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Istruzione: quattro compiti per il nuovo governo

Migliorare la qualità del sistema dell’istruzione è cruciale per lo sviluppo del paese. Il futuro governo dovrebbe partire da quattro punti: selezione e formazione dei docenti, progressione di carriera, tempo prolungato e lauree a indirizzo professionale.

L’importanza di scuola e università

L’istruzione è spesso in primo piano negli impegni che precedono la formazione di un governo. La crisi attuale non fa eccezione: a parole, tutti riconoscono l’importanza di scuola e università per il futuro dell’Italia. Ed è così, perché l’investimento in formazione ha un impatto davvero rilevante: la letteratura economica è sostanzialmente concorde nell’affermare che il livello di capitale umano – misurato dagli anni di scolarità o, ancor meglio, dal livello degli apprendimenti degli studenti – è una delle determinanti della crescita economica (vedi, per esempio, Eric A. Hanushek, and Ludger Woessmann, 2015). Non solo: le persone più istruite hanno una speranza di vita più elevata, conducono una vita più sana, sono più attivi nella società, più informati sulle istituzioni, più aperti nei confronti degli altri; in una parola, sono migliori cittadini.

Eppure, solo occasionalmente, negli ultimi 20 anni, i governi sono passati dalle parole ai fatti, con politiche di riforma articolate per migliorare la qualità del nostro sistema scolastico e universitario, con i suoi profondi divari interni e ritardi rispetto agli altri paesi europei. Molti si sono accontentati del piccolo cabotaggio; i pochi che ci hanno provato in modo energico non hanno ottenuto i risultati sperati: le riforme Berlinguer, Gelmini e Renzi sono gli esempi più eclatanti. Certo, una riforma energica non  è necessariamente anche giusta; in particolare, negli ultimi due casi molte proposte erano sbagliate. Al di là del giudizio di merito, è però vero che in Italia i tentativi di riforma dell’istruzione si scontrano con fortissime resistenze da parte del mondo della scuola e dell’università. Come suggeriscono gli studi politologici, i docenti sono un corpo sociale piuttosto conservatore, molto focalizzato sui propri interessi e al tempo stesso capace di esercitare un’enorme pressione sulla politica: in Italia, il solo personale della scuola statale supera il milione e influenza le famiglie di circa 8 milioni di studenti. Soltanto esecutivi forti e determinati possono pensare di sfidare i docenti e portare a casa riforme. Potrebbe non essere il caso del prossimo governo, tenendo anche conto che per M5s e Pd gli insegnanti rappresentano storicamente parti importanti del loro elettorato.

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Quattro temi per il governo M5s-Pd

In attesa di conoscere il programma, su quali temi il futuro governo dovrebbe agire? Ne propongo tre per la scuola e uno per l’università.

Selezione e formazione dei docenti. Come spiegato su queste colonne, il meccanismo di reclutamento è oggi fallimentare: nel prossimo anno, in tante scuole di molte regioni mancheranno i docenti di ruolo di diverse materie (scientifiche, ma non solo) e serviranno quasi 200 mila supplenti annuali. I governi precedenti hanno quasi sempre provato a rispondere con grandi sanatorie, assumendo insegnanti senza alcuna valutazione delle loro capacità. Ma neppure le sanatorie sono riuscite a risolvere il problema, impoverendo in cambio la qualità. Per attenuare la distanza fra le caratteristiche della domanda delle scuole e dell’offerta dei docenti, ed evitare un ulteriore degrado qualitativo, occorrerebbe un meccanismo di accesso continuo alla professione (come concorsi regolari), una valutazione stringente delle competenze disciplinari e soprattutto didattiche dei nuovi assunti (e magari anche di quelli in ruolo) e una voce in capitolo dei singoli istituti nella scelta di chi serve loro davvero.

