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Ripartire dagli insegnanti: la ricetta per la scuola del Sud

I dati Invalsi hanno certificato che gli studenti del Mezzogiorno ottengono risultati molto al di sotto della media nazionale in tutte le prove e per ogni grado di scuola. Centrale è la qualità dell’insegnamento. Ed è lì che bisognerebbe intervenire.

Uno sguardo ai dati Invalsi

I dati discussi dal rapporto Invalsi 2019 ripropongono uno dei problemi più importanti che il nostro paese si trova a dover affrontare: un divario territoriale allarmante nelle competenze dei giovani che frequentano le nostre scuole. Gli studenti che risiedono nelle regioni del Mezzogiorno ottengono risultati molto al di sotto della media nazionale in tutte le prove e per ogni grado del processo formativo. I risultati scolastici dipendono da molti fattori, ma un ruolo cruciale è certamente svolto dalla qualità dell’insegnamento ed è lì che bisognerebbe intervenire.

Consideriamo innanzitutto i risultati ai test di italiano (tabella 1). Mentre in seconda primaria (ex seconda elementare) nessuna regione si discosta in maniera significativa dalla media nazionale, già a partire dalla quinta si incominciano a delineare differenze territoriali: se da una parte Valle d’Aosta, Umbria e Marche ottengono un punteggio significativamente superiore alla media, dall’altra, Calabria, Sicilia e Campania registrano punteggi significativamente più bassi. Le differenze di soli pochi punti in quinta tendono ad aggravarsi man mano che si procede ai gradi superiori. In terza secondaria di I grado (ex terza media) la Calabria, ultima in classifica, presenta un gap di 13 punti rispetto alla media nazionale, che diventano 15 in seconda secondaria di II grado (ex seconda superiore) e 18 punti alla maturità. Non molto diversa la situazione per le altre regioni meridionali, in alcuni casi la differenza emerge più tardi, ma già dalla terza secondaria di I grado (ex terza media) tutte le regioni del Mezzogiorno presentano risultati significativamente peggiori rispetto alla media nazionale.

Lo stesso dato sconfortante si rileva quando si esaminano i risultati ai test di matematica. In questo caso il divario tende a essere ancora più forte. In regioni come Calabria, Sicilia e Sardegna, è di 10-14 punti già dalla quinta primaria per arrivare anche a più di 20 alla fine della scuola superiore. Inutile dire che la situazione non migliora se si considerano le competenze nella lingua inglese (tabella 1).

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Tabella 1 – Risultati prove di italiano, matematica e inglese, punteggi medi

Fonte: Rapporto Invalsi, 2019

Nota: per scuola primaria si intende la ex scuola elementare, la secondaria di I grado indica le ex scuole medie inferiori e quella di II grado le ex scuole superiori.

Il gap e il suo ampliarsi man mano che si arriva ai gradi superiori del processo formativo può essere spiegato dal divario economico tra Nord-Sud? Certamente partire da condizioni socio-economiche disagiate non aiuta nella scuola come, più in generale, nella vita. Ma è solo questo? Non si direbbe: al Sud fanno male anche gli studenti che provengono da famiglie “agiate”. Sembrerebbe piuttosto un problema di malfunzionamento delle scuole, che non è facilmente attribuibile a una carenza di risorse finanziarie, data la notevole disponibilità di fondi europei di cui il Sud ha goduto negli ultimi anni.

Colpisce altresì l’assenza di iniziativa da parte ministeriale. Alla presentazione dei risultati Invalsi il ministro Bussetti si è impegnato a “(…) promuovere un percorso di progettualità partecipata con gli Uffici scolastici regionali (Uussrr) e enti territoriali interni all’ex Obiettivo convergenza, finalizzata alla riduzione dei divari territoriali (…). I territori sono segnati da profonde differenze in termini di spazi, servizi, attività culturali e produttive, condizioni occupazionali, culturali, sociali (…) aspetti ineludibili che condizionano fortemente gli stessi risultati. Noi dobbiamo ripartire da qui: da un dialogo con le famiglie e con il territorio”. Ci si sarebbe aspettati una diagnosi più puntuale, per esempio partendo da una analisi dell’eterogeneità dei risultati tra scuole del Sud (che per altro è più elevata che nelle regioni settentrionali) volta a capire perché alcune riescono comunque a conseguire risultati in linea con la media nazionale. Qual è la ricetta del successo?

