La nuova convenzione stipulata dall’Inps con le confederazioni maggiori e Confindustria è un passo avanti nella costruzione di un sistema di misurazione della rappresentatività dei sindacati. Ma non risolve tutti i problemi. La crepa interna dell’articolo 39.
La nuova convenzione tra Inps e confederazioni maggiori
Quante volte, di fronte al fenomeno dei cosiddetti “contratti collettivi pirata” stipulati da associazioni sconosciute o allo sciopero proclamato in un servizio pubblico da un comitato di base, abbiamo avvertito la mancanza di un sistema moderno di misurazione della rappresentatività effettiva delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali? Su questo terreno finalmente un passo avanti importante si sta compiendo.
Il meccanismo delineato dal Testo unico sulla rappresentanza sindacale firmato dalle confederazioni maggiori nel gennaio 2014 questa volta può mettersi in moto davvero: la nuova convenzione sottoscritta la settimana scorsa da Cgil, Cisl, Uil, Confindustria, Inps e Ispettorato nazionale del lavoro completa la strumentazione necessaria. Una analoga convenzione stipulata nel 2015 affidava all’Inps soltanto la raccolta del dato “associativo”, cioè il numero delle iscrizioni a ciascun sindacato azienda per azienda, mentre ora gli si affida anche la raccolta del dato “elettorale”, cioè i voti conseguiti da ciascun sindacato nelle elezioni per le rappresentanze sindacali unitarie.
Sei anni per dare attuazione all’accordo del 2014 appaiono un po’ troppi; ma la responsabilità principale del ritardo va imputata all’incertezza del quadro istituzionale dovuta alle idee poco chiare dei governi su un possibile intervento legislativo in tema di rappresentanza sindacale, al progetto poi fallito di soppressione del Cnel, alle pretese di più di un ministro del Lavoro di affidare al proprio dicastero – e non all’Inps – la funzione di elaborazione dei dati sulla rappresentanza.
Nel salutare la nuova convenzione come una tappa importante nella costruzione di un sistema di relazioni sindacali compiutamente regolato, occorre sottolineare la disposizione in essa contenuta (articolo 5) che prevede la pubblicazione di tutti i dati aggregati raccolti ed elaborati, settore per settore, entro il 31 luglio di ciascun anno. Sarà così possibile a chiunque fare riferimento a quei dati ai fini dell’accertamento del grado di rappresentatività dei sindacati che proclamano scioperi e che firmano i contratti collettivi, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano dell’efficacia dei contratti stessi. E sul piano amministrativo, verrà agevolata anche la funzione di esazione dei contributi e applicazione degli sgravi da parte dell’Inps.
I problemi ancora aperti
La nuova convenzione, dunque, è molto importante. Su questo terreno, però, i problemi aperti sono ancora molti e di non facile soluzione. II sistema di relazioni industriali fondato sul Tu del 2014 copre per ora soltanto 22.400 imprese, per un totale di 2,4 milioni di lavoratori da esse dipendenti; e i contratti collettivi nazionali che si collocano nel suo alveo sono solo 68, sugli oltre 800 censiti dal Cnel. Se il meccanismo di rilevazione ed elaborazione dei dati delineato dalla convenzione funzionerà a dovere, il sistema si rafforzerà e aumenterà la propria capacità di espansione. Ma la strada da fare per poter aspirare a coprire l’intero tessuto produttivo nazionale è ancora lunga. E comunque la copertura non potrà mai essere totale.
Qualcuno – per primo il leader della Cgil, Maurizio Landini – si spinge a vedere nella convenzione il passaggio che rende finalmente possibile l’attuazione dell’ultimo comma dell’articolo 39 della Costituzione, cioè l’attribuzione per legge dell’efficacia erga omnes ai contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi.
Questa idea, però, non fa i conti con un problema straordinariamente complesso, che nasce proprio dallo stesso articolo 39. Non tanto perché esso prevede una misurazione della rappresentatività dei sindacati sulla base del solo dato associativo e non di quello elettorale (difficoltà, questa, di per sé superabile abbastanza facilmente); ma soprattutto perché stabilisce il principio di libertà sindacale, che esclude la possibilità di precostituire le “categorie” nel cui ambito la rappresentatività dei sindacati debba essere misurata e nel cui alveo la contrattazione collettiva debba obbligatoriamente incanalarsi. In base a questo principio, la categoria non preesiste al contratto collettivo, ma al contrario è il contratto stesso a definire la categoria. Ora, tutto il sistema delineato dal Tu 2014 si fonda invece sul presupposto che le categorie in seno alle quali la rappresentatività dei sindacati va misurata siano quelle definite dai contratti nazionali stipulati da Cgil, Cisl e Uil: scelta del tutto legittima sul piano contrattuale, ma che non può essere recepita meccanicamente in una legge dello stato, poiché il principio di libertà sindacale impone di ammettere che altri sindacati possano stipulare contratti diversi, riferiti a categorie contenute in perimetri diversi. Così, per esempio, è in forza di questo principio che mezzo secolo fa è potuta nascere la categoria dei piloti d’aereo, a seguito della stipulazione da parte di un sindacato autonomo del primo contratto collettivo nazionale, che ne segnò la nascita e il suo distacco dalla categoria più ampia della “gente dell’aria”, rappresentata da Cgil, Cisl e Uil.
La contraddizione tra il primo e l’ultimo comma dell’articolo 39
La realtà è che l’articolo 39 della Costituzione soffre di una crepa interna: esordisce stabilendo il principio di libertà sindacale, che esclude la possibilità di predeterminare le “categorie” entro le quali i sindacati possano contrattare ed essere misurati, ma nel quarto comma prevede un meccanismo di estensione erga omnes degli effetti dei contratti collettivi che presuppone la predeterminazione di quelle “categorie”. Se dunque sindacati diversi possono stipulare contratti collettivi che disegnano categorie con perimetri diversi rispetto ai sindacati confederali, come si individua la categoria a cui si deve fare riferimento per misurare la maggiore rappresentatività delle associazioni stipulanti?
Un caso attuale aiuta a mettere meglio a fuoco il problema. Recentemente una associazione che rappresenta la maggioranza assoluta degli agenti del settore delle assicurazioni ha stipulato con un sindacato autonomo un contratto collettivo nazionale per i dipendenti degli agenti stessi, che fino a quel momento erano stati assoggettati al contratto collettivo stipulato da Ania, l’associazione delle compagnie assicuratrici, con i sindacati del settore affiliati a Cgil Cisl e Uil; qui, evidentemente, la verifica della “maggiore rappresentatività” dei soggetti stipulanti non può che dare risultati diversi a seconda che si faccia riferimento al perimetro più ampio, oppure a quello più ristretto definito dal nuovo contratto. E la scelta in proposito non può evidentemente essere affidata a una delle parti interessate.
Sono in molti a ritenere che il problema sia irrisolvibile, a meno che non si voglia ritornare a un sistema di “inquadramento costitutivo”, tipico di ogni ordinamento corporativo, nel quale le categorie sindacali vengano predefinite e autoritativamente imposte alla contrattazione collettiva. Questo induce a ritenere che la via per stabilire standard retributivi minimi di applicazione universale difficilmente potrà passare per una estensione erga omnes del campo di applicazione di contratti collettivi nazionali.
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