Carriera degli insegnanti. Entrati in ruolo, i docenti non hanno alcuna vera progressione salariale (solo sei scatti per anzianità) e di carriera, caso unico nel comparto pubblico. Senza un riconoscimento della qualità del lavoro, si attira nella professione chi è meno disponibile a impegnarsi e assumere responsabilità organizzative. Nei giorni scorsi, esponenti del Pd e del M5s hanno invocato aumenti di stipendio per gli insegnanti: distribuiti a pioggia avrebbero poco effetto; scatti di carriera legati al merito e a un orario di lavoro più ampio potrebbero invece rappresentare un incentivo per i buoni laureati a entrare nella scuola.

Tempo prolungato. Sappiamo che più ore trascorse a scuola (non solo a lezione) rappresentano un antidoto all’abbandono, purtroppo di nuovo in crescita. Permettono, inoltre, di fare didattica innovativa e sostenere chi ha maggiori difficoltà. In Italia, la scuola al pomeriggio esiste solo alla primaria, tipicamente al Nord: andrebbe estesa almeno alla media e su tutto il territorio nazionale.

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L’università italiana, molto più che la scuola, soffre di carenza di risorse: spendiamo appena l’1 per cento del Pil nell’istruzione terziaria (molto sotto la media Ocse). Così è difficile aumentare significativamente la quota di laureati, garantendo una didattica di qualità. Un segmento dell’offerta universitaria che manca quasi del tutto nel nostro paese, a differenza del resto dell’Europa continentale, è quello professionalizzante, che garantirebbe sbocchi occupazionali agli studenti meno interessati allo studio accademico e aiuterebbe molte piccole e medie imprese a fare un salto in avanti. Atenei come il Politecnico di Torino stanno avviando la sperimentazione di lauree a indirizzo professionale, sfruttando le limitate possibilità del decreto Fedeli, in collaborazione con le aziende. La creazione di una filiera professionale degna di questo nome avrebbe un impatto positivo sulla produttività del nostro sistema.

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Il Punto

  1. Michele Lalla

    Mi limito a commentare le poche righe sull’università: naturalmente dal direttore della F.G.Agnelli ci si aspetta un invito a ampliare l’offerta delle lauree professionalizzanti, ma avrebbe almeno dovuto citare la passata esperienza dei DU diretti in tal senso e non risultati molto promettenti. Ne consegue che forse proprio la strada intrapresa da Torino potrebbe essere una sperimentazione per pensare meglio il progetto.

    Infine, sempre sull’università nulla si dice della situazione paradossale e assurda in cui si trova il personale docente: vi sono oramai centinaia e centinaia di colleghi idonei per un avanzamento di carriera e bloccati per ragioni di vincoli discutibili, se non assurdi, inconsistenti con al qualità dei docenti, UMILIATI nelle loro capacità non riconosciute anche con il ruolo. SU QUESTO OCCORREREBBE intervenire con criteri ragionevoli. Faccio un esempio: un professore associato, oltre i 45 anni, idoneo per la posizione di ordinario, passati i 5 anni di validità della sua idoneità e non chiamato per i vincoli esistenti, dovrebbe automaticamente diventare ordinario alla scadenza. Cito un caso, ma vene sono tanti, di un collega che aveva la vecchia idoneità, già due o tre volte la nuova: è ancora associato e sono passati OLTRE 10 ANNI!

    Altro non aggiungo: il mondo della scuola è complesso e difficile da gestire e spesso è gestito da chi non lo conosce e i consiglieri sovente sono a visione ridotta. La politica su questo versante non vede o non vuole vedere.

  2. Giacomo

    Scatti di carriera per gli insegnanti legati al merito. La realizzazione concreta di questo obiettivo astrattamente condivisibile è dannatamente difficile. Chi dovrebbe valutare gli insegnanti ? E secondo quale metro di misura ? Già oggi i presidi possono premiare i docenti che giudicano migliori. I risultati sono disastrosi. Vengono premiati non i docenti più preparati ma quelli che si danno da fare in attività varie (trascurando l’insegnamento) non raramente di nessuna utilità concreta per gli studenti. Il problema è che ad una categoria di mediocri burocrati, mediamente di basso livello culturale, come i presidi non si può affidare la valutazione dei nostri docenti.