Il ruolo dei docenti

Una parte importante della spiegazione potrebbe risiedere nel basso livello di coinvolgimento e motivazione degli insegnanti. Ma perché i docenti che lavorano nelle scuole del Sud fanno peggio dei loro colleghi (molti dei quali sono meridionali) che operano nelle scuole di altre regioni italiane? L’erraticità delle modalità di reclutamento degli insegnanti utilizzate nell’ultimo decennio (si pensi alla sanatoria che ha immesso in ruolo i diplomati magistrali) non ha certamente contribuito alla selezione dei candidati migliori in termini di competenze o maggiormente vocati alla trasmissione della conoscenza. Al Sud a ciò si aggiunge un contesto sociale poco attento al valore dell’istruzione.

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Indubbiamente esiste una parte di insegnanti efficaci, competenti e motivati. Il problema (di natura squisitamente politica) è come indurre questa parte a rivelarsi e come trasferire a essa potere decisionale sull’organizzazione della scuola. Attualmente molti docenti (anche tra quelli meno competenti) sono impegnati a proporre e poi a realizzare progetti di utilità molto incerta. Perché invece non concentrare le energie su quello che certamente serve (rafforzare le competenze di base) e offrire la possibilità a gruppi di insegnanti (per esempio quelli di una sezione) di candidarsi a proporre pratiche didattiche che siano efficaci nell’accrescere le competenze degli studenti e di procedere poi con sistemi rigorosi a accertarne l’efficacia? Si potrebbero individuare così docenti di comprovata efficacia ai quali andrebbe riconosciuto formalmente un ruolo di preminenza (eventualmente associato a un bonus retributivo più adeguato della attuale “valorizzazione del merito”), coinvolgendoli anche nella formazione dei propri colleghi e aprendo per loro una corsia preferenziale per la posizione dirigenziale nelle scuole.

Tutto questo è impossibile da realizzare con l’attuale legislazione sul pubblico impiego e nel contesto delle relazioni sindacali di oggi. Ma l’emergenza evidenziata dai dati sugli esiti scolastici richiede l’adozione di strumenti emergenziali di contrasto, che facciano leva su risorse esistenti, rigorosamente selezionate. Temiamo invece i progetti speciali a pioggia – “(…) un progetto di intervento coordinato dal Miur (…) finalizzato al miglioramento dei risultati” ha promesso il ministro – per la loro limitata capacità di discriminazione e di valorizzazione delle buone pratiche non risulteranno minimamente incisivi nel ridurre i divari.

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  1. Antonia Belletti

    AL sud, come al nord, la scuola conta insegnanti più preparati e capaci e insegnanti meno preparati e meno capaci, questi ultimi non sono concentrati tutti al sud. La causa della ridotta preparazione dei ragazzi dunque, non sta nella preparazione dei docenti. A mio parere, sta soprattutto nel contesto socio economico e culturale di livello basso da cui i ragazzi provengono ed evolvono. La scuola italiana è in grado di preparare le eccellenze, lo confermano coloro che migrano all’estero e vengono accolti a braccia aperte, perché preparati, ma non ha gli strumenti per elevare culturalmente chi parte da livelli socio-economici bassi.

  2. Mario Morino

    Scusate, mi sembra la scoperta dell’acqua calda. O qualcuno pensa che un ipotetico test INVALSI in California darebbe risultati peggiori che in Louisiana o che il Massachussets verrebbe superato dal Sud Carolina?

