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Se il Pil non cresce la disoccupazione non scende

Qualche calcolo a partire dai dati sulla disoccupazione degli ultimi dieci anni mostra l’inversione di tendenza consentita dalle riforme Poletti-Renzi e il contributo della crescita del Pil al calo dei senza lavoro. Mentre è presto per valutare gli effetti del “decreto dignità”.

Un metodo per interpretare le variazioni della disoccupazione

I buoni dati di maggio sul mercato del lavoro (disoccupazione sotto al 10 per cento per la prima volta dal 2012; percentuale di occupati sulla popolazione in età lavorativa al livello record del 59 per cento) sono stati registrati con giusta soddisfazione del ministro del Lavoro Luigi Di Maio che, dal giugno 2018, aveva assistito impotente, e forse un po’ deluso, a oscillazioni mensili della percentuale dei disoccupati intorno al 10,5 per cento della forza lavoro. È ancora presto per dire se siamo davanti a una inversione di tendenza. Usando i numeri degli ultimi dieci anni si può però fare qualche calcolo in funzione del quale valutare se e quanto le variazioni nei dati mensili siano destinate a durare.

A far andare su e giù la disoccupazione sono sostanzialmente due circostanze. La prima è data dalle caratteristiche di maggiore o minore flessibilità nelle assunzioni e nei licenziamenti del mercato del lavoro. Sono caratteristiche costanti per lunghi periodi di tempo, a meno che non intervenga una riforma legislativa o regolamentare. Esempi di riforme sono il “decreto Poletti” del febbraio 2014, volto a facilitare la stipula e il rinnovo di contratti di lavoro precario, e il Jobs act di Matteo Renzi che, associato nel 2015 e 2016 a sconti contributivi per chi assumeva lavoratori a tempo indeterminato, voleva incoraggiare appunto la stipula di contratti di lavoro permanenti. Altro esempio recente è il cosiddetto “decreto dignità” del ministro Di Maio che aveva l’obiettivo opposto del decreto Poletti, mirando a favorire le conversioni dei contratti di lavoro verso il tempo indeterminato.

Oltre all’influenza delle regole del mercato del lavoro, il tasso di disoccupazione subisce anche oscillazioni di breve periodo che per lo più derivano dalla crescita del Pil del trimestre precedente: se il Pil sale, le aziende ci pensano un po’ per capire se l’aumento è duraturo, ma poi assumono di più e la disoccupazione scende. Se il Pil scende, accade il contrario. Oltre al Pil, di trimestre in trimestre, pesano anche altre circostanze difficili da misurare.

Semplificando, un riferimento per ragionare è dunque quello di ritenere che la variazione della disoccupazione trimestrale sia una costante (determinata dalle regole del mercato del lavoro) a cui si aggiungono gli effetti delle variazioni del Pil trimestrale rispetto al trimestre precedente (più altri eventuali effetti residuali che non riusciamo a capire o misurare).

Usando i dati trimestrali degli ultimi dieci anni (dal primo trimestre 2010 al primo trimestre 2019) e guardando alle relazioni medie tra le variabili, si possono così calcolare tre numeri:

  1. la costante che misura la variazione del tasso di disoccupazione tra il 2010 e l’inizio del 2014 (cioè prima delle riforme Poletti e Renzi). È un numero positivo e pari a 0,22
  2. la costante che misura l’evoluzione della disoccupazione dopo le riforme Poletti e Renzi. È un numero statisticamente pari a zero
  3. il coefficiente che lega la variazione nella disoccupazione trimestrale alla crescita del Pil del trimestre precedente. Il coefficiente è un numero negativo e pari a -0,37. È il cosiddetto coefficiente “di Okun”, da Arthur Okun, il consulente di Robert Kennedy che lo calcolò per primo negli anni Sessanta con dati Usa.
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Cosa dicono le statistiche degli ultimi dieci anni

Sugli ultimi dieci anni i dati mostrano due cose semplici. La prima è sul 2010-2014. Se in quegli anni la crescita del Pil fosse stata uguale a zero in tutti i 16 trimestri tra inizio 2010 e inizio 2014, la disoccupazione sarebbe salita di 0,2 punti circa in ogni trimestre e dunque di 3,5 punti in quattro anni (=0,22 moltiplicato per 16): dal 7,2 per cento del primo trimestre 2010 al 10,7 per cento del primo trimestre 2014.

