Hong Kong è cruciale per la Cina: è il pilastro del modello “un paese, due sistemi”. Per questo Pechino cerca di evitare una repressione autoritaria delle proteste. La destabilizzazione dell’ex protettorato britannico sarebbe pericolosa per tutti.

Se Hong Kong chiede più autonomia

Le proteste che proseguono a Hong Kong ormai dal 31 marzo hanno acceso i riflettori sulla situazione politica ed economica di una provincia molto speciale della Repubblica popolare cinese (Rpc). Dalla fine del Protettorato britannico nel 1997, Hong Kong è diventata una Special Administrative Region (Sar), cioè una provincia indipendente dal governo centrale, ma formalmente parte della Rpc, sotto cui tornerà dal 2047 (come concordato nel trattato tra la Rpc e il Regno Unito).

È evidente che la scadenza dei cinquanta anni dello status speciale dell’isola preoccupa da sempre i milioni di hongkongesi che oggi manifestano nelle strade chiedendo più autonomia da Pechino, ma la stabilità politica e il benessere economico vissuti negli ultimi venti anni sono stati i contrappesi di un equilibrio comunque molto instabile. E come sempre, in un equilibrio instabile basta un piccolo pretesto (seppur meritevole e condivisibile) per far precipitare le cose: in questo caso è stato il tentativo di Pechino di riformare, in parte, la legge sull’estradizione in vigore con Hong Kong, per permettere l’estradizione di cittadini stranieri colpevoli di reati non politici (l’estradizione in Cina dei rifugiati politici e dei dissidenti non è mai stata messa in discussione).

Non è la prima volta che Pechino cerca di ridurre il grado di autonomia politica di Hong Kong. Nel 2014 la decisione del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo di Pechino di riformare il sistema elettorale di Hong Kong aveva portato nelle strade gli hongkongesi, che alla fine erano riusciti a respingere la proposta. I dissidenti politici sono chiaramente malvisti da Pechino, che è ritenuta la principale mandante di una serie di rapimenti avvenuti a Hong Kong negli ultimi anni. Eppure, da qualche centinaio di migliaia in primavera i manifestanti oggi sono diventati più di un milione e mezzo e la protesta ora si è allargata e si incentra sull’autonomia dell’isola dal governo centrale. Dalle parole dei giovani intervistati sulle strade emerge chiaramente che il movimento di protesta ha colto l’ennesima occasione per portare alla luce un problema più grande. Come potranno evolversi, dunque, le relazioni tra Hong Kong e Pechino?

I due grandi temi aperti

Due sono i grandi temi aperti. Quello della libertà personale e politica degli hongkongesi è il più evidente, ma non è di certo un tema nuovo. Però, le nuove generazioni hanno un atteggiamento molto diverso da quello dei loro coetanei di venti anni fa, che non percepivano conseguenze dirette, e perciò oggi molti più giovani manifestano apertamente, a differenza dei loro genitori. In più, le richieste di una più ampia libertà di espressione e di voto sono da sempre sostenute dai movimenti e dalle Ong a favore dei diritti umani e politici, che finanziano generosamente i manifestanti. In questi mesi, finanziamenti alla protesta sono arrivati, tra gli altri, anche dalla National Endowment for Democracy, uno spin off della Cia per le attività di soft power, implicato in numerose passate operazioni di tentativi di cambi di regime in giro per il mondo. Gli Stati Uniti hanno ammesso pochi giorni fa di aver sostenuto anche finanziariamente il movimento Occupy Central, protagonista delle manifestazioni contro Pechino organizzate a Hong Kong nel 2014 e non è improbabile che continuino a farlo anche adesso, in un momento storico in cui l’attrito tra Usa e Cina si fa sempre più acceso. Anche l’Unione europea ha approvato una mozione a favore di Hong Kong, condivisibile nelle motivazioni, ma che rischia di prestare il fianco ai fautori di soluzioni violente al posto di riforme programmate.

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Una destabilizzazione di Hong Kong sarebbe molto pericolosa per Pechino, perché sarebbe di esempio per altre aree calde, dove vari episodi di terrorismo e di rivolte minacciano l’unità nazionale, come nello Xinjiang, e per i territori contesi di Macao, Taiwan, Tibet e Mongolia interna. Ma sarebbe pericolosa anche per i cittadini degli stessi territori e per i paesi limitrofi, perché il rafforzarsi di forze centrifughe in Cina potrebbe portare a una forte repressione interna, per evitare scenari più inquietanti di disgregazioni ingestibili e contagiose. Hong Kong, però, è un caso molto diverso dagli altri. Per questo, Pechino da una parte invoca la sicurezza interna per giustificare gli interventi della polizia degli ultimi giorni e il dispiegamento di forze armate al confine, mentre dall’altra è prudente e restia ad agire, per non rispondere alle provocazioni dei manifestanti.

E questo ci porta al secondo tema aperto tra Pechino e la ricchissima provincia speciale. Hong Kong ha sempre avuto – e mantiene tuttora – un’importanza fondamentale per tutta la Cina, che rende difficile per il governo centrale un atteggiamento eccessivamente autoritario.

Hong Kong non è solo il principale centro finanziario internazionale della Cina, ma anche il pilastro del modello “un paese, due sistemi”, alla base di tutta la crescita economica cinese. È la porta finanziaria per i capitali e le imprese estere in Cina e per i capitali e le imprese cinesi all’estero. Il suo sistema legale, giuridico e amministrativo e il suo sistema di mercato permettono alla Cina continentale di interagire con il resto del mondo secondo standard internazionali senza intaccare il sistema centralizzato e controllato del resto del paese.

È questa funzione di Hong Kong – non la dimensione del suo Pil, evidentemente molto ridimensionata negli ultimi venti anni – che continua a restare fondamentale per la strategia di crescita cinese. Il ruolo di Hong Kong nello sviluppo della Cina continentale è così grande che lo stesso Deng auspicò che si potesse mantenere “non per 50 ma per 100 anni”. Hong Kong inoltre permette a Pechino di mantenere un mercato dei capitali quasi completamente chiuso e un tasso di cambio a fluttuazione controllata, pur essendo uno dei paesi più aperti al commercio internazionale e agli investimenti esteri in entrata e in uscita. Il suo status speciale ha permesso una strategia macchinosa di internazionalizzazione del renminbi. Infatti, il mercato valutario offshore è stato sviluppato su misura per Hong Kong e con Hong Kong come prototipo. La separazione tra il mercato offshore e quello onshore permette all’autorità monetaria cinese di controllare i flussi di capitale con l’estero per evitare una destabilizzazione nei mercati finanziari domestici e al contempo, consente la liquidità necessaria sul mercato di Hong Kong.

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In previsione della fine dello status speciale, Pechino ha ampliato l’operatività di altri hub finanziari, tra cui Shenzhen in casa e una serie di centri finanziari in Asia e in Europa, per diversificare i centri offshore e ridurre la dipendenza da Hong Kong. Al contempo, ha inaugurato il progetto della Greater Bay Area, un’enorme area industriale, economica e finanziaria che integra Hong Kong e Macao con nove città della provincia del Guangdong – comprese le megalopoli di Shenzhen e Guangzhou – in un unico centro economico e commerciale che ambisce a diventare la Silicon Valley cinese. In futuro il ruolo di Hong Kong sarà meno importante di un tempo, e questo è ben chiaro sia alle autorità centrali sia al governo locale. Tuttavia, per il momento è ancora un pilastro del sistema: il modello “un paese, due sistemi” ha da sempre i giorni contati, ma una destabilizzazione precoce e accelerata non è auspicabile per nessuno.

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