  3. Henri Schmit

    Ovviamente NON si tratta di portare gli insegnanti meno preparati del sud al livello superiore dei loro colleghi del nord. Anche al nord l’insegnamento non è di livello qualitativo adeguato. La clamorosa differenza geografica accertata dal rapporto Invalsi potrebbe essere legata alla maggior diffusione del modello comportamentale diciamo della raccomandazione al sud che non al nord. In un capoluogo pugliese i genitori giudice e avvocato di due alunne con voti non ottimi hanno protestato, privatamente, prima con l’insegnante, poi con il preside che ha consigliato all’insegnante di lasciar perdere, però senza successo; i genitori sono passati alle minacce, “capirà con chi a da fare!” ma l’insegnante ha tenuto duro. I genitori sanno quanto vale la pagella in un paese tutto formalistico quasi da ancien régime, per intraprendere poi una carriera pubblica, quella più ambita, anzi sempre di più (crisi insegnando). Secondo me è quella la differenza fra un nord mediocre (le mie figlie hanno iniziato il ciclo scolastico a Ferrara e a Milano quando la Moratti di un colpo ha cancellato là riforme Berlinguer appena votata) e un sud marcio sotto il profilo pubblico. Ma ovunque ci sono insegnanti eccellenti e coraggiosi, e tanti altri. Bisogna avere una visione condivisa di lungo termine e realizzarla con perseveranza. L’insegnamento non deve entrare nella campagna elettorale, tranne per decidere quanto investire. I comportamenti atavici sono purtroppo i più difficili a cambiare.

  4. Enrico Motta

    Sulle carenze in Italiano nelle prime classi sarebbe interessante conoscere se e quanto influisce l’uso dei dialetti, che sono la lingua madre in vaste zone del paese, ma non in modo omogeneo. Mi permetto anche un consiglio, anzi due: Abolire l’Inglese alle elementari, che dà risultati trascurabili, e abolire la seconda lingua straniera alle ex medie. Le ore recuperate dovrebbero poi essere utilizzate per migliorare l’italiano alle elementari, e Italiano o Inglese alle ex medie.

    • Lorenzo

      Non sono affatto d’accordo. Esagera quando dice che “… l’uso dei dialetti, che sono la lingua madre in vaste zone del paese …” e raccomanda pratiche da scuola dell’Ottocento. Viceversa è stato proprio l’introduzione dello studio delle altre lingue che ha mostrato l’inadeguatezza (e la vecchiaia anagrafica e culturale) di molti spezzoni della classe insegnante. Nei POF, offrire l’insegnamento di una lingua significa stipendiare insegnanti madrelingua oppure insegnanti che abbiano seguito corsi di specializzazione in tale lingua, non insegnanti che controvoglia hanno conseguito un attestato di 20 ore di “perfezionamento”. Il risultato è una classe docente ignorante e demotivata che, spesso, chiederà consiglio agli allievi sul significato di “follower” oppure “download” … e qui si apre l’ulteriore piaga della somma impreparazione in ambito informatico dove è già in atto un’inversione di ruoli discente/docente con evidenti catastrofi educative.

  5. Giuseppe Terruzzi

    E’ bene che si dia risonanza a risultati che Invalsi rileva e pubblica da anni. Le radici del gap sono descrivibili in termini territoriali? Se sì, allora occorre comparare parametri territoriali e risultati nell’istruzione. Invalsi lo fa, pubblicando indici da cui risulta l’incidenza dei parametri socio-economici sui risultati scolastici. Si scopre l’acqua calda? In parte sì. Ma Invalsi offre anche altri dati: eccellenze al sud e forte varianza fra i risultati di scuole dello stesso territorio e fra classi della stessa scuola. Si tratta di indicatori su cui lavorare. La proposta dei Proff. Checchi e De Paola può offrire materiale utile alla riflessione. Mancano, però, a mio parere, una classe politica e un contesto sindacale capaci di vera innovazione. Che si può trovare, promossa da singoli o meglio da gruppi di docenti e dirigenti. Ma il cammino innovativo è lento e sarà lungo.

  6. Luca Cigolini

    “eventualmente associato a un bonus retributivo”. Non eventualmente. La proposta è molto impegnativa: o ci si decide a pagare di più chi lavora di più e con maggior efficacia o non si otterrà nulla. L’impegno costa.

  7. rosario nicoletti

    Per comprendere i dati Invalsi si deve partire da un assunto: la scuola non esercita (non può esercitare) alcuna “pressione” sugli studenti. Per dirla brutalmente: studia solo chi ne ha voglia, o per propria iniziativa o per pressione della famiglia e dell’ambiente. Ne consegue che in ambienti socialmente e culturalmente degradati sono pochi quelli che seguono con profitto. Poi, l’attuale generazione degli insegnanti è cresciuta in una scuola con caratteristiche simili alla attuale, ed è massima la difformità nella preparazione ed attitudine all’insegnamento. Tutto sommato, considerando il disastro generale, l’esistenza di giovani che hanno una buona preparazione, deve considerarsi un miracolo.

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