e 55,4 tra quaranta (-8,2 per cento).
Antonio Golini, demografo ed ex presidente dell’Istat, nel suo ultimo libro Italiani poca gente illustra quella che definisce “una sorta di legge dell’invecchiamento”: se un paese arriva ad avere una percentuale di ultrasessantenni pari o superiore al 30% della popolazione totale, allora quel paese – a meno di una massiccia immigrazione – raggiunge un punto di non ritorno demografico. Ebbene, se nel 2018 gli ultrasessantenni erano 16,6 milioni, pari al 27 per cento della popolazione totale (60,5 milioni), secondo le previsioni demografiche dell’Istat il 30 per cento dovrebbe essere superato fra appena quattro anni (2023). Nel 2030, tra un decennio, gli over 60 saranno 20,1 milioni (+3,5 milioni), mentre la popolazione complessiva sarà lievemente diminuita (60 milioni).
Saremo di meno, dunque, ma con più anziani; già oggi, peraltro, siamo il paese più anziano dopo il Giappone.
Le possibili conseguenze
Già tre anni fa il demografo Alessandro Rosina scriveva che dobbiamo preoccuparci della crisi demografica non tanto e non solo per il calo della popolazione (numero di abitanti), ma soprattutto per l’aumento degli squilibri tra generazioni (più anziani, meno giovani).
Vediamo, dunque, quali possono essere questi squilibri.
Innanzitutto, se diminuiscono i giovani, diminuisce l’offerta di forza lavoro, creando veri e propri vuoti in alcuni settori. Molte regioni già riscontrano una carenza di medici, ma questa situazione potrebbe estendersi anche ad altre professioni, generalmente quelle con alta specializzazione, in cui la forza lavoro immigrata si inserisce con più difficoltà.
Di riflesso, diminuirebbe il bacino d’utenza di molti servizi pubblici (asili, scuole, servizi sociali), costringendo comuni ed enti locali a chiuderli o accorparli per far fronte ai costi di gestione, come già avviene in molti comuni di piccole dimensioni o in aree periferiche.
L’impatto maggiore, però, ricadrebbe probabilmente sul sistema previdenziale: se oggi il rapporto tra lavoratori e pensionati è di 3 a 2, l’Ocse stima che nel 2050 si raggiungerà quota 1 a 1. Nel sistema pensionistico a ripartizione, in cui le pensioni attuali sono pagate dai lavoratori attualmente attivi, sarebbe un grosso problema. Peraltro, già nel 2021 bisognerà tenere conto della fine di quota cento, con la necessità di un raccordo con la legge Fornero.
Per la verità, il calo demografico potrebbe anche comportare alcune opportunità (per quanto sicuramente minori rispetto ai rischi): in primo luogo, la riduzione dell’impatto ambientale (in particolare il consumo del suolo). Potenzialmente potrebbero diminuire i giovani disoccupati e quelli che emigrano, anche se negli ultimi anni entrambi sono aumentati. Anche nella scuola, per esempio, il calo degli alunni (dal 2015 a oggi se ne sono già persi 188 mila) potrebbe far liberare risorse utili ad aumentare gli stipendi degli insegnanti, tra i meno pagati d’Europa.
Va ricordato, inoltre, che gli effetti dei cambiamenti demografici hanno tempi molto lunghi. Per fare un esempio, anche tornando ai tassi di natalità dell’immediato dopoguerra (baby boom), non riusciremmo comunque a recuperare il terreno perduto almeno nel breve periodo, visto che nel frattempo sono diminuite le donne in età fertile. Allo stesso modo, un aumento significativo della natalità produrrebbe effetti tangibili nel mercato del lavoro e nel sistema produttivo solo fra 20-30 anni.
Il dibattito quindi non si dovrebbe limitare ai possibili rimedi nel contrastare il calo demografico (necessari, ma con effetti solo nel lungo periodo), ma sarebbe urgente programmare i cambiamenti che già ora rende necessari, a partire da scuola, lavoro e pensioni.
Nel mercato del lavoro, per esempio, occorrerebbe una precisa ricognizione dei posti di lavoro che rimarranno scoperti sia nelle alte qualifiche (per esempio, medici) che nei lavori manuali (per esempio, lavoro di cura). Da qui si potrebbe partire per una riprogrammazione sia dei percorsi universitari (meccanismi di accesso, specializzazioni, copertura sul territorio) che dei flussi migratori (ristabilendo quote annuali funzionali al mercato del lavoro, ma evitando l’ordine cronologico di presentazione delle domande).
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