  3. Giunio Luzzatto

    Giustissimo collocare al primo posto il tema della Selezione e formazione dei docenti. E, nel merito, affermare che CONCORSI REGOLARI sono la via maestra per evitare masse di precari e conseguenti pressioni per pessime “sanatorie”. Quanto a valide competenze sia disciplinari sia didattiche, le prime sono già valutate nei Corsi universitari seguiti; il problema (da sempre ) è quello delle competenze didattiche. Al proposito, il nuovo Governo potrebbe non inventare una nuova riforma ma, per una volta, rilanciarne una precedente, già approvata (nel 2017) e cancellata dal Ministro Bussetti senza neppure consentire una prima attuazione. La soluzione allora deliberata appare di grande interesse: essa consiste nel far svolgere ai vincitori di concorso, presso le università d’intesa col sistema scolastico, un corso annuale a tempo pieno di formazione agli aspetti professionali dell’attività docente : il primo anno di servizio sarebbe costituito da questo corso, che -se concluso con successo- porterebbe all’assegnazione del posto di insegnamento. Rispetto a passati Corsi “abilitanti” rivolti a tutti i laureati vi sarebbero vari vantaggi: tra gli altri, evitare masse di abilitati in attesa del “posto”, e soprattutto proporre il lavoro nella scuola in termini atti ad attrarre i migliori laureati: vi sarebbe l’opportunità di accedere a una posizione a tempo indeterminato attraverso un concorso sùbito dopo la laurea, e un successivo percorso di conferma basato solo sul merito.

    • GIANPAOLO FAVRETTO

      E’ qui, a mio avviso dove l’estensore dell’articolo sbaglia. Perché? Sbaglia perché come molti non è a conoscenza delle dinamiche organizzative in atto nella scuola. Facciamo il confronto con un’altra categoria di professionisti: prendiamo i medici. Diamo uno stipendio da fame a tutti e poi a chi fa di più diamo riconoscimenti economici od altro sempre però economicamente non rilevanti. Mi sa dire l’estensore dell’articolo come farebbe ad incentivare il medico che “si impegna e assume responsabilità organizzative”. Forse che impegnandosi e assumendo responsabilità organizzative opera meglio o cura meglio? Mi fermo qui ma il discorso richiederebbe spazio per approfondire. “Carriera degli insegnanti. Entrati in ruolo, i docenti non hanno alcuna vera progressione salariale (solo sei scatti per anzianità) e di carriera, caso unico nel comparto pubblico. Senza un riconoscimento della qualità del lavoro, si attira nella professione chi è meno disponibile a impegnarsi e assumere responsabilità organizzative. Nei giorni scorsi, esponenti del Pd e del M5s hanno invocato aumenti di stipendio per gli insegnanti: distribuiti a pioggia avrebbero poco effetto; scatti di carriera legati al merito e a un orario di lavoro più ampio potrebbero invece rappresentare un incentivo per i buoni laureati a entrare nella scuola.

  4. Angelo Mari

    Aggiungerei un quinto tema trasversale, che rischia di essere trascurato: La qualità del disegno organizzativo del sistema, su cui poggia ogni riforma, rappresenta un forte fattore condizionante. Non si tratta soltanto della distribuzione dei compiti e la definizione dei rapporti e dei raccordi tra Ministero, regioni e istituzioni scolastiche, ma della revisione della stessa struttura e presenza sul territorio di queste ultime. Senza un intervento di tipo organizzativo in una logica sistemica di razionalizzazione, semplificazione e di miglioramento dell’efficienza, ogni politica di riforma, soprattutto se basata prevalentemente sul personale, non avrà molte possibilità di successo.

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