La vera disoccupazione di inizio 2014 è stata invece ben più elevata, pari al 12,7 per cento, e i calcoli dicono che circa metà dell’aumento aggiuntivo di due punti è spiegato dal calo del Pil. Infatti, tra inizio 2010 e inizio 2014, il Pil scese del 3 per cento, e -3 moltiplicato per -0,37 fa circa +1,1 punti percentuali, circa la metà dell’aumento di 2 punti da 10,7 a 12,7 per cento. L’altro punto percentuale di maggiore disoccupazione è probabilmente da attribuire all’esaurirsi della protezione temporaneamente garantita dai programmi di cassa integrazione – attivati massicciamente durante la crisi 2008-2009, ma che non è stato più possibile rinnovare.

Poi, dal primo trimestre 2014, arrivano le riforme di Poletti e Renzi (l’una qualitativamente di segno opposto rispetto all’altra, ma comunque tutte e due con l’obiettivo di incoraggiare l’occupazione). La disoccupazione scende dal 12,7 al 10,5 per cento a metà 2018. Dai calcoli viene fuori che le riforme Poletti-Renzi sembrano aver trasformato la crescita per così dire “naturale” della disoccupazione del periodo 2010-2014 (era un +0,22 per trimestre, forse attribuibile alla lunga coda della crisi 2008-09) in un coefficiente trimestrale pari a zero. Come dire che, in assenza di crescita del Pil, da inizio 2014 a metà 2018, la disoccupazione sarebbe rimasta quella che era. Non la rivoluzione sbandierata da Renzi, ma una chiara inversione di tendenza rispetto all’andamento precedente. I dati indicano che il calo della disoccupazione dal 2014 a metà 2018 sarebbe invece da associare essenzialmente alla crescita del Pil, il cui aumento complessivo (del 4,4 per cento) moltiplicato per -0,37 (il coefficiente di Okun) spiegherebbe un calo della disoccupazione di circa 1,6 punti percentuali (la gran parte della riduzione verificatasi).

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Cosa sta succedendo ora?

I calcoli riportati sopra consentono anche di fare qualche commento su ciò che è accaduto nell’ultimo anno e una previsione su ciò che potrebbe accadere al mercato del lavoro.

Per il momento non è ancora possibile valutare se e in che senso il “decreto dignità” – che ha prodotto i suoi primi effetti nel novembre 2018 – ha modificato la tendenza del mercato del lavoro, cioè se lo zero calcolato per gli anni 2014-18 è cambiato nel tempo con il decreto.

Si può però dire qualcosa su quanta parte del (possibile, ma ancora da consolidare) calo della disoccupazione da 10,5 al 10 per cento di aprile-maggio sia riconducibile al Pil. Pare non molto. Il Pil, infatti, ristagna da un anno, mentre la disoccupazione è appunto calata di mezzo punto. Non è però impossibile che i dati positivi di aprile e maggio risentano almeno parzialmente del ritorno alla crescita del Pil nel primo trimestre 2019 (ma 0,1 di crescita moltiplicato per -0,37 produce un numero piccolissimo, pari a nemmeno un decimo del calo della disoccupazione osservata).

Per fare calcoli più precisi occorrerà aspettare qualche trimestre, sia per trarne conclusioni ottimistiche che pessimistiche. Una corretta valutazione delle politiche richiede un’attenta analisi dei dati, non la rincorsa del numero mensile che più si presta a sostenere tesi preconcette. L’analisi dell’esperienza passata suggerisce però almeno una conclusione: senza crescita del Pil la disoccupazione non scende in modo duraturo.

Equazione stimata alla base dei numeri riportati nell’articolo

Nota: qui sono scaricabili i dati

La variazione della disoccupazione spiegata dai calcoli indicati è il 55 per cento del totale e i test statistici dicono che non c’è evidenza di errata specificazione della relazione (il test di Durbin-Watson vale 2,1). I coefficienti stimati per il periodo 2010-14 e per la relazione tra crescita e disoccupazione (0,22 e -0,37) sono statisticamente significativi. Cioè i loro valori sono abbastanza ragionevoli da farne un punto di riferimento per l’analisi. Il coefficiente stimato per il periodo 2014-19 è invece sostanzialmente uguale a zero.

 

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13 commenti

  1. Savino

    Se le redini dell’economia rimangono in mano agli anziani e se la rendita continua ad essere considerata prima di ogni cosa, fino al lime del tesoreggiamento sterile, la disoccupazione non scende davvero.

  2. Giustino Zulli

    Con oltre 160 crisi aziendali aperte al Ministero del Lavoro a cui, almeno sinora, non si riesce a dare soluzione positiva, con dati diffusi dalle OO.SS. CGIL-CISL-UIL secondo i quali ci sarebbe stata una DIMINUZIONE delle ore lavorate quantificate in un miliardo, con ancora tanti lavoratori in CIG che risultano comunque occupati, come si fa ad esaltarsi per il presunto calo dei disoccupati? Io ritengo che i dati dovrebbero contenere tutti questi aspetti. Altrimenti, almeno a mio parere, si contribuisce a confondere il lettore.

  3. Ezio

    L’articolo non evidenzia la ripartizione tra il lavoro nella PA e quello nelle imprese. Dalle informazioni giornalistiche sembra che il maggior incremento sia nella PA, che se confermato altro non è che incremento di spesa corrente per oggi e per domani.

  4. Virginio Zaffaroni

    Data quindi per prematura una valutazione oggi del Decreto Di Maio, mi domando se si potrebbero ex-ante azzardare comunque ipotesi di scuola. Il prof. Daveri ha preferito non addentrarsi in questo terreno. Rimane comunque la domanda a oggi senza risposte: dato un PIl pari a zero o giù di lì, dato il coefficiente di Okun a totale riposo, dove trovare ragioni capaci di spiegare il fenomeno? I dati Istat errati? Un PIL sommerso e non catturato che si manifesta con un po’ di occupati? Qualche strano effetto del decreto Di Maio a cui neanche questo genio aveva pensato? Ma io avevo capito che tale Decreto avrebbe migliorato la qualità dell’occupazione data, ma non l’avrebbe accresciuta, anzi.

    • francesco daveri

      Concordo con il suo riassunto. Non ho un buona spiegazione. L’effetto del decreto dignità sulla disoccupazione dovrebbe essere vicino a zero. Il mio suggerimento è di aspettare qualche mese per capire meglio cosa sta succedendo.

  5. Enrico V

    Potrebbe esserci stata una emersione del nero. L’unica novità fiscale è la fatturazione elettronica. Se funziona costringe chi faceva nero a rendere deducibili i costi del personale e l’unico modo è fare emergere il lavoro nero. Prof. Daveri può essere, considerati anche gli effetti della fattura elettronica sul gettito?

  6. Nell’economia dei consumi, a differenza di quella della produzione, è la spesa aggregata a generare lavoro e a remunerarlo
    Mauro Artibani, l’economaio

  7. Fabio Fais

    Analisi molto interessante. Considerando che la prima dummy copre la crisi dello spread del 2011, sarebbe interessante valutare l’introduzione di una variabile legata all’intervento della BCE (e/o come variabile strumentale alla crescita del PIL, che so, la variazione degli assets o la variazione della pendenza della curva europea o di quella italiana) per provare a catturare quanta parte della riduzione della disoccupazione è effettivamente legata a politiche economiche dei governi italiani o semplicemente alla contingenza dello scenario economico europeo?

    • francesco daveri

      Grazie. Ho proprio messo a disposizione i miei dati perché chi vuole può raffinare l’analisi a piacere. La semplicità ha i suoi vantaggi, tuttavia. Con poche osservazioni non si possono verificare troppe ipotesi. Per verificare ipotesi più complesse sarebbe meglio avere più dati. Se no meglio stare sul semplice.

      • Fabio Fais

        Grazie Professore per il dettaglio sulle evidenti limitazioni tecniche che non avevo considerato. A prescindere da questo, secondo Lei avrebbe senso considerare nell’impatto della BCE cui ho pensato e, se si, come potrebbe essere inserito nell’analisi in una maniera alternativa? Grazie

  8. Maurizio Cocucci

    Quando si parla di occupazione e disoccupazione si dovrebbe però scendere nelle varie aree geografiche. Nel nordest ed in misura minore nel nordovest il tasso di disoccupazione è a livelli ben inferiori rispetto ai massimi raggiunti a fine 2012 e comunque a livelli al momento in qualche modo accettabili. Dove invece continua ad essere alta la disoccupazione è nel centro e soprattutto nel Mezzogiorno. Varare riforme del lavoro aiuta ma in parte e quasi esclusivamente dove il lavoro si crea. Per sviluppare il Mezzogiorno occorre smetterla una buona volta di puntare su una improbabile industrializzazione che non è mai avvenuta nonostante vari tentativi nei decenni dal dopoguerra e mai avverrà, quantomeno nel breve e medio termine. Il Meridione deve prendere esempio dal Triveneto dove lo sviluppo è avvenuto anche se non in gran parte grazie al turismo che ha fatto da volano e tale crescita si è trasferita ad altri settori quali l’artigianato e quindi alle industrie intese come aziende di medio grandi dimensioni. Però se ne parli ci si sente rispondere che “non possono fare tutti i camerieri e gli addetti in albergo!”. Come se il turismo non coinvolgesse edilizia, arredamento, architetti, ingegneri, mezzi di trasporto e via dicendo.

  9. Michele

    Che le riforme Poletti-Renzi abbiamo ridotto la disoccupazione lo si può dimostrare solo usando i numeri in modo selettivo. Ci sono bellissimi siti con fantasiose raccolte di correlazioni spurie.

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